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Home - Approfondimenti - Analisi - Ipotesi per un nuovo modello organizzativo-cognitivo

Ipotesi per un nuovo modello organizzativo-cognitivo

di Roberto Polillo
22 Gennaio 2015
in Analisi
Ipotesi per un nuovo modello organizzativo-cognitivo

 

L’automazione dei processi produttivi con la trasformazione dei mezzi di produzione da “soggetti inanimati”  a sistemi intelligenti capaci di autoregolazione a feedback,  ha profondamente modificato l’organizzazione del lavoro e il rapporto lavoratore- macchina.

Non per nulla Rifkin parlava già dagli anni ’80 di fine del lavoro per indicare il graduale e irreversibile processo di spoliazione di mano d’opera determinata , dal manifatturiero al settore  metalmeccanico,   dalle nuove tecnologie produttive.

Tra i pochi settori che tale destino non hanno subito c’è da annoverare  il comparto sanità   ( forse in buona compagnia con l’istruzione scolastica) che  ha mantenuto la sua caratteristica originaria di attività profondamente labour –intense. Ed infatti nel lavoro sanitario i processi di automazione hanno interessato quasi esclusivamente  la diagnostica strumentale  e  di laboratorio ( dove in una singola struttura è ormai possibile “lavorare” in modo automatico migliaia di campioni al giorno) mentre nelle attività cliniche  nessuna  tecnologia  ha potuto sostituire la risorsa  umana

A ulteriore dimostrazione,  gli effetti prodotti dai tentativi messi in atto dalle regioni di agire sul contenimento dei costi attraverso la riduzione degli organici. Chi si aspettava razionalizzazione del servizio e miglioramento del conto economico   si è in verità ritrovato  riduzione dei livelli di qualità, aumento dei tempi di attesa,  sovraffollamento dei PS e degli ospedali e  incremento paradosso  dei  costi  generati dalla medicina difensiva.

Ed infatti la risposta  alla restrizione degli organici e all’aumento del carico di lavoro specie in condizioni di incertezza ( di cui l’emblema  è l’attività svolta in area critica),  è stata l’adozione da parte dei medici di misure di auto-tutela (richiesta eccessiva di indagini diagnostiche e di laboratorio per non incorrere in eventuali omissioni penalmente perseguibili) che nulla hanno a che fare con l’appropriatezza  prescrittiva e che si traducono in crescente  spreco di risorse.

Se dunque il lavoro sanitario di medici e altri operatori non può essere ricondotto a semplice voce di spesa,  il problema non può ovviamente limitarsi al rispetto da parte della struttura burocratica- gestionale delle piante organiche e dei carichi di lavoro. Anche questo atteggiamento, sicuramente più attento alle esigenze   dei professionisti, non si tradurrebbe ipso facto  in miglioramento del servizio reso valutato dal punto degli  esiti di salute ottenuti e della corretta allocazione delle risorse.

Serve infatti  una visione prospettica alternativa   in cui i principi tanto decantati  ma mai realizzati delle reti cliniche, del lavoro in team  dei professionisti e dell’appropriatezza  prescrittiva (sia di tipo diagnostico che terapeutico)  diventino il cardine dell’organizzazione del lavoro sanitario. Una prospettiva facile a dirsi ma difficile da realizzarsi e non tanto per gli aspetti  “tecnici” necessari alla sua implementazione quanto piuttosto per le “forze” che si  muovono all’interno del contesto sanitario e che si oppongono al cambiamento. 

Il campo istituzionale sanitario 

Il contesto sanitario, analizzato con un approccio di tipo sociologico, non è dissimile dagli altri campi di natura istituzionale. Esso è un campo ben riconoscibile della vita istituzionale in cui attori istituzionali diversi ( lo stato , le regioni , i professionisti sanitari e i loro organi di rappresentanza, i cittadini-pazienti, il complesso sanitario privato) cercano di massimizzare le proprie utilità adottando complesse strategie tese ad assicurarsi un ruolo di stakeholders nella divisone sociale del lavoro.

Rientrano in tali strategie la messa in atto di “patti di sindacato”  tra i diversi attori, anche essi cangianti  a seconda dello specifico contesto economico-istituzionale   e il ricorso a pratiche di manipolazione del consenso relativamente ai bisogni di salute  e alle modalità di soddisfarli.  Le campagne sugli screening di massa e sui cosiddetti controlli periodici delle funzionalità dei diversi organi, di cui nessuno è mai riuscito a dimostrare le ben che minima utilità,  è forse l’aspetto più evidente di tale complesso di relazioni che legano tra loro erogatori  privati, assicurazioni e professionisti. Esistono tuttavia sistemi ben più sofisticati per dilatare  le prospettive del mercato sanitario: l’invenzione di  malattie inesistenti;  la messa a punto di sistemi diagnostici precoci o predittivi per malattie allo stato attuale incurabili che portano a quella che viene definita “sovradiagnosi” ;  il progressivo abbassamento del valore di normalità di alcuni parametri ematici ( ad es la glicemia e la colesterolemia) oltre i quali iniziare una terapia farmacologia.  Il tutto ovviamente  dicendo poco e facendo ancora meno  contro le cause efficienti all’origine di tali “malattie”  ( l’eccesso di alimentazione, il tabagismo, la vita sedentaria, l’inquinamento, il lavoro sporco, la deprivazione sociale  etc).  Si tratta in questo ultimo caso di un vero  e proprio misconoscimento della realtà, portato a compimento spesso  con l’indifferenza e talvolta la complicità delle istanze politiche e delle società scientifiche e finalizzato a obiettivi ben precisi:  medicalizzare l’intera esistenza dell’individuo e trasformare, ogni individuo sano  in un uomo “ammalato” fin dai primi giorni di vita. Una strategia che è la negazione dei veri determinanti di salute.

I determinanti di salute

Su un numero recente della prestigiosa rivista Health Affaire (vol.21/2013) J.Michael McGinnis e colleghi riprendono il tema dei determinanti di salute e ne  definiscono nel modo seguente il peso percentuale che ciascuno di  essi   può avere nell’indurre morti precoci della popolazione americana:
1.     predisposizione genetica: 30%
2.     contesto sociale : 15%
3.     stili di vita: 40%
4.     inadeguatezza delle cure: 10%

Dalla loro valutazione, non difformemente da quanto sostenuto  dalla stessa Organizzazione mondiale della sanità  (OMS) , ai fini della salute umana il ruolo esercitato dal sistema di cure medico-sanitarie appare estremamente modesto rispetto ai fattori di predisposizione genetica  e a quelli di contesto;   ed infatti gli stessi autori calcolano che  sui trenta anni di  aspettativa di vita guadagnati dagli americani nel corso del ventesimo secolo solo il 5% può essere imputato al miglioramento delle cure mediche”.

Il dato è particolarmente significativo se si considera che negli USA la sanità assorbe il 15% del PIL  e che della spesa totale solo il 5% è impiegata nel settore della prevenzione ( una percentuale comunque superiore a quella impiegata nel nostro SSN); una irrazionale  distribuzione delle risorse dunque se il 40% delle morti è in funzione dei comportamenti negli stili di vita e del contesto sociale nei confronti dei quali nulla possono gli  interventi di tipo curativo  su cui ci si ostina a concentrare il massimo della spesa.  

Il fenomeno descritto da Mc Ginnis riguarda l’insieme dei sistemi sanitari e anche in Italia la situazione presenta delle significative analogie anche se la spesa sanitaria è significativamente più bassa non solo degli USA ma anche di Francia e Germania ( – 1,5% di PIL)  e se negli ultimi tre anni, come ha documentato la Corte dei Conti nella sua ultima “Relazione sulla gestione finanziaria per l’esercizio 2013 degli enti territoriali’, ha presentato un  calo di 3 miliardi di euro con un trasferimento altrettanto netto dei costi a diretto carico dei cittadini.

Il feticismo delle prestazioni sanitarie

La crisi che incombe sul nostro SSN non è tanto di natura finanziaria, quanto di natura culturale.  Questo non vuol dire negare il  peso che ha l’aspetto economico-finanziario  nella condizione di recessione che attraversa il paese e che  non trova ancora soluzione. La carenza di risorse e il progressivo de-finanziamento del SSN di cui abbiamo parlato ha delle  conseguenze sulla effettiva esigibilità dei Livelli essenziali delle prestazioni ( LEA) e tali pericoli sono stati severamente richiamati dalla Corte dei Conti nella relazione prima ricordata. Esiste però un problema ancora maggiore di natura  culturale;  ed è quello che ruota intorno  al principale criterio valutativo di performance adottato  (tanto a livello macro di regione che a livello micro di singolo professionista)  e che utilizza come parametro unico il valore  numerico di prestazioni effettuate ( ricoveri, visite, analisi, accertamenti diagnostico-strumentali etc) indipendentemente da ogni riferimento alla loro utilità, appropriatezza  e agli esiti di salute ottenuti. Totalmente assente o quasi dal dibattito è il problema dell’abuso di prestazioni , e , ancora peggio dei rischi per la salute derivante da alcuni  accertamenti come quelli radiologici ( TAC, RX di diverso genere) eseguiti spesso su autoprescrizione. Esiste in sanità una specie di “feticismo delle prestazioni sanitarie” che attraverso la mitizzazione del loro potere di previsione e controllo degli stati morbosi, ne  nasconde la  vera natura di “prodotto” socialmente mediato. E così  attraverso l’occultamento delle forze di mercato  che stanno dietro la realizzazione/escuzione  di  tali prestazioni ,  vengono celati  gli interessi economici che esse sottendono. In sanità dunque  il criterio “di più è meglio” non solo è privo di efficacia  in termini di salute guadagnata ma può essere all’origine di vere e proprie malattie “iatrogene” coma la sovradiagnosi o l’autoosservazione ansiosa che prosciuga le tasche degli utenti e spreca risorse pubbliche

 

Ripensare il modello organizzativo : promozione della salute  e slow medicine

In sanità i  modelli  organizzativi,   al dilà delle differenze esistenti tra le varie regioni,   sono ancorati  ad una impostazione  tradizionale in cui gli interventi di prevenzione e promozione della salute sono residuali rispetto a quelli erogati dai servizi di diagnosi e cura.  Nonostante le numerose evidenze scientifiche sui reali determinanti di salute ( i già citati  ambiente di vita e di lavoro, alimentazione, stili di vita) poco o nulla viene fatto per impedire che le malattie si sviluppino  o che una volta manifestate non vadano incontro a complicazioni evitabili. Il movimento delle “città sane” si è esaurito e altrettanto i progetti di guadagnare salute  che erano stati uno dei cavalli di battaglia dell’ex ministro Turco. Di fatto a prevalere è il modello bio-medico di medicina tutto orientato alla riparazione ex-post,  grazie anche al potere economico del complesso farmaceutico-sanitario industriale i cui assets sono farmaci e servizi diagnostici vari  la cui condizione di utilizzabilità è proprio la presenza di soggetti malati . E per comprendere l’entità del fenomeno basta pensare alla stratosferica spesa raggiunta per i nuovi farmaci biologici in campo oncologico in cui una confezione di 30 compresse può costare anche 6000 (sic!) euro. Esiste poi un secondo problema e che riguarda, nell’ambito dei percorsi di cura  il consumismo sanitario. In questo caso è il livello regolatorio regionale a portarne la responsabilità maggiore.  Quasi sempre infatti  la strategia di implementazione dei servizi è di  tipo top down e limitata alla definizione delle  strutture operative  e delle relative dotazioni organiche di aziende sanitarie ed ospedali , compatibilmente con i numerosi blocchi legislativi esistenti. Del tutto assenti o quasi sono protocolli diagnostico-terapeutici su cosa sia scientificamente utile  fare per le diverse tipologie di pazienti e su quali siano le priorità assistenziali. Protocolli che una volta elaborati (da personale competente e multidisciplinare ) dovrebbero essere  implementati a livello locale in percorsi assistenziali  con il diretto contributo delle equipes che quelle prestazioni dovranno erogare. In mancanza di questi e di criteri di valutazione orientati al rispetto di detti protocolli,  per i professionisti l’unica  chance  sarà di aumentare i volumi di attività. Un obiettivo facilmente realizzabile  essendo il mercato sanitario autopoietico ma che va a tutto scapito della appropriatezza  . Più esami saranno richiesti, più prestazioni saranno erogate e più i professionisti potranno dimostrare la loro  produttività. E conseguentemente più risorse saranno impiegate,   ma il vantaggio per gli utenti  sarà praticamente nullo.   Contro questo stato di cose la parte più cosciente della categoria  ha iniziato ora a ribellarsi dando luogo alla nascita del  movimento   di “slow medicine” . Un movimento in cui  medici , professionisti sanitari , epidemiologici ed economisti vogliono ridefinire le regole del gioco ponendo al primo posto le prove di efficacia e rifiutandosi di eseguire procedure prive di benefici clinicamente  dimostrati.

Anche per  Slow medicine infatti  “Il sovra utilizzo di esami diagnostici e trattamenti si dimostra un fenomeno sempre più diffuso e importante: da tempo è stato evidenziato che molti esami e molti trattamenti farmacologici e chirurgici largamente diffusi nella pratica medica non apportano benefici per i pazienti, anzi rischiano di essere dannosi. “

Perseguire l’appropriatezza delle prestazioni erogate

Rimangono dunque fondamentali i temi dell’appropriatezza sia di tipo prescrittivo  che di tipo organizzativo. Lo spazio non ci consente di affrontare questo altro aspetto cruciale; mi preme tuttavia sottolineare almeno un concetto.  L’appropriatezza organizzativa  è realizzabile solo in presenza di un sistema reticolare di strutture , ciascuna delle quali sarà la più indicata dal punto di vista assistenziale per  erogare  quella specifica prestazione ( il territorio piuttosto che l’ospedale; il DH piuttosto che il reparto di degenza etc ); un sistema reticolare tuttavia deve valere anche per i professionisti che devono poter comunicare tra loro  e scambiarsi reciproche consulenze in  tempo reale. Anche questo è oggi possibile e alcune sperimentazione intraprese nel Nord Europa hanno dimostrato come attraverso il counselling interprofessionale ( specie tra medici di famiglia e specialisti)  realizzabile semplicemente attraverso messaggi  via e-mail si possono evitare esami inutili e prescrivere terapie appropriate,  abbattendo così costi  e tempi di attesa.  Un modo di procedere botton-up che  valorizza le risorse professionali e crea valore aggiunto attraverso la creazione anche virtuale di reti di professionisti che mettono al primo posto non più la quantità delle prestazioni ma la  effettiva capacità di creare salute.  Un modello che potrebbe fornire risultati straordinari in termini di  salute guadagnata e di corretta allocazione delle risorse ma che deve vincere le resistenze dei tanti che considerano la  sanità un mercato mercificato come gli altri.

Roberto Polillo

 

 

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