L’ottava edizione del “Atlante dell’Infanzia a rischio 2017 – Lettera alla scuola” curato da Save the Children ed edito da Treccani, scatta la fotografia della condizione dell’infanzia nel nostro Paese, da cui emergono risultati tutt’altro che positivi.
In particolare, il rapporto evidenzia che in Italia vivono 669.000 famiglie con minori in condizione di povertà assoluta che, una volta sostenuti i costi per la casa e per la spesa alimentare, possono spendere solo 40 euro per la cultura e 7,60 per l’istruzione al mese.
I bambini in tale situazione sono 1 su 8, 1.292.000, il 14% in più rispetto all’anno precedente, e rappresentano il 12,5% del totale dei minori (il 12% al Nord, l’11,6% al Centro, il 13,7% al Mezzogiorno).
L’inasprimento delle condizioni di povertà ha colpito soprattutto le famiglie numerose, con genitori giovani, di recente immigrazione. Una famiglia di origine straniera con bambini su tre vive in povertà assoluta. Il peggioramento della situazione economica è confermato dall’incremento dei minorenni in povertà relativa che nel 2016 hanno raggiunto il 22,3% (+20,2%).
Secondo il dossier, in un’Italia in cui le famiglie con minori in povertà assoluta in dieci anni sono quintuplicate, che si trova a fare i conti con gli effetti della recessione sulla motivazione dei giovanissimi e che è sempre più vecchia (con oltre 165 anziani ogni 100 bambini), alunni e studenti spesso non trovano nella scuola risposte efficaci alle sfide di oggi. Gli studenti italiani mostrano un elevato tasso di ansia; si registra l’assenza di valutazione e apprezzamento per gli insegnanti; il 43% non riceve alcun feedback sul suo lavoro; le strutture sono spesso inadeguate, con 4 istituti su 10 non dotati di laboratori a sufficienza.
La correlazione tra la condizione socio-economica e il successo (o l’insuccesso) scolastico in Italia è più forte che altrove: nelle scuole che presentano un indice socio-economico basso l’incidenza di ripetenze rispetto alle scuole con un indice elevato è 23 punti percentuali maggiore, laddove la differenza media nei paesi Ocse è del 14,3%. L’Ocse calcola poi che in Italia la probabilità di ripetenze aumenta per i maschi (+104%) e per gli alunni di origine migrante (+117%).
Nel sistema scolastico nazionale le diseguaglianze sociali continuano a riflettersi sul rendimento degli alunni. Negli istituti con un indice socio-economico-culturale più basso, infatti, più di 1 quindicenne su 4 (il 27,4%) è ripetente, mentre negli istituti con indice alto la quota scende quasi a 1 su 23 (il 4,4%). Uno studente di quindici anni su 2 (il 47%) proveniente da un contesto svantaggiato, inoltre, non raggiunge il livello minimo di competenza in lettura, otto volte tanto rispetto a un coetaneo cresciuto in una famiglia agiata.
Sebbene negli ultimi decenni il tasso di dispersione scolastica si sia progressivamente abbassato, il fenomeno continua a rappresentare una delle principali sfide con cui la scuola italiana deve fare i conti, soprattutto tra i bambini e i ragazzi che vivono in condizioni di disagio. Nelle scuole secondarie di secondo grado il tasso di abbandono in un anno è stato del 4,3%, pari a 112.000 ragazzi, mentre in quelle di primo grado il tasso scende all’1,35%, che corrisponde a 23.000 alunni.
Tra i ragazzi delle secondarie di II grado, possibilità superiori di abbandono sono registrate tra i maschi, in particolare tra coloro che vivono nelle regioni del Mezzogiorno, soprattutto in Campania e Sicilia, e tra quelli con i genitori di origine straniera.
Il divario non è solo tra Italia e Europa, ma anche tra Nord e Sud del territorio nazionale: nel Settentrione i quindicenni in condizioni socio-economiche svantaggiate che non raggiungono le competenze minime nella lettura sono il 26,2%, cifra che sale al 44,2% nel Meridione.
In Italia meno di un giovane laureato su 2 ha un lavoro (nell’Unione Europea il 71,4% di chi ha terminato l’università trova un’occupazione, in Italia appena il 44,2%, nel Mezzogiorno il 26,7%): non sorprende, dunque, che gli “scoraggiati” tra i 15 e i 34 anni, i quali pur dichiarandosi disponibili a lavorare hanno smesso di cercare un’occupazione, siano cresciuti del 43% in dieci anni, raggiungendo quota 420.000. Tra questi 340.000 si trovano nel Sud.
E.M.




























