di Andrea Ciampani – Professore di Storia del movimento sindcale all’Università LUMSA di Roma
L’articolo riprende il tema oggetto di discussione nel numero di ottobre – dicembre 2008 della rivista “Sindacalismo, rivista di studi sulla rappresentanza del lavoro” .
La discussione pubblica sulla rappresentanza sindacale appare spesso così complessa e ricca di significato da disorientare non solo un osservatore esterno alle problematiche dei sindacati, ma spesso anche coloro che, coinvolti nella quotidianità dei conflitti di lavoro, sono abituati a brandire ora l’uno, ora l’altro corno della questione, muovendosi con disinvoltura attraverso quel porto delle nebbie che sembra talora essere il nodo della rappresentatività. Non sfugge, tuttavia, ad una pacata riflessione che lo sviluppo della rappresentanza sindacale in una forza sociale dotato di una propria rappresentatività costituisce il cuore della presenza sindacale nella società contemporanea. L’organizzazione sindacale contemporanea è legata intimamente a una prospettiva di emancipazione del lavoro “avente al suo centro”, ricordava Mario Romani nella difficile condizione dei sindacati nell’Italia del 1951, “la responsabilità assunta apertamente come singoli e come gruppo, la possibilità di essere soggetti a pieno titolo della vita economica, sindacale, culturale e politica; il superamento cioè della posizione di sudditanza già vissuta da generazioni e generazioni.”
Comprendere la peculiarità del nesso tra rappresentanza e rappresentatività nell’azione sindacale, insomma, significa riflettere sull’evoluzione e sulla esistenza stessa del movimento sindacale in una società caratterizzata dall’interdipendenza dei centri di formazione delle decisioni economiche, sociali e politiche. E’ un tema, questo, che interessa l’intera classe dirigente del nostro Paese. Peraltro, le scelte sulla evoluzione della rappresentanza costituiscono, più o meno consapevolmente, l’architrave di una strategia sindacale; intorno al dibattito sulla rappresentanza sindacale si gioca una partita decisiva per l’esistenza stessa dei sindacati, e non solo in Italia.
Per questo nell’attuale dibattito sulla rappresentanza sindacale è opportuno affrontare con chiarezza alcune questioni centrali ed indicare senza esitazioni il cuore del problema, evitando dubbi e fraintendimenti nefasti; per questo la discussione sulla rappresentanza sindacale non si può affrontare con schematismi o riduttive prospettive parziali, finalizzate ad obiettivi contingenti e subordinate all’assunzione di posizione di forza all’interno di ambienti sindacali e politici. Facendosi strada attraverso contrapposizioni modellistiche, proprio su questo tema si richiede alle parti sociali un comune sforzo di maturità e di creatività per affrontare le profonde trasformazioni del mondo del lavoro.
In tale contesto non si può dimenticare, dunque, come la libertà sindacale resta il punto di partenza della rappresentanza sindacale in una società democratica: la libertà dei singoli e la libertà delle organizzazioni di promuovere strutture associative secondo il diritto comune. La rappresentanza sindacale è lo strumento mediante il quale i lavoratori, che volontariamente si organizzano nei sindacati, si costituiscono come soggetto collettivo e come tale agiscono per la rappresentazione e la tutela dei loro interessi. In realtà, l’accettazione della dimensione associativa propria della rappresentanza trova un elemento di forza nella preservazione dei valori essenziali di una libera esperienza sindacale. La libertà d’associazione, la libertà di azione collettiva solidale e responsabile e la libertà di contratto ancora oggi corrispondono alle attese sociali e civili delle persone che lavorano, secondo modalità che non possono offrire quelle forme istituzionali, “corporative” o elettive, di aggregazione del consenso che rischiano di condurre a forme “parastatali” del sindacato.
Peraltro, è facile osservare come l’introduzione di forme di rappresentatività non fondate sul radicamento associativo finisca per contraddire anche le esigenze di efficacia della governance della società complessa, riproducendo liturgie neocorporative, pericolose incubatrici di emarginazioni o rigetti sociali. Nessun partito o governo democratico, del resto, potrebbe oggi coltivare un serio interesse nel mortificare le dinamiche associative di una radicata rappresentanza sociale, nella quale si riverbera una domanda politica che necessita ascoltare per non abbandonare in mano a derive populiste la “voce” dei lavoratori che aspirano a una maggiore cittadinanza sociale. Nessun imprenditore nei paesi avanzati, impegnato a ridurre i rischi della propria intrapresa, avrebbe giovamento a piegarsi a ulteriori vincoli di legge che irrigidissero le relazioni industriali, con la prospettiva di aprire ulteriori varchi a radicalismi sociali e conflittualità non mediati. Nessuna organizzazione sindacale vivace potrebbe accettare di rinunciare alla legittimazione che gli viene dalla libera adesione dei lavoratori e dall’esercizio della rappresentanza di mandato che da essa deriva; diversamente dovrebbe ammettere l’inefficacia della propria azione collettiva.
Un ripensamento, da taluno proposto, dell’accordo interconfederale del giugno 1991 e dell’accordo di “concertazione” del luglio 1993, dunque, potrebbe lavorare per ricondurre ai sindacati la libertà di rappresentanza e la piena titolarità dell’azione contrattuale ai differenti livelli. Appare possibile perseguire tale obiettivo, con tenacia e creatività, attraverso un laborioso, ma essenziale processo di convincimento.