Luigi Burroni – Docente di Relazioni Industriali all’Università di Firenze
Il contesto
Per ben capire i più recenti sviluppi nella contrattazione decentrata nel settore del tessile è necessario fare anzitutto riferimento a tre elementi di contesto. Il primo è relativo alla duplice tendenza che ha recentemente interessato – e non solo in Italia – molti dei settori fortemente esposti alla competizione internazionale. Si tratta di una tendenza che da un lato ha portato a una crescita del decentramento della contrattazione collettiva, con un ruolo sempre maggiore giocato dal livello aziendale e territoriale, e che dall’altro ha contribuito a rafforzare il ruolo svolto dalla contrattazione a favore della competitività, attraverso il sostegno a pratiche di partecipazione e di flessibilità del lavoro. Da un lato, quindi, il livello aziendale gioca un ruolo sempre maggiore anche in realtà dove il contratto di settore continua ad avere una notevole importanza (ad esempio attraverso il sistema delle cosiddette opening clauses) e dall’altro, il tema del sostegno alla competitività e all’occupazione attraverso la promozione di forme di flessibilità del lavoro e di partecipazione dei lavoratori acquista una maggiore importanza nella contrattazione collettiva, tanto che si parla di ‘contrattazione della flessibilità e della partecipazione’ (si vedano a questo proposito i lavori della European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions di Dublino sul tema dei Patti per l’’occupazione e la competitività, o i rapporti annuali dell’European Trade Unions Institute sulla contrattazione collettiva nei paesi europei).
Il secondo elemento di contesto che ci aiuta a inquadrare la contrattazione decentrata in questo settore è dato dal fatto che il 2002 per l’intero settore della moda è stato, come è ben noto, un anno molto particolare. Dopo l’11 settembre del 2001, infatti, questo intero settore ha conosciuto dei momenti di forte difficoltà, che in parte continuano ancora oggi. Si pensi che nel 2002, a metà anno, la produzione nel settore tessile era calata del 7% e il fatturato del 4,4%, a dimostrazione di una crisi che andava oltre le difficoltà di congiuntura a cui questo settore è abituato, tanto che lo stesso Governo ha recentemente messo in campo una serie di misure speciali a sostegno della competitività del settore moda, come mostra l’accordo siglato dal Ministero delle Attività Produttive e da alcune associazioni del sistema moda all’inizio del 2003.
Infine, un ultimo elemento di contesto che è importante richiamare prima di analizzare più in dettaglio l’andamento della contrattazione decentrata nel settore del tessile, è relativo ai recenti sviluppi della contrattazione di settore. Nel 2002, infatti, vi sono stati ben tre rinnovi che hanno interessato i lavoratori e le imprese di questo settore: il primo è l’accordo relativo al secondo biennio dei dipendenti delle aziende Confapi dei settori tessile, abbigliamento, calzature, occhiali, penne e spazzole e giocattoli, siglato per la parte salariale nel mese di febbraio 2002. Il secondo, che coinvolge circa 600.000 lavoratori delle aziende aderenti a Confindustria, siglato dopo cinque mesi di trattative, ha incontrato invece maggiori di difficoltà, con le parti a lungo divise sugli incrementi salariali (alla fine si è arrivati a un aumento medio di 71,2 euro), e che, nonostante ciò, ha introdotto delle importanti innovazioni come quella della modifica – dopo 25 anni – dell’inquadramento professionale, con la definizione di due nuovi livelli che consentono di rispondere meglio alle novità organizzative introdotte nelle aziende di questo settore. Il terzo, l’accordo economico transitorio che interessa i dipendenti di aziende artigiane, è invece stato siglato nel mese di dicembre, a seguito di una lunga contrattazione, che ha visto le parti contrapporsi -anche duramente- per una lunga parte dell’anno non soltanto sul tema del rinnovo del contratto ma anche sull’eventuale revisione e aggiornamento del modello contrattuale.
Questi elementi di contesto ci sono utili perché ci aiutano a delineare il quadro nel quale la contrattazione decentrata si è andata sviluppando, e contribuiscono a far luce sul perché si può dire che negli ultimi mesi vi sia stata una sorta di inversione di tendenza che ha interessato l’intero settore della moda, e in particolare il settore tessile, che ha visto l’affermarsi di una contrattazione decentrata di tipo difensivo (in altre produzioni tipiche del settore moda sono infatti stati realizzati anche recentemente una serie di accordi meno difensivi e volti alla gestione della flessibilità, si pensi agli accordi sulla gestione della capacità produttiva degli stabilimenti e sull’orario siglati nell’area di Belluno nel settore dell’occhialeria). Vedremo anche, però, che a fronte di questa crescita della contrattazione difensiva vi sono comunque alcuni accordi –stipulati sia a livello aziendale che territoriale – particolarmente interessanti, che più si inseriscono nel filone sopra menzionato della ‘contrattazione della flessibilità e della partecipazione’.
La contrattazione decentrata nel 2002
Negli ultimi anni la flessibilità del lavoro ha giocato un ruolo estremamente determinante a sostegno delle imprese operanti nei settori fortemente esposti alla competizione internazionale, e questo è ancora più vero in un settore come quello della moda, soggetta a un mercato finale instabile e in continuo cambiamento. È questo il motivo principale per cui la contrattazione nazionale e quella decentrata nel settore della moda ha in Italia spesso mostrato dei tratti di particolare interesse, soprattutto con riferimento alla gestione della flessibilità del lavoro (si pensi alla regolazione del lavoro flessibile nei contratti nazionali) ma anche con riferimento alla partecipazione aziendale (come mostra, ad esempio, l’accordo della Gucci sull’ESOP).
Questo naturalmente vale anche per il tessile e indicazioni a conforto di questa tesi sembrano emergere in un interessante studio presentato nel 2002 e condotto da Monitor Lavoro (Rapporto sull’archivio nazionale del CNEL sulla contrattazione aziendale nel settore privato dell’economia, curato da Giuseppe D’Aloia), che ha preso in considerazione i contratti aziendali presenti nel database del CNEL (www.cnel.it/archivio/contratti_lavoro/decentrati/index.asp).
Da questo lavoro emerge che ben il 76,4% del totale delle imprese tessili studiate che hanno tra 100 e 999 dipendenti ha stipulato un contratto aziendale che prevede la flessibilità funzionale (contratti atipici, gestione dell’orario, qualifiche e professionalità, organizzazione del lavoro) contro una corrispondente percentuale del 59,5 nella metalmeccanica e il 60,5% della chimica. Se poi si considera che una parte importante della flessibilità – quella relativa alla flessibilità del salario e ai premi di risultato – viene in questo lavoro considerata nella ‘contrattazione acquisitiva’, si nota che questo tipo di contrattazione tocca ben il 91,7% delle aziende con meno di 1.000 dipendenti, a conferma del fatto che la contrattazione della flessibilità ha recentemente giocato un ruolo di estremo rilievo in questo settore. E questa impressione viene rafforzata se si guarda ai temi che risultano essere maggiormente trattati: oltre al trattamento economico, che come è ovvio tocca la quasi totalità degli accordi (90,3%), il rapporto Monitor Lavoro evidenzia che una parte importante di accordi del tessile tocca i temi della partecipazione (54,2%), dei contratti anticipi (48,6%), dell’orario (48,6%) e delle qualifiche e professionalità (34,7%). Indicazioni interessanti si hanno anche dall’analisi sul tema dell’orario: la voce maggiormente trattata in questo caso è infatti quella della flessibilità relativa a recuperi, orari plurisettimanali, ecc., che si trova nel 24% dei contratti. Infine, è interessante notare che la contrattazione marcatamente difensiva tocca nel tessile soltanto l’8,3% delle aziende che hanno da 100 a 999 dipendenti.
Come si è già anticipato, però, nel corso degli ultimi mesi, la tendenza evidenziata dal rapporto sopra richiamato si è andata indebolendo. La forte crisi del settore, infatti, ha fatto sì che la contrattazione aziendale abbia subito una rapida sterzata verso un modello maggiormente difensivo, volto prevalentemente alla gestione delle eccedenze attraverso pratiche di mobilità, contratti di solidarietà, cassa integrazione e licenziamenti collettivi. Si pensi che nei soli primi tre trimestri del 2002 le ore di cassa integrazione autorizzate nel settore tessile sono state 205.427, a fronte delle 141.336 dell’intero 2001 (+45%).
Una conferma di ciò viene anche dalle difficoltà che hanno interessato alcuni importanti marchi di questo settore. Si pensi ad esempio a Marzotto, e al suo piano industriale che ricade – secondo le organizzazioni sindacali – su 271 lavoratori, o alla Ratti, nel comasco, dove sindacati e azienda si sono accordati su 75 esuberi da gestire con mobilità verso il pensionamento e con la cassa integrazione straordinaria, o, ancora, alla crisi e della GFT.Net, storica azienda tessile torinese, al caso del Cotonificio Textile Italia di Susa, alla crisi della Hemmond e così via. E anche le imprese del Mezzogiorno non sono esenti da queste difficoltà come mostra, tanto per citare un caso, la crisi e la chiusura della Tepa di San Gregorio, con la quale è scomparso il polo tessile di Reggio Calabria nato sotto l’ombrello pubblico della Gepi. Si tratta di indicatori di particolare gravità, dal momento che proprio per il modello di divisione del lavoro sul territorio che caratterizza questo settore, le difficoltà delle imprese di dimensioni maggiori ricadono su un indotto spesso fortemente sviluppato, composto da piccole e piccolissime imprese.
Ciononostante, questa crescita della contrattazione difensiva non significa che durante il 2002 non siano stati siglati accordi di gestione della flessibilità del tipo che abbiamo prima richiamato. Solo per citare qualche esempio, si pensi al Lanificio Fratelli Cerruti di Biella, dove, utilizzando i fondi della legge 53 che assegna finanziamenti a favore delle imprese che prevedono congedi parentali, si è concordato che i genitori con bambini sino a 6 anni e coloro che devono prendersi cura di parenti anziani sino al secondo grado possano utilizzare la ‘banca ore’, e che ai genitori impegnati nella giornata di sabato verrà corrisposto un rimborso parziale delle spese sostenute per l’assistenza dei figli (rimborso che può arrivare sino al 50% delle spese sostenute, laddove entrambi i genitori siano dipendenti dello stesso stabilimento e impegnati nel medesimo turno di lavoro). È questo un esempio che ben mostra come la contrattazione decentrata possa costituire una leva con la quale ci si muove per quadrare il cerchio tra esigenze di flessibilità dell’azienda ed esigenze di organizzazione della vita familiare dei lavoratori.
Un altro esempio di flessibilità contrattata è dato da uno dei cinque stabilimenti tessili della Loro Piana, dove un provvedimento dell’azienda concordato con i sindacati ha introdotto per 90 lavoratori dello stabilimento di Roccapietra di Varallo una diversa organizzazione dell’orario, con i lavoratori interessati che hanno lavorato a rotazione solo quattro giornate a settimana, contro le usuali cinque, ma con il salario invariato, in attesa della ripresa dell’anno nuovo, quando i lavoratori hanno ripreso i 6 giorni e sono stati pagati solo per 5. O, ancora, si pensi alla Mainetti, azienda sempre del settore moda, che d’accordo con i sindacati ha confermato nel 2002 ed anzi ampliato i contenuti di un precedente accordo volto a favorire la flessibilità nell’utilizzo della forza lavoro e a collegarla con il premio di risultato e con la ripartizione degli utili.
E, guardando al livello decentrato delle relazioni industriali, non si può non guardare al livello territoriale che riveste in questo settore una notevole importanza, soprattutto se ci si sofferma sulle aree distrettuali. Si tratta infatti di un livello nel quale spesso si contrattano dei beni collettivi importanti per la competitività delle imprese, e proprio per questo motivo non è un caso che nel 2002 vi siano state delle interessanti proposte di Patti locali per la crescita e la competitività, volte a favorire la crescita e la ripresa occupazionale di realtà territoriali che hanno una importante specializzazione nel settore del tessile, come nel caso di Como, dove nel luglio 2002 è stata fatta una proposta per la realizzazione di un “Patto per la crescita”, finalizzato a raggiungere gli obiettivi sopra richiamati, o come il caso della proposta della Filtea-CGIL pugliese, sempre del 2002, relativa alla creazione di un vero e proprio marchio sul made in Puglia per il settore tessile-abbigliamento-calzaturiero, a sostegno della competitività delle imprese pugliesi e per debellare il fenomeno del sommerso; e lo stesso è avvenuto anche in altre specializzazioni del settore moda, come mostra l’interessante caso relativo all’introduzione del marchio sociale nel calzaturiero della Riviera del Brenta.
Dall’analisi della contrattazione aziendale e territoriale, quindi, emerge una tendenza dominante verso una contrattazione difensiva, come è naturale in una fase di forte crisi del settore; allo stesso tempo, però, si nota anche che continuano ad essere realizzati accordi di diversa natura. E delle informazioni aggiuntive si hanno se si incrociano i due livelli che abbiamo sin qui richiamato, soffermandoci sulla contrattazione aziendale nelle imprese appartenenti a un distretto industriale, quello di Prato, e cercando di capire se in queste realtà – dominate prevalentemente da imprese di piccole e piccolissime dimensioni- si ritrova la contrattazione aziendale ‘formalizzata’ oppure se prevale una flessibilità basata su accordi informali.
La contrattazione decentrata nei distretti: il caso di Prato
Il distretto di Prato con oltre 6.000 aziende, di cui oltre l’80% hanno meno di 10 addetti, e 35.000 addetti costituisce una delle realtà territoriali specializzata nel settore del tessile più note nel mondo. È in questo contesto che è partita l’iniziativa di creare un Osservatorio sulla contrattazione decentrata che fa capo ad una iniziativa congiunta dell’Università di Firenze – sede di Prato (Laboratorio di Contrattazione Collettiva) – del Centro per l’impiego e dell’Amministrazione provinciale di Prato. Nel sito dell’Osservatorio –consultabile on line all’indirizzo www.contrattazione.com – sono raccolti per adesso i contenuti di 77 accordi aziendali (64 nuovi accordi e 13 rinnovi, siglati in 54 aziende dell’area). Si tratta di un archivio limitato ma che raccoglie un numero rilevante di contratti, considerato anche che la realtà pratese è caratterizzata prevalentemente da micro imprese.
Da una prima analisi dei contenuti dei contratti emerge con chiarezza che la flessibilità salariale (salario base, azionarato, premi individuali e collettivi, ecc.) è trattata nella quasi totalità degli accordi (oltre il 97%), come è prevedibile. Interessante però è il fatto che l’87% dei contratti tratti l’erogazione di premi legati alla flessibilità, che vengono erogati alla totalità di lavoratori e indicizzati sulla base di parametri variabili (nel 68% degli accordi). Se poi si guarda agli incroci tra i vari tipi di flessibilità, si nota che una parte importante dei contratti (22%) tratta congiuntamente temi legati alla flessibilità salariale e alla flessibilità e temporale (straordinario, orari giornalieri e stagionali, lavoro notturno, lavoro nei festivi, ecc.), il che indica le connessioni tra i mutamenti dell’orario di lavoro quotidiano e quelli del salario base, oppure tra le modifiche apportate all’orario di lavoro straordinario e quelle relative ai premi salariali. E un altro aspetto interessante è che in molti degli accordi raccolti si fa riferimento agli accordi territoriali siglati in ambito provinciale (Accordo siglato tra le organizzazioni sindacali locali del settore tessile e l’Unione Industriale Pratese del 1996, il Patto provinciale per lo sviluppo e il lavoro nella Provincia di Prato, e il conseguente protocollo d’intesa), a conferma di uno stretto legame tra la contrattazione aziendale e quella territoriale.
Per quanto questo archivio sia ancora provvisorio e rappresenti in modo ancora parziale l’intero panorama della contrattazione aziendali di questa realtà territoriale, i primi risultati che si sono richiamati sottolineano che anche in una area ben nota per i suoi continui aggiustamenti informali, e per il fatto che la flessibilità dell’area spesso dipende dal tipo di rapporti tra imprese più che dalle trasformazioni all’interno delle imprese, esiste una parte importante di flessibilità che può essere spiegata dalla contrattazione ‘formale’ tra le rappresentanze dei lavoratori, le associazioni datoriali e le aziende, che si esplica appunto a livello territoriale e aziendale.
Tuttavia, anche in questo distretto nel 2002 c’è stato un rallentamento in queste tipi di pratiche, e da questo punto di vista non è un caso che anche il distretto di Prato, assieme a quello di Biella, Como, Carpi e Vicenza abbia firmato una ‘manifesto’ dove si chiedono al Governo e alla Unione Europea di realizzare delle misure e degli interventi volti a stabilire delle regole minime comuni per tutti i paesi produttori, anche al fine di combattere la crisi che appunto ha investito le specializzazioni produttive di queste realtà distrettuali.
Qualche considerazione conclusiva
Il quadro che abbiamo delineato sin qui lascia spazio per alcune riflessioni sulla struttura contrattuale che caratterizza il nostro paese e sulla sua evoluzione. Si è infatti visto che il livello decentrato di contrattazione, quello aziendale, ha negli ultimi anni incrementato il suo ruolo a sostegno della competitività delle imprese, nel tentativo di coniugare questa con il sostegno alle esigenze dei lavoratori, e che questo continua –seppure in misura marginale – ad avvenire anche in una fase sostanzialmente difensiva come quella che si è andata delineando dopo l’11 settembre 2001. Si è però anche sottolineato che in questo settore un ruolo particolarmente importante è svolto dal livello territoriale, nel quale spesso si contratta la realizzazione di beni collettivi e delle forme di regolazione del lavoro utili alla competitività dell’intero sistema territoriale.
Questo ruolo crescente delle istanze e del livello decentrato sembra spingere verso un maggiore protagonismo degli attori e delle forme locali di negoziazione. L’accordo del 1993 ha dato una prima risposta a queste esigenze, ma è possibile immaginare che per i recenti cambiamenti a cui si è fatto riferimento e per altri che non si sono affrontati – pensi anche soltanto alle riforme in senso federalista che stanno interessando il nostro paese, a partire dalla modifica del titolo V della Costituzione – questa risposta sia sempre più soggetta a pressioni che spingano verso una sua almeno parziale modifica.
Le vie che questa trasformazione seguirà non sono facili da delineare, ma è possibile fare qualche ipotesi che sia coerente con quanto abbiamo detto sin qui. In particolare si può immaginare che il cambiamento sia di tipo incrementale e non radicale, proprio per la diversità tra i modelli di relazioni industriali che sussistono tra i vari settori della nostra economia. E si può anche immaginare che per settori come il tessile, l’impianto introdotto nel 1993 non venga stravolto ma che piuttosto si modifichi l’articolazione tra i due livelli di contrattazione, in vista, appunto, di un ulteriore rafforzamento del livello decentrato. In questo caso, il ruolo del livello settoriale-nazionale potrebbe essere quello di evitare fenomeni di dumping stabilendo delle regole minime ma certe, e di delineare il margine di manovra degli attori decentrati. La contrattazione a livello decentrato, invece, potrebbe avere il compito di coniugare con le esigenze locali quanto indicato a livello nazionale, con un ampio spazio di azione, importante per rispondere a modelli di organizzazione produttiva e di concentrazione territoriale tra loro molto diversi, come quelli che appunto troviamo nel nostro paese.
Se questi cambiamenti si dovessero verificare si può anche ipotizzare che lo stesso concetto di settore potrebbe essere rivisto, per rispondere meglio ai cambiamenti della struttura produttiva, oltre che ai cambiamenti che si vanno verificando nelle organizzazioni di rappresentanza. Si pensi ad esempio anche solo ai processi di fusione che si sono recentemente realizzati nel settore del tessile, dove le varie associazioni che costituivano la Federtessile nelle due associazioni Sistema Moda Italia e Associazione Tessile Italiana e dove è nata recentemente la FEMCA-CISL, costituita appunto su di una riorganizzazione delle rappresentanze dei lavoratori del settore del tessile e dell’abbigliamento, della chimica e della farmaceutica e dei settori petroliferi, gas e acqua. Si tratta di processi di fusione, che riflettono i cambiamenti del lavoro e della sua organizzazione, che sono comuni anche in altri settori e in altri paesi d’Europa e che indicano che il concetto stesso di settore viene via via rivisto per dar vita a delle nuove aggregazioni che mal si prestano alle classificazioni più tradizionali; è quindi immaginabile che prima o poi queste trasformazioni vadano a influenzare lo stesso modello contrattuale che caratterizza il nostro paese. Infine, pensando a i cambiamenti futuri che i potranno interessare il nostro modello di contrattazione collettiva non si può non far riferimento al processo di europeizzazione delle relazioni industriali, che procede ancora molto lentamente ma che già sta iniziando a produrre alcuni importanti cambiamenti, come ben mostra il caso dei Comitati Aziendali Europei, e che avrà molto probabilmente anche esso degli effetti rilevanti sul nostro modello di contrattazione collettiva sia a livello aziendale che settoriale.