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Il Diario del Lavoro

Quotidiano online del lavoro e delle relazioni industriali

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Home - Approfondimenti - Analisi - La direttiva Bolkestein e gli ordinamenti nazionali del lavoro

La direttiva Bolkestein e gli ordinamenti nazionali del lavoro

22 Febbraio 2005
in Analisi

di Cristina Tajani, dottorato di ricerca in Scienze del lavoro, Università di Milano

Introduzione

 

Il processo legislativo che è seguito all’approvazione in Commissione europea della proposta di direttiva sui servizi nel mercato interno dell’Unione (la cosiddetta direttiva Bolkestein dal nome dell’ex-commissario europeo olandese, First Bolkestein, suo principale estensore) rischia di essere uno dei più controversi processi legislativi in seno all’Unione europea dopo l’allargamento a 25 Paesi. La proposta di direttiva, infatti, ha già incontrato sulla sua strada la forte contrarietà dei sindacati europei, la preoccupazione di alcuni Governi, come quello francese di Chirac, ed è già argomento di dibattito politico e sindacale in vista dei referendum, in quei Paesi in cui si svolgeranno, di ratifica del Trattato costituzionale europeo.


La proposta di direttiva, secondo lo stesso testo legislativo, “ha l’obbiettivo di stabilire un quadro giuridico volto ad agevolare l’esercizio della libertà di stabilimento dei prestatori di servizi negli Stati membri nonché la libera circolazione dei servizi tra Stati membri. Essa mira ad eliminare un certo numero di ostacoli giuridici alla realizzazione di un vero mercato interno dei servizi e a garantire ai prestatori ed ai destinatari la certezza giuridica necessaria all’effettivo esercizio di queste due libertà fondamentali del Trattato”. Il testo (consultabile in italiano sul sito http://www.fpcgil.it/internaz/Serv_Int_gen/Dirett_serv_merc_interno_com2004.pdf ) è stato approvato all’unanimità dalla Commissione europea il 13 Gennaio 2004 ed è ora all’esame del Parlamento europeo.


Durante il lavoro di stesura della proposta sono state interpellate numerose parti sociali, tra le quali un gran numero di imprese e associazioni datoriali, ma nessun sindacato. Mentre all’audizione pubblica del Parlamento europeo, organizzata dalla commissione sul mercato interno e la protezione dei consumatori, la Ces e altre associazioni di categoria e sindacali si sono espresse in maniera fortemente critica nei confronti della direttiva. Anche la Federazione sindacale europea dei servizi pubblici (Fsesp), cui aderisce la Fp-Cgil (firmataria, insieme ai sindacati di base e ad alcune categorie della Cgil e della Cisl, come la Fiom-Cgil, l’Flc-Cgil, la Filcem-Cgil e la Filca-Cisl, di una petizione che chiede alla nuova Commissione europea il ritiro della direttiva approvata dalla Commissione Prodi) ha chiesto il ritiro della direttiva perché giudicata inemendabile nei suoi principi ispiratori. Alcuni Governi europei hanno già espresso una forte preoccupazione rispetto ai rischi di dumping sociale tra Paesi e legislazioni europee che l’approvazione definitiva del testo arrecherebbe. È il caso, già citato, della Francia, il cui presidente Chirac ha avuto modo, in un incontro ufficiale all’Eliseo, lo scorso gennaio, di manifestare la sua preoccupazione rispetto alle possibili conseguenze negative, proprio in tema di lavoro e sicurezza sociale, della proposta di direttiva al segretario generale della Ces John Monks.


 


Prima di entrare nel merito degli aspetti maggiormente problematici e oggetto di dibattito politico e sindacale della proposta di direttiva, in relazione ai sistemi nazionali di legislazione sul lavoro e relazioni industriali, è opportuna una digressione che permetta di inquadrare la proposta di direttiva nella cornice dei recenti orientamenti della Corte di giustizia europea in tema di concorrenza. Le pronuncie più recenti della Corte, infatti, vanno nella direzione di configurare la concorrenza come il principio ordinatore del mercato comunitario, attraverso il passaggio da una tutela “soggettiva” della concorrenza (repressione delle pratiche sleali o lesive della concorrenza) ad una tutela “oggettiva”, che presuppone anche il sindacato nel merito degli accordi collettivi (in quanto possono essere indirettamente lesivi della concorrenza)[1]. Viene così superato il principio dello “State action defense”, cioè il principio secondo cui gli Stati membri potevano giustificare una limitazione della concorrenza in ragione di orientamenti legislativi nazionali volti alla salvaguardia di principi sociali o occupazionali. Con il superamento di questo principio la Corte ha introdotto un “sindacato di proporzionalità” che presuppone la valutazione ed il bilanciamento tra le ragioni della concorrenza e quelle della salvaguardia di condizioni di lavoro o occupazionali. Passa in questo modo, in virtù di una salvaguardia “oggettiva” della concorrenza, un controllo di merito degli accordi collettivi ed una limitazione di fatto dell’autonomia negoziale delle parti (si pensi all’ormai nota sentenza Albany). Questi recenti orientamenti giurisprudenziali sembrano configurare un ribaltamento nell’originaria gerarchia tra la tutela dei diritti dei lavoratori e la tutela della concorrenza.


Alla luce di questa recente piegatura dell’orientamento giurisprudenziale della Corte di giustizia europea e dell’allargamento a 25 dei Paesi dell’Unione (che significa ancora maggiore disomogeneità tra legislazioni e ordinamenti sociali e del lavoro) meglio si coglie il significato della proposta di direttiva Bolkestein, il cui scopo dichiarato è, come si legge nella premessa del testo, quello di “eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento dei prestatori di servizi ed alla libera circolazione dei servizi tra Stati membri”. Questi ostacoli sono così elencati nella premessa del testo: “regimi di autorizzazione troppo gravosi, eccessivo formalismo amministrativo, prescrizioni discriminatorie, controllo economico, ecc.”. Alternativamente, la limitazione della concorrenza, che la proposta di direttiva intende superare, avviene ogni qual volta “un prestatore, a partire dal proprio Stato membro d’origine, desidera fornire un servizio in un altro Stato membro, in particolare spostandosi temporaneamente nel territorio di quest’ultimo, e viene sottoposto all’obbligo giuridico di stabilirsi in detto Stato o di ottenere la sua autorizzazione, ovvero essere sottoposto all’applicazione delle sue norme sulle condizioni d’esercizio o a procedure sproporzionate in tema di distacco dei lavoratori”.


 


Campo di applicazione della direttiva 
 


La prima criticità che salta all’occhio nella lettura della proposta di direttiva insiste proprio sul campo di applicazione della direttiva stessa. La direttiva, infatti, si applica a “tutti i servizi forniti ad imprese e consumatori come attività economica” compresi i servizi di interesse economico generale (Sieg) come la sanità ed i servizi sociali, mentre ne restano esclusi i servizi d’interesse generale (Sig), tra i quali, si presume, l’istruzione e le funzioni pubbliche come la difesa, la polizia etc… Deroghe speciali sono previste per i servizi finanziari, i servizi di telecomunicazione ed i trasporti. Questi settori sono esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva Bolkestein perché oggetto di altre normative. Fatta salva quest’ultima esclusione, però, la vaghezza della distinzione tra servizi d’interesse generale e servizi d’interesse economico generale rimane tutta. Non esiste, infatti, tra i Paesi europei una definizione comune di servizi pubblici, né, tantomeno, una di servizi d’interesse generale (economici o meno).


La Commissione europea ha risposto negativamente alla richiesta dei sindacati di far precedere la direttiva da un accordo quadro che definisse i criteri per individuare i Sig (i servizi cui non si applicherebbe la direttiva Bolkestein perché d’interesse generale “non economico”). Dunque la definizione di cosa sia d’interesse generale e cosa meno rimane di competenza dei singoli Stati, i quali potrebbero optare per orientamenti diversi (è il caso dell’acqua: interesse economico generale, quindi assoggettabile alla concorrenza e alla privatizzazione, o interesse generale “non economico”?). La mancanza di un quadro chiaro di riferimento su quali siano i servizi di interesse generale assoggettabili o meno alla direttiva contrasta, peraltro, con l’intento di rendere più agevole il raccordo tra normative e lascia presupporre che un gran numero di controversie dovranno esser giudicate, di volta in volta, dalla Corte di giustizia europea in riferimento ad un settore economico, come peraltro si legge nello stesso testo della proposta di direttiva[2], assai vasto poiché rappresenta circa il 70% del prodotto interno lordo europeo ed il 50% dei servizi ad interesse economico.


 


Il principio del Paese d’origine (art. 16)


 


L’aspetto probabilmente più controverso della direttiva è l’applicazione del “principio del Paese d’origine”, sancito all’articolo 16 della proposta di direttiva, secondo cui il prestatore di servizi è tenuto al rispetto delle, e solo delle, normative vigenti nel Paese dove l’impresa è localizzata e non di quelle del Paese dove avviene la prestazione. In particolare la norma si riferisce a quelle regole, imposte da quasi tutti i Paesi, che regolano l’accesso e l’esercizio di un’attività in relazione al comportamento del prestatore (regole di condotta, requisiti di solidità e trasparenza fiscale…), alla qualità ed al contenuto del servizio. Anzi, la stessa direttiva precisa, come già visto, che non si possono imporre requisiti come l’obbligo per il prestatore di rispettare vincoli vigenti sul territorio (interpretati come un intralcio alla concorrenza). Il rischio di un simile orientamento è che il principio si possa tradurre in un incentivo alla localizzazione “formale” delle imprese in quei Paesi i cui standard in materia fiscale, ambientale, di sicurezza e qualità del servizio siano più convenienti (quindi “minimi”).


L’introduzione di questo principio in ambito della legislazione europea rappresenta una novità significativa, dal momento che si sostituisce, di fatto e per un settore economico così rilevante, al fino a questo momento consolidato “principio dell’armonizzazione”. L’Unione europea, infatti, ha sempre menzionato l’armonizzazione quale strumento di raccordo tra ordinamenti differenti, presupponendo un lavoro politico, anche lento e difficoltoso, per omogeneizzare le differenze legislative rispetto agli standard ritenuti socialmente preferibili. La sostituzione del principio dell’armonizzazione con quella del Paese d’origine lascia presupporre che l’omogeneizzazione degli ordinamenti avverrà, sì, ma non tramite un processo politico bensì attraverso l’azione livellatrice (verso gli standard più bassi ed economici) delle libere forze del mercato. È, peraltro, significativo che ciò avvenga in concomitanza dell’allargamento dell’Europa a 25 paesi.


 


Le deroghe al principio del Paese d’origine (art. 17) e la direttiva sul distacco internazionale di lavoratori (96/71/CE)


 


È peraltro vero che il principio del Paese d’origine è derogabile in una serie di casi (tra cui specifiche condizioni di ordine pubblico, salute e sicurezza). Le deroghe più significative sono quelle che riguardano le normative lavoristiche. Fa deroga al principio il riconoscimento delle qualifiche professionali (un ingegnere della Repubblica Ceca può non vedere riconosciuta la sua qualifica in Italia…) e la normativa riguardante il corposo settore degli appalti (la direttiva recita che in attesa di una completa armonizzazione delle regole riguardanti gli appalti di servizi la normativa vigente è quella del Trattato di Roma). La deroga più significativa è quella che si applica in presenza di distacco internazionale di lavoratori, il quale caso è normato da una precedente direttiva (96/71/CE) già recepita in Italia con il d.lgs. n. 72/02. Tutte le materie coperte da questa direttiva (salari minimi, tempo di lavoro, igiene e sicurezza…) sono escluse dall’applicazione del principio del Paese d’origine. Ai lavoratori, cioè, distaccati in un Paese diverso da quello dove è localizzata l’impresa andranno applicate le normative lavoristiche vigenti nel paese dove si effettua la prestazione (almeno quelle regolate dalla direttiva sul distacco internazionale di manodopera). La direttiva, però, mentre fa salve le condizioni di lavoro dal principio del Paese di origine, stabilisce che anche nel caso di distacco di lavoratori (potrebbe essere il caso delle agenzie somministratrici di lavoro che operino “cross-border”, cioè in Paesi diversi da quelli di localizzazione dell’agenzia) i controlli e gli accertamenti rispetto all’organizzazione del lavoro e del distacco gravino sul paese d’origine.  È  più che lecito, quindi, dubitare che questi controlli possano avvenire e che il Paese d’origine, anche quando sia motivato a farlo, sia in grado di effettuare controlli in un altro Stato membro o sia perfettamente al corrente delle normative vigenti nello Stato dove la prestazione avviene. Sempre per rimanere sul caso delle agenzie somministratrici, inoltre, la deroga per il distacco di lavoratori non implica nemmeno che le agenzie somministratrici siano sottoposte allo stesso regime di autorizzazione preventiva vigente in molti paesi per le imprese nazionali.


Si ricorda che, nel caso dell’Italia, il regime di autorizzazione preventiva delle imprese somministratrici è l’unico vincolo in grado di garantire sulla serietà delle agenzie somministratrici che la legge 30 (con il d.lgs 276/2003) richiede per esercitare la somministrazione di lavoro. Anche rispetto alle normative su sicurezza e prevenzione, come sottoline il Bts in una sua nota[3], il fatto che i controlli e gli accertamenti sulle condizioni di lavoro vengano affidate al Paese d’origine dell’impresa erogatrice del servizio rende inesigibili di fatto una serie di norme nazionali sulla sicurezza e prevenzione nei luoghi di lavoro.


Peraltro, nel criticare questi aspetti della deroga al principio del Paese d’origine, Confindustria e sindacati, sebbene con motivazioni differenti, si sono espressi concordemente. In una nota di Confindustria si legge che gli articoli della direttiva Bolkestein in questione (artt. 17 e 24) non offrono sufficienti garanzie affinché il processo di controlli e le dovute comunicazioni sul distacco di lavoratori vadano a buon fine[4].


 


Conclusioni: competizione tra ordinamenti e armonizzazione attraverso il mercato


 


Dunque, sebbene formalmente le condizioni di lavoro e gli ordinamenti giuslavoristici facciano eccezione al principio del Paese di origine (ma non i regimi di autorizzazione, controllo e informazione), i rischi di applicazione di standard più bassi sono reali per le ragioni appena menzionate. Tuttavia i rischi a livello del sistema degli ordinamenti sociali e lavoristici sono ancora maggiori. Se infatti la direttiva dovesse essere definitivamente approvata, la sua applicazione comporterebbe non tanto e non solo una competizione tra aziende erogatrici di servizi per aggiudicarsi commesse nello spazio economico europeo, quanto una competizione (al ribasso) tra ordinamenti legislativi in materia fiscale, ambientale, lavoristica e sociale per aggiudicarsi la localizzazione nel proprio territorio delle maggiori imprese di servizi. Abbandonato il principio dell’armonizzazione tra ordinamenti (che presuppone mediazioni politiche trainate dai Paesi con standard sociali più avanzati), il principio del Paese di origine si fa strumento di un’armonizzazione guidata unicamente dalle forze di mercato che indurrebbe i paesi con standard sociali più rigidi ad ammorbidire le proprie legislazioni per non soffrire della concorrenza dei Paesi più “permissivi”.






[1] Scarpelli F., I diritti dei lavoratori in rapporto alla libertà di concorrenza alla luce della proposta di Direttiva Bolkestein, relazione al seminario di studi sulla direttiva Bolkestein organizzato dalla Camera del lavoro metropolitana di Milano, 19 Gennaio 2005.



[2] Così il testo della proposta di direttiva: “I servizi sono onnipresenti nell’economia moderna. Essi producono nel complesso quasi il 70% del Pnl e dell’occupazione ed offrono un notevole potenziale di crescita e di creazione di posti di lavoro. La realizzazione di questo potenziale è uno degli obiettivi fondamentali del processo di riforma economica avviato dal Consiglio europeo di Lisbona allo scopo di fare dell’UE, entro il 2010, l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo. Fino ad oggi infatti i numerosi ostacoli allo sviluppo delle attività di servizi tra Stati membri hanno impedito che il potenziale di crescita presente nei servizi venisse pienamente realizzato”.



[3] Il Bts è l’Ufficio tecnico sindacale istituito a livello europeo dalla Ces e membro, su mandato della Commissione europea, del Cun (Comitato europeo per la normalizzazione), organismo adibito all’armonizzazione delle norme europee in materia di sicurezza e prevenzione. Così la nota del Bts: “L’articolo 16 della bozza di direttiva formula il principio del paese d’origine che sottopone i prestatori di servizi alle sole norme formulate nel paese d’origine. Nel campo della salute sul posto di lavoro, tali norme potrebbero entrare in conflitto con le disposizioni nazionali. In particolare, l’art. 16, 3 proibisce un certo numero di requisiti. Il punto h) interessa la salute e la sicurezza dei lavoratori in quanto proibisce qualunque “requisito relativo all’utilizzo di attrezzature che fanno parte integrante della prestazione del servizio”. Prendiamo il caso di un contratto collettivo stipulato nel settore edile che prevede che in certi cantieri venga utilizzato un solo tipo di ponteggio al fine di garantire un alto livello di sicurezza. Un tale requisito sarebbe contrario alle disposizioni della bozza di direttiva Bolkestein. Analogamente, i requisiti relativi alle attrezzature da utilizzare per un cantiere di rimozione dell’amianto potrebbero essere rimessi in causa qualora i requisiti del paese d’origine fossero diverse. Questa ipotesi è lungi dall’essere teorica: la materia non è mai stata completamente armonizzata dalla direttiva comunitaria sulla protezione della salute dei lavoratori esposti all’amianto. Il punto h) ha l’effetto indiretto di rimettere in causa l’esercizio delle competenze nazionali relative all’utilizzo delle attrezzature di lavoro così come indicato dalla direttiva 89/655 del 30 novembre 1989. Bisogna ricordare a tale riguardo che la direttiva in questione prevede una armonizzazione minima e permette agli Stati di adottare o mantenere disposizioni che assicurino una protezione maggiore dei lavoratori. D’altro canto la normativa sui controlli periodici delle attrezzature di lavoro che presentano dei rischi particolari rimane, in larga misura, di competenza nazionale. Anche qui le norme nazionali potrebbero essere private di efficacia nel caso di un prestatore d’opera il cui paese d’origine abbia adottato norme di livello inferiore.


In sintesi, la bozza di direttiva Bolkestein influenza gravemente le norme sulla salute sul luogo di lavoro nella misura in cui queste passano, in svariati casi, sotto la definizione di requisiti relativi a prestatori di servizi che intervengono a volte come attori diretti della prevenzione (servizi di prevenzione, organizzazione della sorveglianza della salute, coordinamento dei cantieri, etc…) e a volte come operatori economici la cui attività può influire sulla salute e la sicurezza dei lavoratori (ad es. imprese che intervengono nel settore della costruzione, lavoro interinale, etc…). Lungi dal realizzare un’armonizzazione compatibile con la protezione della salute e della sicurezza, la bozza mira ad una riduzione significativa della capacità degli Stati membri di adottare norme che garantiscano la qualità del lavoro di parti interessate che possono avere un ruolo importante dal punto di vista della salute e della sicurezza. Questa riduzione avrebbe un impatto sulle istituzioni statali (Parlamento, esecutivo, istituzioni amministrative) nonché numerosi attori non statali poiché i “requisiti” vietati o sottoposti a restrizioni dalla bozza di direttiva possono essere norme collettive adottate nell’esercizio dell’autonomia giuridica di associazioni o organismi professionali”.



[4]Nella citata nota di Confindustria sono espresse le preoccupazioni riguardo gli artt. 17 e 24 della proposta di direttiva: “l’articolo 17 prevede deroghe generali al principio del Paese d’origine per garantire la coerenza con gli atti giuridici vigenti in materia. In tale ottica la proposta di direttiva riconosce, nei confronti della direttiva sul distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi (direttiva 96/71/CE), l’applicazione del principio del Paese ospitante (c. d. Paese membro di distacco) ai fini dell’applicazione delle relative condizioni di lavoro ed occupazione, così derogando al principio del Paese d’origine.


Sempre in tema di distacco, l’articolo 24 detta disposizioni specifiche sulla materia, le quali, per taluni versi, vengono a porsi in evidente contrasto con la nostra disciplina di recepimento della direttiva 96/71/CE. In particolare l’articolo 24, comma 1, lett. a) confligge con l’articolo 4, comma 2, d.lgs. n. 72/02, il quale prevede – in presenza di talune circostanze – che le agenzie di lavoro interinale (stabilite in un altro Stato UE e che forniscono il proprio servizio in Italia) siano previamente autorizzate secondo le regole nazionali.


Nello specifico la norma dispone che l’autorizzazione imposta dalle leggi nazionali non è richiesta alle agenzie per il lavoro straniere (ovvero alle imprese straniere fornitrici di lavoro temporaneo) che dimostrino di operare in forza di un provvedimento amministrativo equivalente, rilasciato dall’autorità competente di uno Stato membro dell’UE diverso dall’Italia. Si auspica l’eliminazione di tale divieto in quanto l’autorizzazione prevista dal nostro d.lgs. n. 72/02 non rappresenta un ostacolo alla libera circolazione dei servizi, ma è diretta ad offrire garanzie minime di tutela ai lavoratori distaccati dal prestatore di servizi. Del resto, è lo stesso articolo 9 della proposta di direttiva a far salvi i regimi di autorizzazione giustificati da motivi imperativi di interesse generale (v. articolo. 9 comma 1, lett. b).


 Più in generale, Confindustria è dell’opinione che, al di là delle indicazioni contenute nell’articolo 17 (sulle deroghe generali al principio del Paese d’origine), non vi sia la necessità di individuare, con l’articolo 24, ulteriori norme, in materia di distacco dei lavoratori (già disciplinata dalla direttiva 96/71/CE). Sotto tale profilo, infatti, la proposta di direttiva in esame appare come una proposta integrativa delle misure già adottate dalla direttiva 96/71/CE, le quali, invece, sono da considerarsi esaustive sotto ogni profilo. […]


L’articolo 24 secondo comma, poi, non offre le necessarie garanzie di affidabilità che dovrebbe dare.


 In esso si prevede che in caso di distacco dei lavoratori lo Stato membro di origine provvede affinché il prestatore di servizi prenda tutte le misure necessarie per comunicare tutta una serie di informazioni tanto alle sue autorità competenti quanto a quelle dello Stato membro di distacco (e ciò fino a due anni dopo la fine del distacco). La prevista raccolta di informazioni viene di fatto accollata al prestatore di servizi senza, peraltro, alcuna garanzia circa il buon esito di tale meccanismo di controllo. In particolare si fanno presenti non solo le difficoltà di comunicazione poste dalle differenze linguistiche, ma anche la carente conoscenza da parte dello Stato d’origine della normativa applicabile nello Stato di distacco. In conclusione, tutto l’articolo 24 andrebbe sostituito con un mero rinvio agli articoli 4 (sulla cooperazione in materia di informazione), e 6 (sulla competenza giudiziaria) della Direttiva 96/71/CE”.

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