A leggere il testo integrale (errori e maiuscole compresi) delle lettere con cui Donald Trump lastrica il percorso verso una guerra commerciale universale, si rafforza la convinzione che gli uffici della Casa Bianca si limitino a trascrivere fedelmente, anche nella punteggiatura, le bordate in diretta delle serate di un presidente che, forse, soffre di cattiva digestione. Politicamente, non sarebbe una informazione rilevante, se non fornisse il tocco finale a quella pièce del teatro dell’assurdo in cui si risolve questa storia di Trump e delle tariffe.
Qui non è in discussione la validità o meno di una politica di protezionismo da parte non di una economia emergente, ma di una economia dominante. Questo sarebbe un dibattito serio. Il punto, invece, è l’interpretazione che ne dà Trump, dove l’aspetto bullistico è rivelato dall’assenza di ogni giustificazione di fatto e dall’impossibilità di soddisfare, comunque, le richieste neanche formalmente presentate, ma che si possono solo ipotizzare, di Washington. Siamo nell’orizzonte neanche del tributo che la capitale dell’impero reclama dai paesi sottoposti, ma del pizzo mafioso.
La controversia, infatti, è inesistente. Secondo dati ufficiali, la tariffa media che la Ue applica sulle importazioni non agricole dagli Usa è l’1 per cento. Su quelle agricole è il 3,9 per cento. Non ci sono margini per fare concessioni che riequilibrino l’interscambio Usa-Ue, perché, anche volendo, non c’è niente – letteralmente – da concedere. E, infatti, se fate caso, Trump non fa richieste precise.
La Casa Bianca, inoltre, basa la sua estorsione su una lettura – sbagliata al di là del ridicolo – del deficit americano verso l’Europa. Trump ignora che il complesso dell’interscambio viene colto dalla bilancia dei pagamenti, non dalla sola bilancia commerciale. Ora, mentre sui beni (agricoli e industriali) l’America registra un deficit di 198 miliardi di euro, sui servizi (il pilastro dell’economia moderna, pensate a Google e Amazon) ha un avanzo di 108 miliardi di euro. Lo squilibrio effettivo, dunque, è di 90 miliardi di euro, su un interscambio complessivo che vale più di 1.500 miliardi.
Solo che neanche quello squilibrio è reale e Trump dovrebbe, piuttosto, indagare a casa propria. Una delle particolarità dell’interscambio Usa-Ue, infatti, è che, dopo Germania e Italia, il paese che registra un avanzo maggiore verso l’America è la piccola, minuscola Irlanda, che vende agli americani 6 volte quello che compra da loro. Come è possibile che 5 milioni di irlandesi mettano insieme quasi 70 miliardi di euro di avanzo commerciale verso la gigantesca economia americana? Togliete questo deficit irlandese e il disavanzo americano verso l’Europa praticamente scompare.
Infatti, non sono gli irlandesi. Sono le multinazionali americane – Big Pharma e Silicon Valley – che convogliano i propri profitti a Dublino, invece che registrarli a Washington, per approfittare della tassazione di favore che offre l’Irlanda. L’ironia è che, se la Ue costringesse finalmente l’Irlanda a rinunciare al suo status di paradiso fiscale, lo squilibrio commerciale Usa-Ue si azzererebbe e Trump potrebbe contare su un sostanzioso incremento di gettito.
Ma al presidente americano piace soprattutto agitare trofei. L’aspetto esasperante delle guerre commerciali di Trump, al di là delle sue ragioni, è, infatti, la nebbia che le circonda. Concretamente, questi dazi come funzionano? Se lo chiedono le aziende del Vietnam (un grosso partner commerciale per gli Usa), visto che Hanoi ha accettato un aumento dei dazi del 20 per cento, che forse, però, è il 40, non si sa, comunque, come e da quando. Sempre ammesso che restino 20 o 40, perché Trump, stasera, potrebbe anche cambiare idea.
Anche il teatro dell’assurdo, comunque, fa danni. Se (chi lo sa?) Trump finisse per applicare davvero alle importazioni dall’Europa un dazio del 30 per cento, il colpo verrebbe avvertito in Italia, anche se non dove più si crederebbe. Più carrelli elevatori che parmigiano, vitamina D piuttosto che Ferrari, borsette e gioielli. E’ roba che riguarda 60 miliardi di euro di fatturato e oltre 150 mila posti di lavoro. Concentrati, però, in pochi settori. L’intero deficit Usa è, del resto, relativo solo ad alcuni paesi.
La notazione è importante, perché se si guarda, invece, al complesso della Ue, l’impatto dei dazi americani è circoscritto. Presi tutti insieme, i 27 paesi della Ue, rinunciando del tutto a esportazioni verso gli Stati Uniti, perderebbero l’equivalente del 3 per cento del Pil, un ammontare consistente, ma non sconfinato. Cosa vuol dire? Che esiste in qualche misura la possibilità di tamponare un calo dell’export verso gli Usa dando fiato alla domanda interna, oggi – dicono le statistiche – piuttosto asfittica. In fondo, la strada è quella già indicata dalla Germania di oggi, dove si sta lavorando, con massicci piani di investimento interni, per lasciarsi alle spalle l’epoca del paese capace soprattutto di esportare. La stessa strada indicata da Draghi, secondo il quale i dazi americane sarebbero meno gravi degli ostacoli che la stessa Ue pone alla propria economia, non realizzando tutte le potenzialità del mercato unico. Con il sostegno di una politica più accomodante della Bce (già oggi preoccupata dal ristagno dell’economia europea), una Ue più grintosa sulle proprie riforme potrebbe ricavare pure benefici dalla fregatura dei dazi americani.
Anche perché l’imbarcata protezionista di Trump potrebbe non esaurirsi con la sua presidenza e potremmo avere a che fare a lungo con un mercato americano che non torna più quello di prima. O forse sì, come saperlo? Il paradosso è che, in fondo, quello che accadrà ora e nei prossimi anni dipende dall’attendibilità di un folto numero di economisti, al top della professione. Quasi tutti prevedono che, abbastanza in fretta, i dazi di Trump produrranno una impennata inflazionistica negli Usa che costringerà la Casa Bianca a rivedere i suoi piani. Per ora, l’impennata non si vede e non sempre i premi Nobel ci azzeccano.
Maurizio Ricci




























