Uno studio condotto da Censis e Confcooperative sostiene che in Italia i giovani che lavorano valgono 46,5 miliardi di euro, quasi il 3% del Pil e, in particolare, la fascia compresa tra i 15 e i 29 anni “che lavorano sono 2,630 milioni, pari all’11,7% degli occupati complessivi. E incidono sui redditi da lavoro per il 7,3%: un valore pari a 46,5 miliardi, ovvero il 2,8% del Pil. Con differenze tra lavoro dipendente e indipendente: incidono per l’8% dei redditi da lavoro dipendente e per il 5,3% dei redditi da lavoro autonomo”.
I Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) sono invece 2,349 milioni. L’aumento rispetto al 2007, “quando erano 1,788 milioni, è stato rilevante: +31,4%. Il picco più elevato è stato raggiunto nel 2014 con 2,413 milioni. Il mancato inserimento dei Neet nel mercato del lavoro si traduce per l’Italia in un costo per perdita di produttività di circa 21 miliardi, pari all’1,3% del Pil”.
Censis e Confcooperative, però, sottolineano anche la presenza degli “Eet (employed-educated and trained), i giovani che ce la fanno e vincono la crisi con servizi avanzati e web”. Oggi i titolari d’impresa giovani sono 175mila, “di cui il 24,7% nel Nord-ovest, il 15,7% nel Nord-est e il 18,5% al Centro, mentre nel Mezzogiorno la quota raggiunge il 41,1%.”
La dinamica positiva, affermano Censis e Confcooperative, “vede crescere del 53,4% il numero dei giovani titolari d’impresa nei servizi di informazione e altri servizi informatici, del 51,5% nei servizi per edifici e paesaggio, del 25,3% nei servizi di ristorazione”. Nelle attività legate “alla gestione di alloggi per vacanze e altre strutture per soggiorni brevi l’incremento è del 55,6%”.
Raddoppiano inoltre “i giovani imprenditori nelle attività di supporto per le funzioni d’ufficio e i servizi alle imprese (+113,3%)”. Considerando solo i settori in cui c’è una dinamica positiva, “tra il 2009 e il 2016 i titolari d’impresa giovani aumentano del 32%, passando da 27.335 a 36.079.
Oggi, secondo lo studio, “il 43,5% di chi si è diplomato nel 2011 lavora e, fatto 100 il totale di chi lavora, il 25,3% è occupato con un contratto a tempo indeterminato e il 33,8% con un contratto a termine”. L’11,5% ha scelto la strada del lavoro autonomo, mentre l’8,7% afferma di lavorare senza contratto. In termini economici, “sono i dipendenti a tempo indeterminato a ottenere il livello retributivo più elevato, con un importo pari a 1.100 euro, mentre chi lavora come autonomo guadagna in media 811 euro, cioè meno del valore medio riconducibile a tutti i diplomati occupati (850 euro)”.
Nel 2015, a quattro anni dalla laurea, “il 72,8% dei laureati di primo livello dichiara di lavorare, contro il 19,7% che è in cerca di lavoro. I laureati magistrali hanno una migliore condizione lavorativa, dal momento che dichiara di lavorare l’83,1% del totale. La quota di chi è in cerca di lavoro è pari al 13,1%”. La quota di dirigenti, imprenditori e professionisti “raggiunge il 59,2% per i laureati di secondo livello, mentre si ferma al 23,9% per chi è in possesso di una laurea triennale. La distanza fra i due gruppi si può misurare anche in base alla differenza di reddito guadagnato, pari in media a 117 euro a favore dei laureati di secondo livello. Questi ottengono 1.400 euro di reddito netto mensile, ma con una forbice non indifferente tra uomini e donne: rispettivamente, 1.575 euro e 1.300 euro”.



























