Ci ha lasciati a soli 76 anni (posso dirlo io che ne ho 84) Paolo Nerozzi, già segretario generale della Funzione Pubblica Cgil, poi membro della segretaria confederale e quindi senatore del Partito Democratico dal 2008 al 2013. Il sindacato lo ricorda come «protagonista di una stagione straordinaria di cambiamenti che hanno dato forza al lavoro pubblico», e segnala in particolare che a lui principalmente, assieme al professor Massimo D’Antona (assassinato dalle nuove BR), si deve la legge sulla rappresentanza nel pubblico impiego. A ricordarlo anche il presidente del Senato Ignazio La Russa, che ha espresso alla famiglia le condoglianze sue personali e del Senato, cui si aggiunge l’omaggio del sindaco di Bologna e di tutto il Pd locale e nazionale, che lo ricorda come un protagonista della vita sociale e politica di Bologna e del Paese, la cui morte lascia un vuoto nel mondo del lavoro e della politica.
Io non solo ho conosciuto Paolo, ma ho lavorato a lungo con lui, fin dai primi momenti del suo impegno nel sindacato. Se ben ricordo venne a lavorare nella Cgil dell’Emilia Romagna all’inizio degli anni ’80 quando io ne ero il segretario generale (primo ed unico socialista nella storia del Dopoguerra). Nerozzi – dirigente serio e leale – costruì un rapporto di forte intesa con Alfiero Grandi, che allora era il mio segretario aggiunto. Poi passò dopo alcuni anni alla direzione della Funzione Pubblica e quando Alfiero venne chiamato a dirigere la Federazione nazionale lo volle con sé in segreteria a Roma. Eletto Grandi nella segreteria confederale, Nerozzi lo sostituì alla guida della categoria, prima di passare lui stesso, sempre succedendo ad Alfiero – nella segreteria di Corso d’Italia dapprima con Sergio Cofferati, poi con Guglielmo Epifani, allora in qualità di “primo” degli ex comunisti.
Eletto senatore del Pd nella XVI Legislatura – la stessa in cui io fui divenni deputato del PdL – Nerozzi, forte della sua esperienza, divenne un protagonista, pur dall’opposizione, delle politiche del lavoro, nell’ambito della Commissione a Palazzo Madama. Ci incontravamo qualche volta nella Commissione bicamerale di vigilanza sugli enti previdenziali della quale eravamo entrambi componenti. In occasione delle primarie del 2009 fu uno dei numerosi e autorevoli ex comunisti del Pd che si schierarono con Dario Franceschini.] Nel 2010 presentò un disegno di legge per l’introduzione di un contratto di lavoro denominato “contratto unico di inserimento” che riprendeva le proposte dei riformisti del Pd, da Ichino a Boeri, da Garibaldi a Leonardi, fino a Gino Giugni.
“L’idea – era scritto nella relazione introduttiva del ddl – è quella di introdurre nell’ordinamento una fattispecie contrattuale che, lungi dall’incrementare la frammentazione esistente, consenta piuttosto di ricomporre in uno schema unitario le prestazioni oggi più esposte alla precarizzazione, offrendo contestualmente alle imprese quella maggiore flessibilità in entrata necessaria per scommettere con minor rischio sulle performance di produzione nel medio periodo.
Il nuovo strumento contrattuale – denominato “contratto unico di ingresso” (CUI) – si candida infatti a diventare la forma “tipica” di prima assunzione alle dipendenze del medesimo datore o committente(art.1). Concepito secondo un’articolazione in due fasi – una “fase di ingresso”, di durata non superiore a tre anni, e una successiva “fase di stabilità” – il CUI è a tutti gli effetti un contratto di dipendenza a tempo indeterminato caratterizzato da un meccanismo di tutela progressiva della stabilità (art. 2).
Esso prevede, nel passaggio di fase, un grado crescente di protezione contro il licenziamento individuale. Durante la fase di ingresso, infatti, in caso di licenziamento per motivi economici (o comunque diversi dal licenziamento disciplinare), si dispone che al lavoratore venga in ogni caso riconosciuta la tutela obbligatoria, nella forma di un’indennità di licenziamento di ammontare pari a cinque giorni di retribuzione per ogni mese di prestazione lavorativa”. E proseguiva: “A decorrere dall’inizio della fase di stabilità, la protezione si espande alla tutela reale, laddove già prevista dall’ordinamento vigente. Per entrambe le fasi resta comunque ferma l’applicazione della normativa vigente in caso di licenziamento disciplinare e di licenziamento del quale il giudice ravvisi un motivo determinante discriminatorio o un motivo futile totalmente estraneo alle esigenze proprie del processo produttivo (art. 4)”.
Chi ha orecchio per le problematiche del lavoro e per la disciplina del licenziamento e vorrà approfondire la questione, non tarderà ad individuare in quel ddl elementi di anticipazione del jobs act in particolare per quanto riguarda il licenziamento economico nei primi tre anni del rapporto, che restava confinato nell’ambito della tutela obbligatoria e del risarcimento economico. Era un’operazione estremamente innovativa, soprattutto se si pensa al recente dibattito suscitato – ancora a tanti anni di distanza – dai referendum della Cgil. Fu questo disegno di legge che costò a Paolo Nerozzi la candidatura nella legislazione successiva; se ben ricordo, non superò le primarie che il Pd organizzò anche per le candidature dei parlamentari. Ovviamente questa circostanza non viene ricordata al momento del Grande Sonno.
Giuliano Cazzola




























