Critiche, polemiche, attacchi, campagne di delegittimazione. Anche se il loro mestiere principale i sindacati hanno dimostrato di saperlo fare. Magari non è detto che basti, ma, negli ultimi 40 anni, dai tempi di Craxi ad oggi, i contratti hanno retto, navigando sui marosi dell’economia. Ci sono stati alti (subito prima del Covid) e bassi (dopo il Covid), ma, mediamente, i salari minimi contrattuali – ovvero la variabile più direttamente controllata dalle trattative sindacali – hanno mantenuto, in termini reali, il potere d’acquisto. E il ruolo fondamentale lo hanno avuto proprio Cgil, Cisl, Uil. Guardando ai contratti di metalmeccanici, edili e commercio, in pratica un terzo dei lavoratori dipendenti, infatti, si vede un andamento, negli anni, sostanzialmente parallelo. Segno della capacità delle confederazioni di gestire e coordinare, dal centro, l’evoluzione delle trattative contrattuali.
Fra il 1980 e il 1992, racconta uno studio di Bernardo Fanfani, l’andamento dei minimi, a parità di potere d’acquisto, è stato sostanzialmente piatto, inseguendo l’inflazione. La frattura si è avuta nel 1992, quando l’abolizione della scala mobile ha esercitato tutti i suoi effetti sui minimi salariali. Questi, però, riescono a risalire fra il 1995 e il 2011, anche se si accentuano le diseguaglianze fra alte e basse qualifiche. Fra il 2015 e il 2021 si raggiunge il massimo storico dei minimi contrattuali a parità di potere d’acquisto. Per le qualifiche più alte, le retribuzioni reali sono maggiori del 30-45 per cento rispetto all’era craxiana, per quelle più basse del 5-15 per cento. Nei due anni successivi, tuttavia, lo shock del Covid devasta il panorama salariale. In molti casi, quei guadagni di 40 anni scompaiono, vengono riassorbiti dal combinato disposto di boom dell’inflazione e paralisi contrattuale. E il risultato finale è che, rispetto ai ruggenti anni ‘80, i sindacati devono accontentarsi di un pareggio. Tutto sommato, i lavoratori non ci hanno perso, ma niente di più.
In realtà, dipende da quanto i sindacati riusciranno a rendere temporanea questa battuta d’arresto e da quando e quanto i minimi contrattuali riprenderanno il trend ascendente, precedente al Covid. Tuttavia, il pareggio, deludente o meno, in termini di retribuzioni contrattuali, racconta solo una parte della storia dei lavoratori in questi 40 anni. I contratti hanno tenuto, ma i redditi dei lavoratori dipendenti no. I dati dei contratti, infatti, ci dicono solo quale è stato l’andamento della retribuzione per una giornata di lavoro a tempo pieno, la variabile più a portata per l’attività dei sindacati. Ma l’esperienza dei lavoratori in questi anni è segnata piuttosto da variabili più lontane dal cuore dei contratti: cassa integrazione, tagli di orario, disoccupazione hanno eroso in profondità i redditi da lavoro, scavalcando l’evoluzione dei minimi contrattuali.
Su un piano sociale più ampio, inoltre, i sindacati non sono riusciti a intervenire su tutto uno scenario lavorativo, estraneo ai contratti. In un altro studio, Simone Cerlini, individua non i ben noti Neet (i giovani senza lavoro, senza scuola, senza formazione) ma quella che definisce la nuova “netclass”: chi lavora, ma senza rete, ovvero senza niente alle spalle. Piccoli imprenditori, freelance, autonomi e dipendenti, in equilibrio precario perché privi di risorse da attivare in caso di shock economico, piccolo o grande: un licenziamento, ma anche solo una malattia, una separazione familiare, magari una causa legale per un incidente d’auto.
Da questo punto di vista, la disponibilità o meno di reti di protezione patrimoniali (una casa in proprietà), familiari (genitori con capacità economiche), relazionali (parenti o amici) sta diventando, secondo Cerlini, “il vero fattore di distinzione sociale”. E anche il più importante vettore di diseguaglianza, oggi alimentata – dicono le statistiche – soprattutto dall’aumento degli squilibri patrimoniali, cresciuti, negli ultimi 30 anni, di pari passo con l’allargarsi degli squilibri fra i redditi familiari disponibili. Nel momento in cui una laurea favorisce l’accesso al lavoro, ma non è più uno strumento di promozione, questa rete di protezione patrimoniale o familiare diventa il capitale sociale più importante: ci si può sentire precari, anche con un lavoro fisso. E il tasso di spaesamento, rancore, rivalsa può non essere molto diverso da quello di chi non sa se lavorerà anche domani. In termini politico-sociali, la “netclass” è una bomba in attesa di innesco.
Maurizio Ricci





























