di Maurizio Ricci, inviato di Repubblica
L’ultima spiaggia. Secondo gli ottimisti, naturalmente. Perché, secondo gli scettici, l’ultima spiaggia è già alle spalle e il sindacato americano si avvia inesorabilmente a naufragare al largo, nell’indifferenza dei più. Secondo questi scettici – la maggior parte degli osservatori e buona parte dei protagonisti, da un versante e dall’altro delle relazioni sindacali – la scissione che si è aperta nell’Afl-Cio (la confederazione che, fino a ieri, riuniva il mondo del lavoro negli Stati Uniti), con la decisione di alcuni dei sindacati più importanti di andare per la propria strada, rappresenta un colpo mortale per un organismo già indebolito. L’uscita della federazione dei servizi, la Seiu, dei trasportatori, i Teamsters, degli alimentaristi e dei lavoratori degli alberghi e del turismo comporta la perdita di un terzo degli iscritti – 4 milioni su 13 – e di un quinto del bilancio, pari a 25 milioni di dollari. Perdite che non sembra in grado di assorbire un movimento sindacale già in ginocchio, capace di provare la propria rilevanza solo quando riesce a mobilitare milioni di elettori, peraltro a favore di un partito, i Democratici, sistematicamente perdente. L’apertura di una fase di rivalità e di concorrenza organizzativa sui posti di lavoro rischia di compromettere definitivamente le capacità di influenza di un movimento per cui, storicamente, la prima e più difficile battaglia è sempre stata quella di farsi riconoscere dai propri interlocutori.
Il declino del sindacato americano viene da lontano. Rispetto al picco degli anni ’50, quando organizzava il 30 per cento della forza lavoro e il grosso nei settori trainanti, l’Afl-Cio è andata perdendo terreno a velocità crescente. Oggi, solo poco più del 12 per cento dei lavoratori è iscritto ad un sindacato e la percentuale, in realtà, racconta una realtà distorta. La quota di iscritti è ancora relativamente alta nel pubblico impiego, con una percentuale stabile fra il 35 e il 40 per cento. Ma è precipitata all’8 per cento nel settore privato, dimezzandosi nell’arco di soli venti anni. Se si escludono le grandi roccaforti storiche – l’industria dell’auto, le compagnie aeree, la telefonia (solo quella fissa, però) – il peso del sindacato è quasi trascurabile. Nei giganti che oggi crescono e contano davvero, da Wal-Mart (oggi il maggior datore di lavoro americano) a Honda, a Microsoft, il sindacato non può metter piede.
Il risultato di questo declino? Sclerosi, burocrazia, rassegnazione. Sono queste le accuse che il leader del Seiu e dei ribelli, il cinquantenne Andrew Stern, muove al vertice dell’Afl-Cio. Le accuse colgono nel segno, ma non rintuzzano la velenosa replica del capo supremo della confederazione, l’ultrasettantenne John Sweeney, che conosce bene Stern, per averlo avuto come proprio vice alla Seiu, negli anni ’90. Stern, dice Sweeney, ha deciso la scissione quando ha capito che mi sarei ricandidato alla testa dell’Afl-Cio e lui non avrebbe potuto sostituirmi. In questo crepuscolo, fra declino storico e travolgenti ambizioni personali, quali motivi di ottimismo possono trovare gli ottimisti?
Paradossalmente, il primo elemento è l’ego di Stern, la sua personalità carismatica. Arrivato alla ribalta del mondo sindacale quando la crisi dei grandi settori, come l’auto, si era già consumata, Stern non è mai vissuto nella psicologia della ritirata. Sotto la sua guida, il sindacato dei servizi non solo è uno dei pochi a essere cresciuto, ma lo ha fatto in misura massiccia: da 650 mila a 1 milione 300 mila iscritti nell’arco di dieci anni (più 500 mila in Canada). Stern è anche uno dei pochi sindacalisti americani che sembri capace di innovare le regole del gioco. Alle prese con una difficile trattativa, in cui le imprese tenevano duro per timore di essere scavalcate dai costi più bassi della concorrenza, ha accettato di congelare l’accordo, fino a che almeno il 55 per cento del settore non lo avesse accettato. Sta anche prendendo di petto uno dei tabù storici del sindacalismo anglosassone: il sindacalismo di mestiere. Il suo obiettivo – anche se può apparire obsoleto ad occhi europei – è arrivare ad una organizzazione e ad una conflittualità coordinata per settori e per industrie. E, nella globalizzazione, Stern vede non solo una sciagura, ma anche una opportunità. Con tre giganti del settore alimentare (la francese Sodexho, l’inglese Compass Group, l’americana Aramark) la Seiu sta trattando un accordo che apra le porte del sindacato ad un bacino internazionale di un milione di lavoratori.
I meccanismi della globalizzazione sono un altro elemento a favore di Stern. Il cuore del sindacato americano è nelle industrie tradizionali, come siderurgia e auto, condannate al declino e aperte al ricatto della delocalizzazione e del decentramento produttivo. Il futuro è nei servizi, che già oggi rappresentano il 70 per cento del prodotto interno lordo americano. E qui la scommessa di Stern sembrerebbe esaurirsi. Proprio la new economy e la nuova economia dei servizi si sono dimostrati, in America come altrove, i settori più impermeabili al sindacato, incapace di parlare a giovani più attenti alle stock options che allo stipendio, alle promozioni piuttosto che ai diritti, allenati ad un continuo cambio di azienda, ostaggio, oggi, anche loro dell’outsourcing. Ma i servizi sono molto di più della new economy: portieri, infermiere, bancari di sportello, venditori, camerieri, cuochi e impacchettatori di cibo. Sono numeri importanti della forza lavoro. Sono occupazioni forzatamente locali, non delocalizzabili. E sono le professioni, dicono gli economisti, destinate a crescere di più nella società del futuro. E’ questo il terreno su cui si muove Stern.
Apparentemente fertile: è il territorio del salario minimo, del licenziamento facile, dello straordinario obbligatorio, in cui più alto è il bisogno di sindacato. Ma anche più difficile soddisfarlo, di fronte ad una manodopera precaria e ultraframmentata. Qui, tuttavia, la globalizzazione gioca a favore di Stern: se i lavoratori sono polverizzati in un pulviscolo di posizioni e di posti di lavoro, così lontano dalla solidarietà quotidiana delle grandi catene di montaggio, i problemi sono semplici, immediati e comuni. Soprattutto, contrariamente a quanto sembrerebbe a prima vista, le controparti sono poche. Il grande processo di consolidamento di questo settore (le catene di alberghi, le catene di fast food, quelle di ospedali, di supermercati, di centri commerciali) fornisce interlocutori-avversari riconoscibili, potenzialmente «circondabili», che si possono marcare da vicino, nella consapevolezza che un accordo si riverserà a cascata su numeri importanti di lavoratori.
L’idea degli ottimisti che una rivitalizzazione del sindacato sia possibile si appoggia anche su un clima generale del Paese. Rispetto ai «ruggenti anni ‘90» come li ha definiti il premio Nobel Joseph Stiglitz, il sentimento dominante nel mondo del lavoro è quello dell’incertezza e della insicurezza. Gli ultimi anni hanno visto un imponente trasferimento di ricchezza dagli stipendi ai profitti, nella divisione della torta del Pil. La ripresa è in atto da tre anni, ma, rispetto ai cicli congiunturali precedenti, gli effetti non si sono visti né sulle retribuzioni, né sull’occupazione. I salari ristagnano, i posti di lavoro vengono creati con il contagocce. Nonostante che le dinamiche demografiche americane richiedano la creazione di circa 140 mila posti di lavoro al mese per far fronte ai nuovi ingressi nell’età lavorativa, i posti, in cifre assolute, sono più o meno ancora quelli del 2001. Il tasso di disoccupazione al 5 per cento è una illusione ottica, dicono molti economisti: la verità sarebbe che milioni di persone (da 2 a 5 milioni, secondo le stime) hanno puramente e semplicemente abbandonato la ricerca di una occupazione. E’ una situazione che può alimentare la voglia di sindacato. Il 52 per cento dei lavoratori non iscritti, dice un sondaggio che Stern cita volentieri, si dichiara interessato a sottoscrivere una tessera.
Anche se tutti questi elementi danno qualche sostanza agli ambiziosi progetti organizzativi di Stern e degli altri ribelli, tuttavia, non è sul posto di lavoro che, probabilmente, il sindacato si gioca quel che resta del suo futuro. Le grandi battaglie – e i grandi traguardi che può raggiungere – sono a Washington, nelle mani della politica. La difesa del sistema pensionistico pubblico, che Bush vuole smantellare, anzitutto, ma anche la creazione di meccanismi pensionistici e di assistenza sanitaria privati, oggi rigidamente aziendali, che il singolo lavoratore possa portare con sé, quando cambia posto di lavoro. E’ a Washington anche la battaglia-simbolo dei prossimi mesi. Quella contro Wal-Mart, la catena di centri commerciali che oggi è il maggior datore di lavoro americano, accusata di discriminazioni nelle assunzioni e nelle promozioni e, più in generale, di violazioni salariali e retributive. E’ una battaglia che il sindacato ha già perso sul terreno tradizionale del conflitto di lavoro, ma che può sperare di vincere al Congresso, grazie ad una massiccia mobilitazione nazionale. Molto, con ogni probabilità, dipenderà dalle elezioni congressuali del prossimo anno. Se Wal-Mart fosse costretta ad accettare paletti che delimitino la sua politica delle «mani libere in azienda», sarà Stern, probabilmente, a cavalcare l’onda.