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Il Diario del Lavoro

Quotidiano online del lavoro e delle relazioni industriali

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Home - Approfondimenti - Analisi - La normativa del d. lgs. 276/2003

La normativa del d. lgs. 276/2003

2 Marzo 2004
in Analisi

di Mario Emanuele – Ricercatore Isfol

Il D.Lgs. n. 276/2003, tra le tipologie contrattuali di lavoro previste al Titolo V ha disciplinato il contratto di lavoro ripartito, altrimenti denominato job sharing[1]; In precedenza, questo contratto era regolato esclusivamente dalla circolare amministrativa n. 43/1998, emanata dall’allora Ministro del lavoro Tiziano Treu[2].

La scelta di utilizzare un atto amministrativo, invece di emanare un apposito provvedimento legislativo, è stata allora adottata con finalità di semplificazione, facendo affidamento sulla capacità regolatoria della contrattazione collettiva e sull’autonomia negoziale delle parti contraenti che, pur nel rispetto della normativa sul lavoro subordinato, avrebbero potuto individuare, in applicazione dell’art. 1322, co. 2, del codice civile, un assetto di interessi meritevole di tutela che, da una parte, potesse soddisfare l’esigenza, propria delle aziende, di maggiore flessibilità nell’organizzazione dell’orario del lavoro, di continuità del lavoro e di contenimento dell’assenteismo per malattia; dall’altra, offrisse migliori opportunità ai lavoratori per conciliare l’orario di lavoro con i tempi di vita da dedicare alla famiglia, alla cura ed assistenza della prole ed al tempo libero.


Dopo che l’introduzione dell’art. 4, c. 1, lett. e), della Legge n. 30 del 2003, aveva ribadito la “ammissibilità di prestazioni ripartite fra due o più lavoratori, obbligati in solido nei confronti di un datore di lavoro, per l’esecuzione di un’unica prestazione lavorativa”, il percorso normativo di tipizzazione del lavoro ripartito si è concluso con l’art. 41, co. 1, del decreto citato, che lo ha definito “uno speciale contratto di lavoro mediante il quale due lavoratori assumono in solido l’adempimento di una unica e identica obbligazione lavorativa”.


Un rapporto di lavoro ripartito, pertanto, si caratterizza in modo assolutamente peculiare in quanto una coppia di lavoratori assume nei confronti del datore di lavoro un‘obbligazione solidale per l’esecuzione, normalmente a tempo pieno, di un’attività lavorativa. Non minore è la rilevanza del vincolo fiduciario che si instaura tra i lavoratori e che permette loro di gestire in modo più o meno discrezionale la modulabilità della collocazione temporale della propria prestazione verso il datore di lavoro, senza che quest’ultimo possa sindacare le scelte organizzative in tal modo assunte; entrambi i lavoratori sono tenuti a dimostrare grande diligenza nella gestione della comune obbligazione, sfruttando a proprio favore la flessibilità temporale della prestazione di lavoro ripartito per contemperare le esigenze individuali e curando di informarsi reciprocamente con tempestività sulle circostanze sopravvenute che richiedono una modifica dell’iniziale programmazione di turni di lavoro.


L’obbligazione assunta dalla coppia dei lavoratori è unica ed identica, perché, indifferentemente, ciascuno dei due job sharers verrà, in caso di impedimento temporaneo dell’altro coobbligato (art. 41, co. 3: “il rischio della impossibilità della prestazione per fatti attinenti a uno dei coobbligati è posta in capo all’altro obbligato”), chiamato dal datore a svolgere l’intera prestazione[3] che, pertanto, non potrà che essere identica a quella dell’altro lavoratore, non rimanendo spazi utili, se non all’interno del rapporto fiduciario tra i due lavoratori, per una suddivisione di mansioni o specifici compiti da svolgere individualmente. Conseguentemente, a fronte della sua mancata tempestiva sostituzione, l’inadempimento di un lavoratore diventa l’inadempimento della coppia o, più precisamente, della plurisoggettiva parte debitrice della prestazione di lavoro ripartito. Per questo, parte della dottrina ha osservato che “il job sharing comprime in modo aleatorio e totalmente imprevedibile la durata e la collocazione temporale della prestazione di ciascun lavoratore, e dunque non è un fattore di elasticità dell’organizzazione di vita per il lavoratore stesso”[4] dal momento che il singolo lavoratore finisce per vedere il proprio tempo libero ipotecato dal potenziale inadempimento del proprio collega.


Non si vogliono, tuttavia, affatto sottovalutare le potenzialità ed i vantaggi che, da una reale soddisfazione delle esigenze di conciliazione, i job sharers potrebbero ricavare; piuttosto va evidenziato che la scelta di rimettere la gestione dell’orario di lavoro alla loro discrezionalità può costituire un fattore di reale progresso sempre che: 1) i rapporti in azienda tra le parti siano impostati e vissuti all’insegna della leale collaborazione; 2) i lavoratori interessati da tale tipologia contrattuale abbiano una sufficiente forza contrattuale, meglio se basata sulla rilevanza della loro professionalità e competenza; 3) sia convenientemente verificato che i lavoratori facciano volontariamente ricorso al lavoro ripartito per soddisfare in modo congruo e consapevole le esigenze delle proprie, mutevoli fasi di vita.


 


Le norme contenute nel D. Lgs. n. 276/2003 sembrano confermare la precedente tendenza volta a fornire agli interpreti ed operatori una disciplina minimale del lavoro ripartito, rimettendo alla contrattazione collettiva e, in special modo, all’autonomia negoziale individuale la facoltà di dispiegare una più completa e puntuale attività di regolazione. Nel richiamo alla contrattazione, soprattutto quando prevista in termini derogatori rispetto alla previsione normativa, non viene però posta alcuna precisazione sul livello di essa deputato alla regolamentazione: l’art. 41, co. 3, infatti, stabilisce che, “fatte salve diverse intese tra le parti contraenti o previsioni dei contratti o accordi collettivi, i lavoratori hanno la facoltà di determinare discrezionalmente ed in qualsiasi momento sostituzioni tra loro, nonché di modificare consensualmente la collocazione temporale dell’orario di lavoro, (…)”. A sua volta, l’art. 43, co. 1 e 2, rinvia alla contrattazione collettiva come fonte preferenziale cui è demandata la regolamentazione del lavoro ripartito, pur nel rispetto delle previsioni poste dal decreto e dalla normativa generale sul lavoro subordinato, ma non specifica quale sia il livello di contrattazione collettiva da assumere come riferimento.


Il quadro non è certo chiaro e questo suscita perplessità, soprattutto perché, in assenza di un intervento di riequilibrio ad opera dell’autonomia collettiva e/o individuale, l’applicazione letterale della  disciplina del lavoro ripartito determina un abbassamento del livello di tutela rispetto in capo ai lavoratori, come si vedrà oltre.


 


Occorre considerare adesso le conseguenze dell’assunzione di un’obbligazione di lavoro avente natura solidale. Va innanzi tutto valutata l’eventualità dell’impedimento, dell’impossibilità temporanea di un lavoratore (ad esempio, per malattia). Per tutti gli altri contratti di lavoro subordinato, di regola, il datore di lavoro assume, all’interno del rischio d’impresa, l’alea della mancata prestazione del lavoratore ed è altresì tenuto a riconoscere al proprio dipendente assente i trattamenti retributivi e contributivi previsti dalla legge e dal contratto. Il legislatore del 1942, infatti, con l’art. 2110[5] c.c. aveva valutato che, in particolari situazioni espressamente previste (malattia, infortunio, ecc.), dovesse essere considerata come prioritaria la tutela del lavoratore e che a questa dovesse essere sacrificato l’interesse del datore di lavoro all’integrale e completo adempimento dell’obbligazione lavorativa[6]. Con il job sharing, invece, parte di questa alea non grava più sul datore di lavoro, ma viene trasferita sull’altro lavoratore ripartito (art. 41, co. 3: “il rischio dell’impossibilità della prestazione per fatti attinenti a uno dei coobbligati è posta in capo all’altro obbligato”), che sarà tenuto a sostituire prontamente il lavoratore assente[7]. Ciò che vale per il diritto dei contratti finisce per assumere rilievo decisivo anche per il diritto del lavoro, malgrado sia profondamente diversa la ratio di tutela che legittima l’esistenza stessa di questo autonomo ramo del diritto civile.


Il job sharer assente, tuttavia, riceverà i trattamenti retributivi e contributivi (l’indennità di malattia erogata dall’INPS e dal datore di lavoro), previsti dalla legge ed eventualmente dal contratto, in modo proporzionale alla retribuzione commisurata alla prestazione inizialmente concordata o a quella diversa ripartizione della prestazione che ciascun lavoratore avrà periodicamente comunicato al datore di lavoro.


Di contro, il lavoratore intervenuto in sostituzione riceverà la giusta retribuzione per la propria prestazione aggiuntiva rispetta alla normale suddivisione dei turni, ma vedrà contemporaneamente modificarsi subitaneamente la programmazione dei propri tempi di vita o di non lavoro.


L’incisività del vincolo di solidarietà della prestazione risaltano maggiormente a fronte della risoluzione del rapporto di lavoro per una decisione unilaterale assunta o dal datore di lavoro o da uno dei lavoratori coobbligati.


L’art. 41, co. 5, del decreto prevede che, “salvo diversa intesa tra le parti, le dimissioni o il licenziamento di uno dei lavoratori coobbligati comportano l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale. Tale disposizione non trova applicazione se, su richiesta del datore di lavoro, l’altro prestatore si renda disponibile ad adempiere l’obbligazione lavorativa, integralmente o parzialmente, nel qual caso il contratto di lavoro ripartito si trasforma in un normale contratto di lavoro subordinato di cui all’art. 2094 del codice civile”.


Occorre chiarire se l’art. 41, co. 5, possa trovare  applicazione in modo indifferenziato nei diversi casi in cui sia il datore a risolvere il rapporto di lavoro ripartito rispetto ad uno dei lavoratori della coppia, decidendo per il suo licenziamento sulla base di motivi disciplinari o per giusta causa o, ancora, per motivo giustificato oggettivo[8].


Come la circolare ministeriale del 1998, anche il D. Lgs. n. 276/2003 non offre importanti contributi di chiarificazione sulle tipologie di licenziamento interessate, includendole apoditticamente tutte nella sua previsione; non trascurando quanto sostenuto in dottrina in costanza dell’applicazione della citata circolare ministeriale[9], si deve allora procedere ad esaminare la suddetta disposizione legislativa ed i problemi interpretativi che essa propone.


E’ noto che la responsabilità disciplinare abbia natura personale e  sia, salvo casi espressamente previsti, strettamente correlata ai comportamenti posti in essere da parte del singolo dipendente in violazione dei propri obblighi contrattuali di lavorativi di fedeltà, correttezza verso il datore di lavoro e di osservanza delle sue istruzioni ed ordini. Quest’assunto farebbe propendere l’interprete per non considerare accettabile la ricaduta degli effetti giuridici di una sanzione disciplinare (comminata, ad esempio, per atti di insubordinazione o di grave negligenza) anche sull’altro lavoratore della coppia; il rapporto giuridico di lavoro in capo a quest’ultimo dovrebbe così essere preservato. Una simile conclusione, astrattamente conforme a ragioni di coerenza normativa generale dell’ordinamento giuridico,  non trova però un sufficiente appiglio nella lettera della norma e non può che essere rigettata. La disposizione citata, infatti, ha un contenuto precettivo particolarmente netto ed espressivo di una precisa opzione normativa, così da non prestarsi alle interpretazione evolutive che la dottrina aveva invece potuto argomentare a fronte di una semplice circolare ministeriale.


A fortiori, va adesso regolata nel medesimo senso l’ipotesi in cui uno dei due coobbligati sia inadempiente ai propri obblighi contrattuali strettamente connessi alla presenza sul posto di lavoro (ad esempio, non presentandosi sul posto di lavoro, non rispettando gli orari di lavoro, arrivando quindi in ritardo o lasciando il posto di lavoro senza legittima giustificazione, prima del termine del proprio turno): qui, infatti, si rimane nell’ambito dell’obbligazione lavorativa come definita nel contratto di lavoro ripartito e, soprattutto, come solidalmente assunta dai due lavoratori. L’inadempimento dell’uno diventa in questo caso l’inadempimento della coppia rispetto agli obblighi co-assunti di esecuzione dell’intera prestazione (“unica ed identica”) e, come tale, determina a carico di entrambi le conseguenze giuridiche contrattualmente previste. In assenza di una soluzione concordata preventivamente dalle parti contraenti o di una successiva intesa raggiunta tra il datore ed il lavoratore residuo, al licenziamento per giusta causa di un lavoratore della coppia conseguirà automaticamente, ex art. 41, co. 5, del D.Lgs. n. 276/2003, la risoluzione dell’intero rapporto[10].


In entrambe le fattispecie appena esaminate, la scelta della risoluzione dell’intero rapporto di lavoro, malgrado sia formalmente ineccepibile, appare tuttavia poco accettabile: troppo alta è l’alea che verrebbe addossata in capo ai lavoratori. Non resta che sperare che la contrattazione collettiva addivenga ad intese che introducano assetti negoziali con effetti meno radicali sul rapporto di lavoro.


 


Continuando, in deroga a quanto stabilito all’art. 2110 c.c., l’art. 41, co. 6, del decreto di riforma preveda che, nel lavoro ripartito, “l’impedimento di entrambi i lavoratori coobbligati è disciplinato ai sensi dell’art. 1256 del codice civile” che, al secondo comma, disciplina – tra i modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento – l’impossibilità temporanea sopravvenuta per causa non imputabile al debitore: “se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento. Tuttavia l’obbligazione si estingue se l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più ritenersi obbligato a seguire la prestazione ovvero il creditore non ha più interesse a conseguirla”.


Il datore di lavoro, in caso di contemporaneo impedimento di entrambi i lavoratori, potrà allora considerare sospesa l’esecuzione della prestazione dei lavoratori e della propria controprestazione retributiva. Nel frattempo, è però discutibile se i due lavoratori, qualora contemporaneamente malati, abbiano o meno diritto a ricevere l’indennità prevista da parte dell’INPS e del datore di lavoro; il decreto non ha fatto chiarezza su quest’aspetto, ma, in assenza di previsioni puntuali, si ritiene che nel periodo in cui possa essere considerato tollerabile, in relazione all’interesse del datore di lavoro, l’impedimento dei due job sharers, a quest’ultimi possa essere applicato quanto previsto all’art. 2110 del codice civile.


Il datore di lavoro potrà infine dichiarare estinta l’obbligazione lavorativa – in tal modo licenziando entrambi i lavoratori, ad esempio, assenti per una lunga  malattia – qualora provi che sia venuto meno il suo interesse ad un’esecuzione della prestazione in forma tardiva; si tratterà tuttavia di una prova tutt’altro che semplice e fortemente ancorata alla particolarità del caso concreto[11].


Anche in quest’ultima fattispecie l’assorbimento dell’accezione civilistica della nozione di obbligazione solidale non potrebbe essere più chiaro: nel diritto dei contratti, infatti, l’interesse del creditore all’adempimento del debitore è essenziale non solo ai fini dell’esistenza stessa della giuridicità del vincolo obbligatorio, nonché, qualora si tratti di un cd. contratto di durata, in vista della conservazione della sua efficacia nel tempo.


Per le ragioni appena accennate e considerando, inoltre, che il job sharing si presenta come una tipologia contrattuale che potrebbe ritenersi particolarmente adatta a soddisfare le esigenze delle lavoratrici che devono conciliare il proprio impiego con gli obblighi di cura ed assistenza della famiglia, la deroga all’applicabilità dell’art. 2110 c.c. in caso di temporaneo impedimento di uno o di entrambi i job sharers – che pur sempre lavoratori subordinati rimangono – sollecita alcune ragionevoli perplessità circa la legittimità dell’art. 41, co. 5 – 6, rispetto alle norme costituzionali su cui si fonda il sistema di tutela del lavoro[12].


 


Infine, l’art. 41, co. 4 (“eventuali sostituzioni da parte di terzi, nel caso di impossibilità di uno o entrambi i lavoratori coobbligati, sono vietate e possono essere ammesse solo previo consenso del datore di lavoro”), consente la cooptazione di un diverso lavoratore, qualora uno o entrambi i lavoratori coobbligati siano impossibilitati allo svolgimento della prestazione di lavoro. Questa possibilità è disciplinata dal D. Lgs. n. 276/2003 esclusivamente in termini di deroga ad un esplicito divieto e risulta inoltre condizionata alla sussistenza del consenso del datore di lavoro che, in tal modo, diventa arbitro della conservazione del contratto di lavoro. Come sostenuto in dottrina[13], si configurerebbe in quest’ipotesi una fattispecie di cessione temporanea del contratto di lavoro subordinato, con tutte le perplessità che l’individuazione di una simile figura giuridica può determinare all’interno del diritto del lavoro.


 


La forma del contratto di lavoro ripartito è disciplinata all’art. 42, co. 1, del decreto. Come per il contratto di lavoro a tempo parziale (art.2 del D.Lgs. n. 61/2000), anche qui il rispetto del requisito formale è richiesto a fini probatori. Pertanto, la mancanza della prova scritta determinerà soltanto maggiori difficoltà nel dimostrare l’esistenza e la struttura del rapporto (art. 2725 c.c.), perché al lavoratore non rimarrà che deferire il giuramento al datore di lavoro, produrre in giudizio altri elementi documentali inequivoci circa l’avvenuta stipula di un rapporto di lavoro ripartito (il libro paga, le buste paga) o, solo qualora abbia “senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova” (art. 2724, co. 1, n. 3, c.c. ), chiedere l’assunzione di prova testimoniale.


Sempre con finalità di tutela dei job sharers, l’art. 44 prevede il rispetto del principio di non discriminazione: “(..) il lavoratore ripartito non deve ricevere, per i periodi lavorati, un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello, a parità di mansioni svolte”. Come per il part-time, viene così previsto che il trattamento economico e normativo dei lavoratori coobbligati debba essere riproporzionato in ragione della prestazione lavorativa effettivamente eseguita da ciascuno di essi, “in particolare per quanto riguarda l’importo della retribuzione globale e delle singole componenti di essa, nonché delle ferie e dei trattamenti per malattia, infortunio sul lavoro, malattia professionale, congedi parentali” (art. 44, co. 2). Analogamente, l’art. 45 prevede che “ai fini delle prestazioni della assicurazione generale ed obbligatoria per la invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, della indennità di malattia e di ogni altra prestazione previdenziale e assistenziale e delle relative contribuzioni connesse alla durata giornaliera, settimanale, mensile o annuale della prestazione lavorativa i lavoratori contitolari del contratto di lavoro ripartito siano assimilati ai lavoratori a tempo parziale”. A differenza del part-time, tuttavia, il calcolo delle prestazioni previdenziali e dei contributi verrà effettuato non preventivamente, bensì su base mensile[14], “salvo conguaglio a fine anno a seguito dell’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa”. Non sembra che possano nascere problemi da un criterio di calcolo della retribuzione a consuntivo in quanto questo costituisce l’unico criterio utilizzabile: la reale presenza sul posto di lavoro, rimanendo nel job sharing rimessa alla discrezionale gestione dei lavoratori, non potrà che essere determinata a posteriori, nel momento prestabilito in cui il datore potrà contemperare il dato previsionale con quello reale.


Le analogie con il contratto di lavoro a tempo parziale, tuttavia, si esauriscono a quanto appena rilevato, dal momento che il job sharing permette una modulabilità – conformata dalla autonoma volontà dei lavoratori, non del datore di lavoro – della collocazione temporale della prestazione lavorativa che, diversamente, non avrebbe potuto essere concessa non solo dalle norme contenute all’art. 5 della L. n. 863/1984, ma nemmeno da quanto previsto dal D.Lgs n. 61/2000 e, adesso, dal D. Lgs. n. 276/2003, con cui la normativa del lavoro a tempo parziale è stata adeguata alle attese dei settori imprenditoriali.


 


Alcune brevi considerazioni finali


Da un punto di vista prettamente giuridico, il D.Lgs. n. 276/2003 non specifica se il lavoro ripartito possa essere o meno essere svolto all’interno di un rapporto di lavoro a tempo determinato. In linea di principio, specie dopo la liberalizzazione di questo contratto avvenuta con il D.Lgs. n. 368/2001, non si manifestano dubbi sull’ammissibilità della stipulazione a termine di un rapporto di lavoro ripartito; anzi, un job sharing di durata temporanea potrebbe integrare un’opzione contrattuale preferenziale rispetto alle esigenze transitorie di molteplici tipologie di lavoratori (giovani madri, studenti, individui con familiari malati a carico, anziani nell’ultima fase della propria esperienza lavorativa).


A tutt’oggi, inoltre, il job sharing non dovrebbe trovare applicazione nel pubblico impiego, vista la scelta operata dal legislatore di restringere l’ambito oggettivo di applicazione della riforma del mercato di lavoro al solo settore privato.


Su un piano più generale, infine, non è possibile nascondere che, con il D.Lgs. n. 276/2003, il Legislatore abbia voluto valorizzare le trasformazioni delle modalità di produzione in azienda e le connesse esigenze di flessibilizzazione dei rapporti di lavoro; nel complesso però non sembra, come rilevato da parte della dottrina, che sia stata dimostrata pari “sensibilità per le conseguenze che i nuovi modelli giuridici di acquisizione della manodopera hanno sulla vita (lavorativa e non) delle persone”[15].


Ad esempio, fermo quanto previsto all’art. 41, co. 6, non risulta ben chiaro come si potrà comportare il datore in caso di assenza di entrambe le lavoratrici in stato di gravidanza: è possibile, infatti, ritenere che si possa applicare l’art. 1256, co. 2, c.c. a questa fattispecie senza destare gravi e fondate perplessità di legittimità costituzionale? Allo stesso modo, come si potrà comportare il datore in caso di contemporaneo esercizio da parte dei lavoratori del diritto di sciopero, costituzionalmente garantito? E nel caso in cui scioperi solo uno dei due lavoratori, l’obbligo di sostituzione scatterà comunque ipso facto per l’altro coobbligato? L’automatismo della sostituzione o della risoluzione dell’intero rapporto costituisce l’effetto giuridico ideale per garantire soluzioni opportune ed accettabili per le parti contraenti?


Per evitare le possibili anomalie che potrebbero scaturire da una poco attenta gestione del contratto di lavoro ripartito in azienda, le parti contraenti dovranno allora prestare particolare attenzione alla solidità del vincolo fiduciario che le lega (meglio se consolidato da legami affettivi, familiari ed autenticamente amicali) e comportarsi reciprocamente con grande diligenza e leale collaborazione; sarà però la contrattazione collettiva a determinare la reale sorte di questo contratto. Dagli incontri avuti con vari esponenti delle organizzazioni sindacali e delle associazioni di categoria dei datori di lavoro e dall’esame di diversi accordi collettivi conclusi negli ultimi tre anni, è stato possibile ricavare l’impressione che le parti sociali siano interessate a questa misura ed abbiano iniziato ad affrontare, in sede di trattativa, alcune tra le più spinose questioni inerenti la sua concreta attuazione; questo, tuttavia, non sembra ancora sufficiente, se si considera che dalla formalizzazione delle previsioni pattizie non è scaturita una diffusa applicazione del job sharing (dalle rilevazioni effettuate, i dipendenti con un contratto di lavoro ripartito, attualmente, non dovrebbero essere in Italia che poche decine). Pertanto, solo se la nuova stagione contrattuale riuscirà a determinare una più equa e bilanciata disciplina del contratto di lavoro ripartito, facendo chiarezza sugli esiti più controversi dell’applicazione di questo contratto in ogni sua diversa fase (stipula, esecuzione, risoluzione), si ritiene che si possano verificare le condizioni per una sua affermazione significativa nel mercato del lavoro italiano.


 






[1] Nel contesto di una più vasta attività di monitoraggio degli istituti regolati dal D.Lgs. n. 276/2003, l’Isfol ha avviato una ricerca sull’applicazione del rapporto di lavoro ripartito a far data dall’emanazione della circolare ministeriale del 1998. A tal fine, è stato realizzato uno studio che ha coinvolto una serie significativa di realtà imprenditoriali, dislocate prevalentemente nel Nord Est, in cui è stato fatto ricorso a questa particolare tipologia contrattuale e, per ciascuna di esse, sono state raccolte le esperienze maturate dai datori di lavoro e dai lavoratori direttamente coinvolti. Il quadro che ne è emerso e che sarà presto rappresentato in un lavoro monografico esprime l’estrema incertezza applicativa e la residualità che ha caratterizzato sino ad oggi l’applicazione di questo contratto.



[2] Si veda in Diritto e pratica del lavoro, 1998, n. 22, pag. 43. Secondo quanto stabilito dalla circolare, il ricorso a questo contratto poteva essere ammesso sempre che non costituisse “un mero espediente per aggirare la normativa vigente del lavoro subordinato in generale e del lavoro a tempo parziale in particolare. Non esistono, infatti, norme di legge o principi generali della materia contrattuale che precludano, esplicitamente o implicitamente, la possibilità per due o più lavoratori di assumere in solido un’unica obbligazione lavorativa subordinata (…)”.



[3] Il secondo comma dell’articolo 41 del D.Lgs. n. 276/2003 prevede peraltro che, “fatta salva una diversa intesa tra le parti contraenti, ogni lavoratore resta personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento dell’intera obbligazione lavorativa”.



[4] De Simone G., Job sharing: dalla progettualità dell’inizio del decennio al silenzio del legislatore, passando attraverso l’intervento spot del ministero, in www.dirittodellavoro.it/public/current/ejournal/01-2000.htm, ISSNN1561-8048.



[5] Questa disposizione, al primo comma, prevede che, “in caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge o la contrattazione collettiva non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un’indennità nella misura e per il tempo determinati da leggi speciali, dagli usi o secondo equità”.



[6] Pinto V., La modernizzazione promessa. Osservazioni critiche sul decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, www.unicz.it/lavoro/ricercamiscellanea.htm, pag. 70.



[7] Del resto, già la circolare ministeriale n. 43/1998 prevedeva che “in ogni caso, salvo diversa pattuizione, il datore legittimamente pretenderà l’adempimento dell’intera obbligazione dovuta da ciascuno dei lavoratori solidalmente obbligato”.



[8] Quest’ultima fattispecie di licenziamento, determinata prevalentemente da processi di ristrutturazione aziendale, non assume un rilievo particolare nel job sharing perché interessa comunque l’intero posto di lavoro e non la posizione di uno dei due lavoratori della coppia, si veda, sul punto, Ichino P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, II, Giuffré, Milano, 1985, pag. 412).



[9] Prima dell’emanazione delle norme di riforma, la dottrina pur compatta nel condividere la bipartizione (motivi disciplinari e giusta causa) dei profili di imputazione del licenziamento all’interno della coppia e le differenze che da essa scaturivano in capo ai due lavoratori, si è però divisa sulla sorte (risoluzione o conservazione) del contratto di lavoro ripartito nel caso in cui il datore avesse licenziato uno dei due lavoratori per giusta causa Si rinvia, in proposito ad Ichino P., op. cit., 1985, pagg. 411-412; Tiraboschi M., La disciplina del job sharing nell’ordinamento giuridico italiano, In Diritto e pratica del lavoro, 1998, 22, pag. 1409; Alessi C., Lavoro a tempo parziale, job sharing e discriminazioni indirette, in Diritto delle relazioni industriali, 1999, n. 2, pag 239; Vedani D., Osservazioni in materia di job sharing, in Diritto e pratica del lavoro, 1999, n. 45, pag. 3140.



[10] Considerazioni analoghe valgono per il recesso (dimissioni) di uno dei due lavoratori dal rapporto giuridico dovuto ad un suo sopravvenuto impedimento grave e definitivo o ad altre legittime motivazioni; il recesso individuale verrebbe, infatti, a determinare una modificazione unilaterale del rapporto giuridico e la  risoluzione del contratto di lavoro ripartito per entrambi i coobbligati.



[11] Come evidenziato in dottrina (Pinto V., op. cit., pag. 72), questa possibilità per il datore di lavoro non rappresenta un potere illimitato, in quanto, al fine di rinvenirne i presupposti per la risoluzione, la valutazione dell’interesse del creditore al mantenimento dell’obbligazione dopo la fine del periodo in cui si è verificato l’impedimento o qualora il duplice impedimento perduri per un lasso di tempo davvero significativo dovrà essere condotta in modo rigoroso. Occorrerà, infatti, tener conto delle mansioni realmente svolte dai lavoratori assenti, dell’organizzazione del lavoro adottata in azienda e della possibilità di sostituzione dei lavoratori assenti, della predeterminazione dei tempi di esecuzione della prestazione, soprattutto in relazione alla prevedibile durata dell’assenza dei lavoratori.



[12] Particolarmente pregnante è l’analisi estesa sul punto in Alleva G., Ricerca ed analisi dei punti critici del decreto legislativo 276/2003 sul mercato del lavoro, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 4, 2003, pag. 906.



[13] Pinto V., op. cit.,  pag. 70.



[14] E’ verosimile, a tal punto, che l’azienda sarà tenuta mensilmente a fornire all’INPS il dato delle ore effettivamente lavorate da ciascuno dei job sharers.



[15] Pinto V., op. cit., 2003, pag. 73.

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