Vito Pinto – Ricercatore in Diritto del Lavoro all’Università di Bari
(La Legge delega in Documentazione)
Con la definitiva approvazione da parte del Senato della ‘Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro’ ha avuto inizio la profonda rivisitazione dell’ordinamento giuridico del lavoro preannunciata dal ‘Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia’ dell’ottobre 2001 e, prima ancora, compiutamente delineata dal prof. Marco Biagi in una relazione presentata al Comitato scientifico di Confindustria il 18 aprile 2001 (la relazione è pubblicata in RIDL 2001, I, pp. 257 ss.).
Orbene, nei mesi scorsi si è molto discusso – in diverse sedi – delle iniziative politiche del Governo in materia di lavoro e non è certo questa la sede per riprendere il dibattito (in proposito, sia consentito il rinvio a Pinto – Voza, Il Governo Berlusconi e il diritto del lavoro: dal Libro Bianco al disegno di legge delega, in RGL 2002I, pp. 453 ss.). Tuttavia, è opportuno richiamare sinteticamente – ed anche a costo di qualche semplificazione – l’idea politica fondamentale dalla quale trae origine anche questo intervento legislativo.
Nella riforma, infatti, le esigenze organizzative e produttive del singolo imprenditore sono assunte – senza mediazione alcuna – ad interesse generale (o, se si preferisce, nel processo di selezione degli interessi operato dalle forze politiche attualmente egemoni, quelle esigenze sono considerate come meritevoli della massima tutela e soddisfazione) poiché vi sarebbe una relazione diretta e conseguenziale tra efficienza dell’impresa, crescita del sistema economico nel suo complesso e coesione sociale. Più precisamente, l’efficienza dell’impresa richiederebbe l’abrogazione di quelle norme che, emanate nel tempo per tutelare i lavoratori subordinati, condizionerebbero intollerabilmente le strategie organizzative delle imprese appesantendone la struttura dei costi, diretti ed indiretti; mentre la protezione dei lavoratori, così come la solidità del tessuto sociale, deriverebbero spontaneamente dalla ritrovata competitività delle imprese italiane sul mercato internazionale (anziché dall’operare di specifici dispositivi giuridici).
Orbene, anche quando la legge delega riprende proposte e progetti già discussi nella precedente legislatura, l’obiettivo che orienta la riforma resta fondamentalmente quello delineato. E ciò è particolarmente evidente nei casi in cui il legislatore sposta la protezione del lavoratore sul piano dell’autonomia individuale (si pensi al caso del part-time) o tenta di sottrarre l’assetto di interessi realizzato dalle parti al sindacato del giudice.
1. La riforma del mercato del lavoro e la nuova disciplina delle agenzie private dell’impiego.
In questa sede non è possibile dare conto – nel dettaglio – di tutti gli aspetti della legge delega, ragione per cui è parso opportuno limitare il discorso ai tre nuclei regolativi più significativi e, più precisamente, alle previsioni in materia di mercato del lavoro (art. 1), di riordino e ampliamento delle tipologie contrattuali (artt. 2-4), di certificazione dei rapporti di lavoro (art. 5). Eccedono i limiti della presente riflessione, invece, altre norme che pure avranno un’incidenza importante sugli assetti socio-economici: si tratta, in particolare, delle disposizioni relative al trasferimento di azienda (art. 1, co. 2, lett. p); alla riorganizzazione delle funzioni statali in materia di mercato del lavoro (art. 1, co. 2, lett. b, n. 4 nonché lett. c e d) e di ispezione e vigilanza (art. 8); di rapporti di lavoro dei soci di cooperativa (art. 9); di benefici alle imprese artigiane, commerciali e del turismo (art. 10).
Il primo nucleo normativo ha come finalità dichiarata quella “di realizzare un sistema efficace e coerente di strumenti intesi a garantire trasparenza ed efficienza al mercato del lavoro e a migliorare le capacità di inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca di prima occupazione” (art. 1, co. 1).
A ben vedere, però, la previsione riguardante l’offerta di lavoro e, più precisamente, le “capacità professionali” delle persone in cerca di occupazione è soltanto una e per di più formulata in modo molto generico. Così, ad esempio, il legislatore delegato dovrà garantire “sostegno e sviluppo dell’attività lavorativa femminile e giovanile” oltre che il “reinserimento dei lavoratori anziani” (art. 1, co. 2, lett. b, n. 2); ma non è affatto scontato che l’intervento legislativo si traduca in misure in grado di incrementare o migliorare le capacità e/o abilità professionali di questi soggetti, potendosi limitare all’ennesima concessione di benefici economici e/o contributivi per i datori di lavoro che assumano queste particolari categorie di lavoratori.
La futura disciplina delegata, invece, riguarderà soprattutto le agenzie – pubbliche e private – che operano sul cd. mercato del lavoro realizzando attività di mediazione e/o intermediazione dei rapporti di lavoro.
Iniziando dalle agenzie pubbliche e, in particolare, dai servizi per l’impiego, il legislatore anzitutto prevede che tra pubbliche amministrazioni e operatori privati si instauri un vero e proprio regime di concorrenza e, a tal fine, pone al legislatore delegato l’obiettivo di rendere il “sistema del collocamento pubblico […] maggiormente efficiente e competitivo” (art. 1, co. 2, lett. b; di “sistema concorrenziale fra pubblico e privato” scrive anche Biagi a p. 284 della relazione innanzi indicata; cfr. anche il Libro Bianco, parte seconda, § II.1.4). A prescindere dai termini utilizzati (non pare vi possano essere dubbi sul fatto che “collocamento pubblico” sia, dopo i d. lgs. nn. 469/1997 e 297/2002, espressione giuridicamente impropria), e pur senza demonizzare il principio di concorrenza, possono essere avanzati seri dubbi sulla possibilità di porre l’attività dei centri territoriali per l’impiego (per definizione non orientata dallo scopo di lucro) in concorrenza con quella di operatori privati. Per il vero, questa prospettiva convive – nel testo della delega – con un’altra ad essa antinomica: la legge, infatti, prevede anche il principio della “incentivazione delle forme di coordinamento e raccordo tra operatori privati e operatori pubblici, ai fini di un migliore funzionamento del mercato del lavoro” (art. 1, co. 2, lett. f; v., però, il Libro Bianco per il quale la cooperazione dovrebbe avere ad oggetto “la produzione e l’utilizzo di informazioni”: § II.1.3).
Questa seconda prospettiva appare molto più adeguata rispetto agli obiettivi della riforma, purché la complementarità tra pubblico e privato comporti che il primo debba porre rimedio agli effetti sociali negativi eventualmente provocati dal secondo. È chiaro, ad esempio, che – nella ricerca del profitto – le agenzie private di mediazione e/o intermediazione potrebbero ritenere poco conveniente investire attività e risorse per promuovere l’occupazione di persone a rischio di esclusione sociale: la remunerazione della loro attività, infatti, dipende dall’avvenuta stipulazione di un contratto di lavoro subordinato (per gli agenti di cui all’art. 10, d. lgs n. 469/1997) o dall’assegnazione del lavoratore all’imprenditore utilizzatore (per le agenzie di lavoro temporaneo). Insomma, se lo stato di inoccupazione o disoccupazione – e quindi l’esclusione sociale – dipende ad esempio da fattori quali la mancanza di precedenti esperienze lavorative o l’obsolescenza delle abilità e capacità professionali, che rendono poco conveniente l’assunzione/utilizzazione da parte dell’imprenditore; e se dalla assunzione/utilizzazione ha origine il diritto delle agenzie private a percepire un compenso per l’attività di mediazione/intermediazione svolta, è evidente come l’attività dei privati non si indirizzi spontaneamente – salvo casi limite – ai lavoratori la cui situazione professionale sia quella innanzi indicata. Ecco allora che proprio per quelle fasce di lavoratori diventa indispensabile l’attività di enti e p.a. che hanno quale scopo specifico quello di rimuovere le cause dell’esclusione sociale (si ricordi, però, che il Libro Bianco – parte seconda, § II.1.3 – valuta come “pericoloso e controproducente che il servizio pubblico [continui] a presentare l’immagine di un servizio inefficiente e diretto unicamente alle frange marginali della forza lavoro”).
Quanto appena affermato, del resto, costituisce un preciso obbligo per l’Italia, la quale ha ratificato la Convenzione OIL n. 181 del 1997 (in G.U. del 2 febbraio 2000, n. 26, “Estratti, sunti, comunicati”). Orbene, l’art. 13 della suddetta convenzione impegna ogni Stato Membro a ”stabilire e rivedere regolarmente le condizioni atte a promuovere la cooperazione fra il servizio pubblico dell’impiego e le agenzie per l’impiego private”; cooperazione che – ai sensi della Raccomandazione OIL n. 188/1997 potrebbe prevedere attività quali “il varo di progetti comuni ad esempio nel settore della formazione” o “la stipula di convenzioni […] relative all’esecuzione di alcune attività quali progetti per l’inserimento dei disoccupati di lunga durata” (cfr. Parte III, n. 17).
Insomma, una collaborazione tra servizi pubblici per l’impiego e agenzie private è possibile riservando ai primi il monitoraggio dell’occupazione e la diffusione dei relativi dati nonché le decisioni circa l’utilizzazione e il controllo dell’uso delle risorse finanziarie pubbliche destinate alla realizzazione delle politiche attive del lavoro; e lasciando agli operatori privati la libertà di seguire le proprie convenienze.
Ciò posto, peraltro, si può avanzare il dubbio – ma non è certo questa la sede per approfondire la questione – che i problemi attuali dei servizi pubblici per l’impiego riguardino molto più la definizione delle politiche attive del lavoro e la concreta amministrazione che la regolamentazione legislativa vera e propria. Dubbio che, se fondato, legittimerebbe un giudizio politico di inutilità della riforma legislativa ormai in itinere.
Sempre per quanto riguarda le agenzie private di mediazione ed intermediazione, poi, la legge delega accoglie due delle richieste avanzate con più insistenza dalle agenzie di lavoro temporaneo e dalle organizzazioni che le rappresentano, vale a dire l’eliminazione dell’oggetto sociale esclusivo (art. 1, co. 2, lett. i); e la possibilità di cedere e di trasferire l’autorizzazione all’esercizio dell’attività (art. 1, co. 2, lett. l). L’eliminazione del vincolo costituito dall’esclusività dell’oggetto sociale, poiché consentirà a ciascuna agenzia di presentarsi ai propri clienti come interlocutore unico qualunque sia il servizio da questi richiesto (dalla selezione del personale all’intermediazione vera e propria), dovrebbe avere quale effetto una profonda riorganizzazione del mercato del lavoro (dalla parte degli imprenditori che vi operano, naturalmente) con l’espulsione delle agenzie di minori dimensioni e/o meno articolate territorialmente e/o che non svolgano attività di nicchia.
Sotto il profilo del regime autorizzatorio, invece, la legge precisa che esso sarà “unico” per operatori pubblici e privati, sebbene “modulato in relazione alla natura giuridica dell’intermediario” (art. 1, co. 2, lett. l; combinato disposto alquanto ambiguo ma che può essere razionalizzato ritenendo che, ferma restando l’unicità delle procedure di autorizzazione e/o accreditamento, saranno diversificati i requisiti sostanziali richiesti all’agenzia ai fini della concessione); ma, nel medesimo tempo, resterà “differenziato in funzione del tipo di attività svolta”.
Il dato fondamentale che è possibile trarre da queste previsioni, però, è l’apertura del “mercato” delle prestazioni di lavoro anche a enti locali, associazioni non riconosciute, “enti o organismi bilaterali costituiti da associazioni dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale o territoriale”, consulenti del lavoro, Università e istituti di scuola secondaria di secondo grado (art. 1, co. 2, lett. l).
Ma la legge delega amplia anche il tipo di attività che potranno essere realizzate da operatori pubblici e privati, abrogando la legge n. 1369/1960 e rendendo ammissibile la “somministrazione di manodopera, anche a tempo indeterminato, in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo od organizzativo, individuate dalla legge o dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative” (art. 1, co. 2, lett. m; a ciò si aggiunga che l’art. 4, co. 1, lett. b prevede la completa praticabilità del lavoro temporaneo anche nel settore agricolo). Dal punto di vista giuridico-sistematico, questa è certamente una delle modificazioni legislative di più ampia portata. Il legislatore non intende legittimare qualsiasi attività qualificabile come interposizione o intermediazione nei rapporti di lavoro, ma piuttosto ridefinire le fattispecie dell’appalto, del comando e distacco, della somministrazione di manodopera (quindi anche del lavoro temporaneo tramite agenzia) e, appunto, dell’interposizione illecita. Nella delega, poi, il legislatore elimina ogni riferimento alla durata del contratto di somministrazione di manodopera ma ne limita la stipulazione alla ricorrenza in concreto di esigenze imprenditoriali precedentemente tipizzate dal legislatore e/o dall’autonomia collettiva.
Il fulcro della futura disciplina, pertanto, sarà proprio l’individuazione di questo requisito causale e, in definitiva, la selezione delle esigenze imprenditoriali meritevoli di tutela mediante il ricorso al nuovo istituto. Il legislatore delegato, per parte sua, non potrà né liberalizzare completamente il ricorso alla somministrazione; né limitarsi a ribadire che il ricorso al nuovo istituto sarà consentito, genericamente, per “ragioni di carattere tecnico, produttivo od organizzativo” (come accade, ad esempio, per la stipulazione del contratto a termine nel d. lgs. n. 368/2001): in entrambi i casi, infatti, saremmo in presenza di un eccesso di delega perché questa esplicitamente rinvia alla legge la tipizzazione di quelle ragioni.
Sempre nell’articolo 1 delle legge delega, infine, vi è una serie di norme di protezione dei lavoratori – meglio: delle persone in cerca di occupazione – che costituiscono attuazione della Convenzione OIL n. 181/1997 ed hanno lo scopo di garantire una tutela minima a coloro che entrino in contatto con le agenzie private di mediazione e/o di intermediazione.
Rientrano tra queste norme la delega relativa alla “ridefinizione del regime del trattamento dei dati relativi all’incontro tra domanda e offerta di lavoro, nel rispetto della legge 31 dicembre 1996, n. 675” ma, soprattutto, il “divieto assoluto per gli operatori privati e pubblici di qualsivoglia indagine o comunque trattamento di dati ovvero di preselezione dei lavoratori, anche con il loro consenso, in base all’affiliazione sindacale o politica, al credo religioso, al sesso, all’orientamento sessuale, allo stato matrimoniale, o di famiglia, o di gravidanza, nonché ad eventuali controversie con i precedenti datori di lavoro”; e del “divieto di raccogliere, memorizzare o diffondere informazioni sui lavoratori che non siano strettamente attinenti alle loro attitudini professionali e al loro inserimento lavorativo” (art. 1, co. 2, lett. g).
Significativa delle opzioni seguite dal legislatore nazionale, invece, potrebbe essere l’attuazione dell’altra previsione riconducibile alla Convenzione, vale a dire quella per la quale non possono essere previsti dal legislatore “oneri e spese a carico dei lavoratori” in connessione con l’attività delle agenzie private di mediazione e/o intermediazione. Si tratta, peraltro, di un principio già presente nel nostro ordinamento giuridico (cfr. l’art. 10, co. 4, l. n. 196/1997 e l’art. 10, co. 10, d. lgs. n. 469/1997).
Sennonché, la norma delegante prosegue precisando che è “fatto salvo quanto previsto dall’art. 7 della Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) del 19 giugno 1997, n. 181, ratificata dall’Italia in data 1º febbraio 2000” (art. 1, co. 2, lett. l). Orbene, quest’ultima previsione, dopo aver previsto che “le agenzie per l’impiego private non devono far pagare ai lavoratori, direttamente o indirettamente, spese o altri costi” (§ 1) consente agli Stati deroghe al suddetto principio “nell’interesse dei lavoratori” e purché esse siano limitate “per alcune categorie di lavoratori, e per servizi specificamente identificati, forniti dalle agenzie per l’impiego private” (§ 2). È evidente come proprio l’individuazione delle ipotesi derogatorie, quindi, costituirà il punto politicamente più significativo della futura legislazione delegata.
2. La revisione della disciplina dei contratti di lavoro subordinato a contenuto formativo e l’ulteriore modificazione della disciplina del lavoro a tempo parziale.
Un secondo, fondamentale, nucleo regolativo della legge delega riguarda il riordino delle tipologie contrattuali esistenti (artt. 2-3). E si tratta, è bene precisarlo, della materia in cui le scelte del legislatore delegante sono in perfetta continuità con le opzioni politiche prevalenti nel corso della XIII legislatura.
L’art. 2, in particolare, ha ad oggetto la riformulazione della disciplina dei “rapporti di lavoro con contenuto formativo” (vale a dire dell’apprendistato e del contratto di formazione lavoro) e degli altri istituti “di inserimento al lavoro, non costituenti rapporto di lavoro, mirate alla conoscenza diretta del mondo del lavoro” (stages, tirocini formativi e di orientamento e così via).
La revisione dei contratti di lavoro subordinato implicanti un obbligo formativo è da tempo all’ordine del giorno per motivi diversi (v. le deleghe conferite, ma non attuate, dall’art. 16, co. 5, l. n. 196/1997 e dagli artt. 45, co. 1, lett. b, l. n. 144/1999 e 1, co. 2, l. n. 263/1999). A parte la perdurante assenza di una disciplina organiza della materia, infatti, inducono alla revisione della disciplina delle suddette tipologie contrattuali sia le continue oscillazioni giurisprudenziali in ordine al significato giuridico da attribuire all’obbligo formativo (e, conseguentemente, in ordine alle conseguenze da trarre in caso di violazione); sia la recente decisione della Corte di Giustizia che ha valutato come illegittimi, per contrasto con l’art. 87, alcuni incentivi concessi alle imprese in conseguenza dell’assunzione di lavoratori concontratto di formazione e lavoro (sentenza 7 marzo 2002, causa C-310/99, edita in RIDL, 2002, II, pp. 435 con nota di Tiraboschi).
Ciò spiega perché la delega legislativa sia esplicitamente diretta a realizzare “la revisione e la razionalizzazione dei rapporti di lavoro con contenuto formativo” e perché sia esplicitato che la nuova disciplina organica della materia dovrà essere conforme “agli orientamenti comunitari in materia di aiuti di Stato alla occupazione (art. 2, co. 1, lett. a).
Nel nuovo assetto, comunque, l’apprendistato costituirà la tipologia contrattuale formativa per eccellenza, mediante la quale il giovane potrà incrementare il proprio bagaglio professionale acquisendo abilità e capacità che potrà spendere nella ricerca di un’occupazione: infatti, il legislatore delegante prevede espressamente, sebbene con formulazione davvero infelice, che l’apprendistato costituisca il contratto mediante il quale realizzare un’integrazione tra mondo del lavoro, sistema della formazione professionale e sistema scolastico (art. 2, co. 1, lett. b; ma cfr. l’art. 17, co. 1, l. n. 196/1997 come modificato dalla l. n. 144/1999). Il contratto di formazione e lavoro, invece, assolverà la funzione di “realizzare l’inserimento e il reinserimento del lavoratore in azienda” (art. 2, co. 1, lett. b).
Quanto ai contenuti formativi, la legge delega impone di “valorizzare l’attività formativa svolta in azienda” (lett. b) e di sperimentare “orientamenti, linee-guida e codici di comportamento, al fine di determinare i contenuti dell’attività formativa” (lett. h). Questi ultimi, in particolare, saranno “concordati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e territoriale, anche all’interno di enti bilaterali ovvero, in difetto di accordo, determinati con atti delle Regioni, d’intesa con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale”. Concordate tra le medesime organizzazioni sindacali saranno anche le “modalità di attuazione dell’attività formativa in azienda” (lett. i). Infine, il rinvio agli obiettivi e ai criteri di cui all’art. 16, co. 5, l. n. 196/1997 è tale da delegare al Governo anche la previsione di “un sistema organico di controlli sulla effettività dell’addestramento e sul reale rapporto tra attività lavorativa e attività formativa, con la previsione di specifiche sanzioni amministrative per l’ipotesi in cui le condizioni previste dalla legge non siano state assicurate” (così, appunto, l’art. 16, co. 5, l. n. 196/1997).
Per le restanti direttive legislative, il testo recentemente approvato riprende – con poche e non significative differenze testuali – i principi e criteri direttivi contenuti nell’art. 45, co. 2, l. n. 144/1999. Più precisamente, l’attuale maggioranza parlamentare condivide quanto era già stato deciso in ordine alla “individuazione di misure idonee a favorire forme di apprendistato e di tirocinio di impresa al fine del subentro nell’attività di impresa” (lett. c); alla “revisione delle misure di inserimento al lavoro, non costituenti rapporto di lavoro” (lett. d); alla necessità di “valorizzare l’inserimento o il reinserimento al lavoro delle donne” (lett. e).
Se in questa materia è dato registrare una forte continuità tra orientamenti legislativi riconducibili a matrici politiche diverse, la situazione è completamente diversa con riferimento al lavoro part-time.
Limitando il discorso a quelli che oggi appaiono gli elementi più significativi della riforma di quest’altra tipologia contrattuale, l’art. 3 della legge delega prevede una nuova modificazione delle norme in materia di lavoro supplementare e di distribuzione elastica dell’orario di lavoro, ossia degli istituti che rappresentano la maggior fonte di flessibilità funzionale per i datori di lavoro (e, correlativamente, di pregiudizio per i lavoratori).
Per comprendere il significato di queste norme è opportuno ricordare che, anche dopo il d. lgs. n. 61/2000, il contratto collettivo ha conservato la funzione di autorizzare il datore di lavoro al ricorso alle prestazioni lavorative supplementari e che, in particolare, l’effetto autorizzatorio è subordinato all’applicazione in concreto dell’intero contratto collettivo. Orbene, la legge delega prevede che il ricorso al lavoro supplementare sia possibile “anche sulla base del consenso del lavoratore interessato in carenza dei predetti contratti collettivi” (lett. a). In futuro, quindi, chi applichi uno dei contratti collettivi individuati dalla d. lgs. n. 61/2000 potrà ottenere il lavoro supplementare a patto che la clausola collettiva lo consenta ed il lavoratore sia consenziente; chi non dovesse applicare alcun contratto collettivo o applichi contratti collettivi diversi da quelli delegati, invece, potrà chiedere ed ottenere ugualmente prestazioni supplementari purché vi sia il consenso del lavoratore. Circostanza che, evidentemente, rende molto meno conveniente per l’imprenditore l’applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.
Discorso in parte analogo vale per il potere di variare la distribuzione e la collocazione oraria della prestazione lavorativa. Attualmente, infatti, la legge consente di variare la collocazione della prestazione lavorativa ferma restando la distribuzione giornaliera, settimanale, mensile o annuale. La legge delega, invece, intende attribuire al datore di lavoro il potere di variare anche la distribuzione dell’orario di lavoro permettendo, ad esempio, di chiedere la prestazione lavorativa in una giornata in cui ciò essa non sia programmata e viceversa. La facoltà, peraltro, è espressamente limitata ai part-time verticali o misti; è collegata alla corresponsione di una maggiorazione retributiva; e, infine, è condizionata al consenso del lavoratore interessato “in carenza dei contratti collettivi” stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative su scala nazionale o territoriale.
Le nuove norme in materia di part-time porranno problemi interpretativi e sistematici nuovi e complessi. È chiara, però, la finalità della riforma: consentire ai datori di lavoro una pressoché piena disponibilità dell’orario di lavoro; disponibilità che ha quale unico (fragile) limite la volontà del lavoratore interessato.
Del resto, se si considera che il Libro Bianco individua nei “vincoli legislativi” il fattore che ha finora determinato la scarsa diffusione dell’istituto, c’è da attendersi che le modificazioni quantitativamente maggiori e sistematicamente più significative del part-time avranno luogo in esecuzione dell’ultima direttiva legislativa, quella che consente al legislatore delegato la “abrogazione o integrazione di ogni disposizione in contrasto con l’obiettivo della incentivazione del lavoro a tempo parziale”. Diversi elementi consentono di prevedere, in particolare, l’abrogazione o la modificazione delle previsioni legali che assoggettano la volontà individuale al condizionamento e al controllo sindacale (analogamente a quanto accaduto, per esempio, nella disciplina del contratto a termine).
3. Nuove tipologie contrattuali.
Un ulteriore nucleo regolativo caratterizzante la legge delega è quello relativo all’ampliamento delle tipologie contrattuali mediante i quali è possibile ottenere e organizzare il lavoro altrui (art. 4); schemi negoziali che, per il vero, non sono compiutamente individuati dal legislatore delegante.
Orbene, nell’area del lavoro subordinato rientra certamente il “lavoro a prestazioni ripartite” (o job sharing) (art. 4, lett. e; ma è da precisare che questo particolare tipo di scambio negoziale è sempre stato considerato lecito ex art. 1322, co. 2, c.c.). Con questo contratto due o più lavoratori si obbligano in solido nei confronti di un unico datore di lavoro all’esecuzione di prestazioni lavorative della durata complessiva pari ad una prestazione ad orario pieno. I lavoratori, quindi, possono liberamente ripartirsi l’orario di lavoro (ricevendo dal datore di lavoro una retribuzione proporzionale alle prestazioni effettuate), ma hanno l’obbligo di sostituirsi vicendevolmente in caso di impedimento.
Nonostante la confusione presente nel Libro Bianco (§ II.3.4), non pare vi possano essere dubbi circa la riconducibilità al genus del lavoro subordinato del cd. “lavoro a chiamata”, consistente in “prestazioni di carattere discontinuo o intermittente” (art. 4, co. 1, lett. a). Così come strutturata nella legge delega, questa tipologia negoziale è riconducibile al lavoro subordinato ad orario ridotto; implica la disponibilità del lavoratore a prestare la propria attività non appena “chiamato”; e, infine, comporta il pagamento di un’apposita indennità quale compenso per tale disponibilità (coerentemente a quanto deciso da Corte Cost. 210 del 1992). Evidentemente, il compito del legislatore delegato in materia si presenta molto impegnativo dovendo mediare tra l’interesse imprenditoriale a disporre di una “riserva di forza lavoro” ogni volta che si presenti la necessità di impiegarla e l’opposto interesse del lavoratore a poter programmare altre attività lavorative o il proprio tempo libero.
Occorre evidenziare, peraltro, come la legge delega pare condizionare la stessa legittimazione a stipulare il contratto di lavoro a chiamata, in quanto prevede che le prestazioni di carattere discontinuo o intermittente debbano essere “individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative su scala nazionale o territoriale” (ma anche, “in via provvisoriamente sostitutiva, per decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali”). I limiti ed i modi di questo condizionamento – ma anche dell’intervento sostitutivo – costituiranno altrettanti punti cruciali al fine di verificare l’effettiva rispondenza delle riforme in oggetto al paradigma neo-liberista innanzi evidenziato.
Rientrano nell’area del lavoro autonomo, invece, le collaborazioni coordinate e continuative, in cui la prestazione dedotta in contratto è eseguita con lavoro “prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione” ed è riconducibile “a uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi di esso”. La collaborazione coordinata e continuativa, da pattuire sempre in forma scritta, avrà sempre una durata “determinata o determinabile” (art. 4, lett. c, n. 1) essendo connessa “a uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi di esso” (art. 4, lett. c, n. 3).
La durata del vincolo obbligatorio, quindi, assume un’importanza decisiva al fine di distinguere le collaborazioni coordinate e continuative dalle collaborazioni meramente occasionali, vale a dire da quei rapporti di lavoro autonomo “di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivo per lo svolgimento della prestazione sia superiore a 5.000 euro” (art. 4, lett.c, n. 2); ma anche dalle altre forme di collaborazione in cui la continuità della prestazione lavorativa si dovesse tradurre nella mancata apposizione di un termine di durata al contratto.
La circostanza è tutt’altro che secondaria, dal momento che solo con riferimento alle collaborazioni coordinate e continuative il legislatore delegante dispone “la previsione di tutele fondamentali a presidio della dignità e della sicurezza dei collaboratori, con particolare riferimento a maternità, malattia e infortunio, nonché alla sicurezza nei luoghi di lavoro” (art. 4, lett. c, n. 4). Infatti, sebbene il legislatore precisi che dovrà trattarsi di tutele “fondamentali” (cioè minime), la previsione di una durata determinata (o oggettivamente determinabile) quale requisito della fattispecie comporterà che l’applicazione di una protezione minima inderogabile del lavoratore o l’assenza di qualsiasi protezione sarà determinata dall’apposizione o meno di un termine al contratto di collaborazione (ossia dipenderà dalla volontà delle parti o, più probabilmente, dalla decisione del committente).
Comunque, è evidente che il legislatore abbia considerato come meritevoli di tutela le “impellenti domande di trasformazione dei moduli di utilizzazione del lavoro” poste delle imprese (così Biagi, cit., p. 274).
Ciò che, invece, la legge delega tralascia completamente è il profilo sanzionatorio applicabile in caso di violazione delle norme inderogabili poste a tutela del lavoratore e, soprattutto, di abuso dello schema negoziale (vale a dire di contraddizione tra il programma negoziale concordato e la sua successiva attuazione). Quanto a quest’ultima ipotesi è chiaro che, se alla stipulazione di un contratto di lavoro autonomo (qualunque sia la species) dovesse seguire un rapporto giuridico avente le caratteristiche oggettive della subordinazione, non vi sarà alcuna possibilità per il datore di lavoro di evitare la diversa qualificazione giuridica del contratto e l’imputazione automatica degli obblighi caratteristici del contratto di lavoro subordinato. Questo effetto, infatti, deriva dall’esistenza di normative legali inderogabili poste a protezione del lavoratore subordinato le quali, proprio perché inderogabili, non possono essere eluse ricorrendo alla stipulazione di un contratto dal diverso nomen juris.
Il legislatore delegato, invece, potrà regolare liberamente tutte le altre relazioni funzionali tra schemi negoziali stabilendo, ad esempio, se la stipulazione di un contratto di lavoro a chiamata per ipotesi non previste dalla contrattazione collettiva comporti la “conversione” dello stesso in un contratto a tempo pieno oppure no; o, nell’area del lavoro autonomo, se la prosecuzione di una collaborazione occasionale oltre il trentesimo giorno nel corso dell’anno determini la qualificazione del rapporto in termini di collaborazione coordinata e continuativa (con applicazione delle tutele, per quanto minime, previste per questa tipologia negoziale) o se, più semplicemente, ciò comporti un mero risarcimento del danno (magari sotto forma di maggiorazione del compenso).
È evidente, comunque, che le norme sanzionatorie costituiranno ulteriori, fondamentali, elementi sulla cui base ricostruire le scelte di politica del diritto compiute dal legislatore.
Considerazioni distinte valgono, infine, con riferimento all’ultima delle tipologie negoziali elencate nell’art. 4: il cd. lavoro occasionale ed accessorio. In proposito, per il vero, il legislatore delegante è molto parco di norme e criteri direttivi. La legge precisa che il lavoro occasionale e accessorio sarà reso da “disoccupati di lungo periodo, altri soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne” nei confronti di “famiglie e di enti senza fini di lucro” e consistenti – a quanto pare – in attività di “assistenza sociale”; e che tali prestazioni saranno “regolarizzabili attraverso la tecnica di buoni corrispondenti a un certo ammontare di attività lavorativa” (art. 4, lett. d; cfr. la citata relazione di Biagi a p. 288).
Tuttavia, nonostante le scarne indicazioni legislative e pur rinviando ogni conclusione al momento in cui saranno note le norme delegate, occorre ribadire con riferimento al lavoro accessorio quanto già sostenuto in altra sede a proposito dell’impiego di lavoratori in programmi di lavori socialmente utili o in progetti di pubblica utilità. Le attività cd. di assistenza sociale, infatti, non necessariamente sono di per sé tali da migliorare la professionalità del lavoratore e, quindi, da eliminare le cause che ne hanno determinato lo stato di disoccupazione o di inoccupazione (anzi, se stiamo all’esperienza degli LSU, non lo sono state mai); né realizzano un primo contatto tra chi cerca occupazione e chi è in grado di offrirla (se non nei casi in cui il lavoratore sia in possesso di professionalità spendibili proprio nel settore dell’assistenza sociale). Se questa premessa è vera, occorre concludere che i lavori occasionali ed accessori, nonostante questa loro caratteristica, contribuiscono a consolidare le situazioni che hanno determinato l’espulsione del lavoratore dal processo produttivo (o il suo mancato coinvolgimento) e, per questa via, lo condannano proprio alla “esclusione sociale”. Meglio, allora, ridurre al minimo simili impieghi temporanei e trovare soluzioni – lavorative e soprattutto formative – in grado di migliorare la professionalità e l’occupabilità delle persone.
Qualche ulteriore interrogativo, poi, deriva dalla circostanza che le prestazioni occasionali ed accessorie possano essere utilizzate da “enti senza scopo di lucro” specie se questi svolgono, istituzionalmente, attività di assistenza sociale. Salvo diversa previsione del legislatore delegato, infatti, al momento nulla esclude che le prestazioni accessorie rappresentino una riserva di manodopera a basso costo e che, pertanto, esse possano essere utilizzate dagli enti in discorso (tra i quali, non si dimentichi, sono comprese anche le cooperative) in sostituzione di prestazioni di lavoro subordinato, con ciò stesso determinando un secondo effetto dannoso.
4. La procedura di certificazione.
Infine, un ultimo istituto significativo ai fini del presente commento è quello della certificazione dei rapporti di lavoro (art. 5). Anche in questo caso la legge delega riprende con qualche modificazione idee e proposte discusse (ed abbandonate) nel corso della XIII legislatura, introducendo una certificazione del voluto negoziale che – nelle intenzioni – dovrebbe assolvere la funzione di ridurre il “contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro” (co. 1; ma v. anche l’art. 4, co. 1, lett. c, n. 6 e lett. d).
Il legislatore, insomma, pare intenda realizzare un assetto in grado di prevenire la domanda di giustizia e il ricorso alla giurisdizione. Sennonché, è esperienza comune che nel diritto del lavoro le liti aventi ad oggetto la qualificazione del rapporto di lavoro abbiano origine non tanto dalle incertezze riguardanti il programma negoziale concordato tra le parti, bensì dalla contraddizione esistente tra l’assetto concretamente realizzato dalle parti nel corso del rapporto e quello astrattamente programmato al momento della stipulazione del contratto.
Dovendo formulare un giudizio prognostico, quindi, pare si possa concludere che l’istituto in discorso – almeno nella formulazione attuale – sia sostanzialmente inutile.
Peraltro, è anche da sottolineare che le modificazioni introdotte dal Parlamento al testo del disegno di legge presentato dal Governo lo hanno notevolmente peggiorato dando luogo ad una disciplina confusa e è tutt’altro che tecnicamente perfetta.
Venendo al merito, la cd. certificazione costituirà l’esito di un apposito procedimento (non necessariamente avente natura amministrativa; lett. d), pienamente facoltativo (lett. a), da svolgere innanzi a enti bilaterali costituiti a iniziativa di associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative; presso “strutture pubbliche aventi competenze in materia” (anche se non è dato comprendere quale sia la “materia” in questione e, quindi, le pubbliche amministrazioni alle quali potrebbero essere attribuite le funzioni in discorso); e, infine, presso le Università (che di certo hanno compiti istituzionali molto diversi da questo) (lett. b). Nel corso del procedimento, l’organo preposto dovrebbe realizzare un vero e proprio “accertamento” (arg. ex lett. f) rendendo giuridicamente certi ed incontestabili tra le parti sia la “qualificazione del contratto di lavoro”, sia il “programma negoziale concordato dalle parti”.
È subito il caso di precisare che non è possibile razionalizzare l’intera materia ritenendo inappropriati i termini “certificazione” e “accertamento” utilizzati dal legislatore e concludere che l’ente preposto alla certificazione abbia la funzione di garantire la genuinità del consenso manifestato dalle parti, e dal lavoratore soprattutto, al momento dell’instaurazione del rapporto. È vero che tale ricostruzione è avvalorata dalla direttiva legislativa che estende anche ai suddetti enti bilaterali la “competenza a certificare […] le rinunzie e transazioni di cui all’art. 2113 del Codice civile a conferma della volontà abdicativa o transattiva delle parti stesse” (lett. g): norma che, appunto, si può interpretare nel senso che le rinunzie e le transazioni stipulate innanzi agli enti bilaterali, vale a dire in presenza di commissioni e/o comitati in grado di garantire la genuinità del consenso, saranno sottratte allo speciale regime di invalidità e di impugnazione previsto dall’art. 2113 c.c.
D’altra parte, però, quella razionalizzazione è contraddetta dalla possibilità di ricorrere alla medesima procedura per certificare l’atto di deposito del regolamento interno riguardante la tipologia dei rapporti attuati da una cooperativa di produzione e lavoro (lett. h); oppure “ai fini della distinzione concreta tra interposizione illecita e appalto genuino” (art. 1, co. 2, lett. m, n. 7). In entrambe le ipotesi, infatti, non è in gioco una manifestazione di volontà (e la sua genuinità) quanto il verificarsi di un fatto – vale a dire il deposito del regolamento interno – oppure la violazione di norme inderogabili (dal momento che la distinzione concreta tra una fattispecie lecita ed una illecita è la conseguenza del rispetto ovvero della violazione di norme inderogabili). L’applicazione della procedura di certificazione a quest’ultima ipotesi, per il vero, meriterà uno specifico approfondimento perché è dubbio che il legislatore possa sottrarre al giudice l’accertamento di situazioni fraudolente (e, quindi, dei diritti della parte lesa che da tale situazione traggono origine) senza che ciò si traduca in una violazione dell’art. 24 della Costituzione.
La delega, peraltro, contiene anche altre norme che rendono ulteriormente complessa la ricostruzione dell’istituto. A proposito del contratto di lavoro certificato, ad esempio, il legislatore precisa che ad esso sarà attribuita “piena forza legale […] con esclusione della possibilità di ricorso in giudizio se non in caso di erronea qualificazione del programma negoziale da parte dell’organo preposto alla certificazione e di difformità tra il programma negoziale effettivamente realizzato dalle parti e il programma negoziale concordato dalle parti in sede di certificazione” (lett. e). Ma il legislatore prevede altresì che si debba espletare innanzi “all’organo preposto alla certificazione” il tentativo obbligatorio di conciliazione imposto dagli artt. 410 ss. c.p.c. “quando si intenda impugnare l’erronea qualificazione” del rapporto (vale a dire allorché si impugni l’atto di accertamento compiuto dall’organo medesimo) “o la difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione” (lett. f).
Con riferimento a queste previsioni ogni tentativo di razionalizzazione si fa davvero improbo. Anzitutto, non può essere intesa in senso letterale l’attribuzione, in conseguenza dell’accertamento, di “piena forza legale” al contratto dal momento che esso già di per sé “ha forza di legge tra le parti” (art. 1372 c.c.). L’espressione contenuta nella legge delega, quindi, deve ritenersi riassuntiva di altri e diversi effetti legali: tra questi, però, di certo non potrà essere compreso quella “esclusione della possibilità di ricorso in giudizio”. Non solo, infatti, le parti potranno comunque sottoporre al giudice – ai sensi dell’art. 24 Cost. – le liti in materia di qualificazione del rapporto ma deve ritenersi che anche l’attività degli enti certificatori potrà essere sottoposta al controllo giudiziale (salvo poi determinare se la giurisdizione spetti all’autorità giudiziaria ordinaria o al giudice amministrativo).
Paradossale, poi, è l’attribuzione del compito di tentare la conciliazione della controversia avente ad oggetto l’erronea qualificazione del rapporto all’ente certificatore al quale è imputabile l’atto impugnato (vale a dire dell’atto di accertamento). L’ente, infatti, sarà in questo caso parte in lite e, proprio per questo, non potrà svolgere alcuna funzione di mediazione tra le altre due parti (ossia tra lavoratore e datore di lavoro).
Prima di chiudere, poi, è opportuno occuparsi brevemente anche dell’efficacia probatoria della certificazione nel successivo giudizio avente ad oggetto la qualificazione del rapporto di lavoro. Il legislatore ha ritenuto di imporre al giudice l’obbligo “di accertare anche le dichiarazioni e il comportamento tenuto dalle parti davanti all’organo preposto alla certificazione del contratto di lavoro”. Orbene, a meno di non voler ritenere che l’obbligo si esaurisca davvero con il semplice accertamento (senza alcuna successiva valutazione), si può forse ritenere che il legislatore abbia inteso attribuire alla certificazione valore di vera e propria presunzione. In tal senso, infatti, sembra si debba concludere interpretando la norma in combinato disposto con quella ai sensi della quale “gli effetti dell’accertamento svolto dall’organo preposto alla certificazione permangano fino al momento in cui venga provata l’erronea qualificazione del programma negoziale o la difformità tra il programma negoziale concordato dalle parti in sede di certificazione e il programma attuato”. La circostanza, comunque, non pare modifichi sostanzialmente la posizione del lavoratore ricorrente, almeno in quei giudizi in cui la qualificazione del rapporto di lavoro sia contestata in ragione dell’assetto concretamente realizzato tra le parti. E questo, appunto, conferma l’idea che la certificazione sia istituto al quale il legislatore dedica attenzione più per i valori dallo stesso evocati che per gli effetti concreti che è in grado di produrre.