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Home - Rubriche - Poveri e ricchi - La maledetta “eccezione italiana”

La maledetta “eccezione italiana”

di Maurizio Ricci
13 Gennaio 2020
in Poveri e ricchi, Analisi
La maledetta “eccezione italiana”

Possiamo solo immaginare cosa avrebbero fatto Matteo Salvini e il Luigi Di Maio v.o. (versione originale, quello gialloverde) dei dati appena comunicati dall’Istat sull’occupazione a novembre. Hanno dichiarato di avere un lavoro quasi 23 milioni e mezzo di italiani, un record, e gli ultimi aumenti riguardano in particolare donne e giovani, quelli che tradizionalmente sono gli “scarti” nelle assunzioni. Sono statistiche da prendere con le molle: basta un ora di lavoro nella settimana precedente per risultare “occupato”. Ma le statistiche sono state sempre fatte così, dunque, il confronto è possibile. Il tasso di occupazione (occupati su popolazione attiva), spietata cartina di tornasole dell’arretratezza italiana, è riuscito a sfiorare il 60 per cento, un po’ meno lontani dalla normalità europea (in Germania siamo al 70). Salvini e il Di Maio vintage avrebbero forse celebrato dai balconi. Il governo attuale ha sobriamente e discretamente preferito il basso profilo, consapevole che questi dati  cambiano assai poco il disagio profondo e radicato del mondo italiano del lavoro e del non lavoro. Meglio più occupati che meno occupati, naturalmente, ma il lavoro in Italia – ha riassunto con efficacia Repubblica  – “continua ad essere povero, poco produttivo, mal remunerato”.

Fra ottobre e novembre sono aumentati gli occupati permanenti, ma, nel complesso, un terzo di questi quasi 24 milioni di italiani al lavoro ha un contratto a termine o part time. Non per propria scelta. I sondaggi dicono che il numero di persone costrette ad un part time involontario è raddoppiato negli ultimi dieci anni. Quelli che hanno visto, in effetti, una esplosione del part time: i contratti di questo tipo sono passati da 3,3 milioni a 4,5, il 40 per cento in più. Mentre i contratti a termine superavano quota 3 milioni. Qui il dramma non è solo la normalità quotidiana del precariato. Il dramma italiano più profondo è l’implosione al rallentatore dell’economia: ci sono più occupati del 2008, ma il numero di ore lavorate è inferiore a quello pre-crisi. In altre parole, abbiamo più occupati che, nel caso migliore, producono esattamente quanto prima.

Insomma, sembrerebbe un caso in più, in cui emerge la maledetta “eccezione italiana”. Purtroppo, non è così. La corrosione della ormai trentennale stagnazione italiana finisce per nascondere o mascherare fenomeni che scorrono nel profondo delle società moderne. Il lavoro in Italia non è “povero, poco produttivo, mal remunerato” solo perché la recessione non finisce mai. E’ povero, poco produttivo, mal remunerato anche dove la crisi non c’è affatto.

Negli Usa, il tasso di disoccupazione è crollato al 3,5 per cento, l’economia cresce ininterrottamente da dieci anni. Ma 53 milioni di lavoratori, pari al 44 per cento di tutti i lavoratori americani, ha appena di che vivere, dice una ricerca pubblicata dalla Brookings Institution. In pratica, quasi un lavoratore su due nel pieno della maturità (18-64 anni) fatica,  si sarebbe detto una volta, a mettere insieme il pranzo con la cena. Oggi diciamo a procurarsi cibo e alloggio decenti, assistenza per i suoi bambini o i suoi  anziani. Il parametro scelto dalla Brookings è il salario mediano: metà di quei 53 milioni di lavoratori guadagna meno di 10,22 dollari l’ora (più o meno i 9 euro l’ora di cui si parla per il salario minimo italiano) per un reddito annuo che non arriva fino a 18 mila dollari. Per avere un’idea (approssimativa, perché ci sono vari sgravi e crediti fiscali) la soglia di povertà ufficiale negli Usa, per una donna  single con due bambini, è 20 mila dollari l’anno.

Dove lavorano questi quasi poveri? Nei settori in cui effettivamente l’occupazione è cresciuta in questi anni: negozi, cucine, bar, ristoranti, fast food, nelle case come domestiche, portinai, badanti, assistenti a vecchi e bambini. Sono lavoratori marginali, neoassunti o parapensionati? Niente affatto: i due terzi di loro sono fra i 25 e i 54 anni. Guadagnano così poco perché sono precari, semidisoccupati? Neanche: il 57 per cento, dice la Brookings, lavora tutto l’anno. Sono single che badano solo a se stessi? Più di un terzo ha bambini. Sono solo di supporto a buste paga più pesanti che arrivano in casa? Più di uno su due di questi sottopagati è il pilastro economico della famiglia. In due parole: questo galleggiamento al livello della soglia di povertà rischia di essere, per larga parte delle persone, l’immagine del lavoro del futuro.

Maurizio Ricci

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