“Una svolta epocale ed irreversibile nel processo di costruzione dell’Europa. La creazione di una rete di protezione comunitaria contro choc improvvisi all’economia di un paese. Il riconoscimento condiviso della necessità di strumenti di solidarietà inediti, come il debito comune”. Insomma, per dirla in due parole, dopo i 750 miliardi di euro del NextgenEu, “niente in Europa sarà più come prima”. Tanto più nel dopo Merkel, quando sembrano affermarsi, nella classe dirigente tedesca, correnti meno sensibili ai dogmi dell’austerità conservatrice. Una premessa incoraggiante, dunque, per la imminente revisione del Patto di stabilità e dei suoi parametri soffocanti su debito e deficit.
Parola più, parola meno, questa è l’interpretazione più radicata e diffusa in Italia della vicenda che, sull’onda della pandemia, ha portato l’Europa ad intervenire attivamente per favorire la ripresa nei paesi membri. Ma è davvero così? Il rischio è di dare per unanime, al di fuori dai nostri confini e, in particolare, in Germania, la percezione della crisi e delle sue terapie, prevalsa a Roma, a Madrid e, magari, a Parigi. Dare per scontata la “nuova Europa” apre lo spazio a possibili brusche delusioni. Se alcuni tabù – come quello del debito comune – sono stati aggirati, non vuol dire che siano stati automaticamente cancellati: la strada si è aperta, quando nessuno se lo aspettava, ma, probabilmente, è ancora lunga e in salita. Perché la crisi e le sue terapie non sono le stesse, guardate da Berlino, piuttosto che da Roma: ognuno vi ha visto, soprattutto, l’Europa che vuole. Noi, la fine dell’austerità e la conferma che solo una politica attiva e coraggiosa porta fuori dalla crisi. Il tedesco medio la conferma che l’austerità, al contrario, paga, perché le risorse risparmiate hanno consentito di far fronte alla crisi. Una diversità favorita anche dal diverso impatto che emergenza e interventi post Covid hanno e avranno nei due paesi. Il NextgenEu è, per l’Italia, una occasione straordinaria, irripetibile di rovesciare il declino del paese, grazie ad una abbondanza di risorse che consente di affrontare trasformazioni storiche. Per la Germania, un ventaglio di interventi modesti e limitati, destinati, sostanzialmente, a qualche aggiustamento marginale: poco più di una occasione per fare quello che si era già deciso di fare, risparmiando qualche soldo. Troppo poco per accorgersi che, almeno in patria, “l’Europa non è più la stessa”.
Conta, anzitutto, il volume delle risorse in campo. Per l’Italia, il NextgenEu vale, tutto compreso, 233 miliardi di euro, qualcosa come il 7,4 per cento del Pil, per una massa di 142 progetti e 87 riforme. Per la Germania, i fondi europei assommano a poco più di 25 miliardi di euro, lo 0,7 per cento del Pil, un decimo di quanto il piano europeo conti per l’Italia. Non basta. A Roma, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, è una impresa ciclopica, che assorbirà la politica e il dibattito pubblico italiano e anche le risorse nazionali, almeno per i prossimi cinque o sei anni. Oltre che una questione di volume, c’è anche la tempistica. L’Italia, nota uno studio appena pubblicato dal Ceps, un importante think tank europeo, ha scelto di far subito un ventaglio imponente di riforme, in particolare del settore pubblico, facendolo precedere agli investimenti veri e propri che verranno completati solo in una seconda fase. Questa cadenza comporta che i soldi di Bruxelles (che vengono erogati solo a investimento completato) arriveranno soltanto alla fine del periodo. Visti i tassi di interesse attuali, non è un problema per il bilancio italiano. Ma significa, quanto meno, che nel 2025-2026 piano e soldi europei saranno ancora al centro del dibattito politico.
In Germania, al contrario, i soldi sono meno e verranno spesi subito, anche perché la quota degli investimenti sul totale è molto inferiore a quella italiana. Ad esempio, il grosso della spesa “verde” italiana è destinato all’alta velocità dei treni, da completare entro il 2026. Mentre, la parte maggiore della spesa verde tedesca sono incentivi per le auto elettriche o ad idrogeno c he si esauriranno nel 2022. Nel complesso, già a Natale Berlino avrà speso metà dei suoi fondi e, a fine 2022, li avrà esauriti. Fra poco più di un anno, dunque, il NextgenEu, ancora asse centrale più che mai del dibattito italiano, in Germania sarà cosa fatta e digerita. Facile che il contribuente tedesco medio si dimentichi che anche la Germania ha avuto fondi e si chieda perché l’Italia continui ad essere inondata di soldi da Bruxelles.
Manca anche il senso di svolta, di novità. L’Italia realizzerà più tardi i suoi investimenti, non solo per i ritardi della nostra burocrazia, ma anche perché ha deciso di finanziare progetti nuovi. La Germania, invece, li ha destinati a progetti già previsti, accontentandosi di finanziare con soldi europei cose che avrebbe dovuto realizzare con i suoi. Il paradosso, allora, è che il NextgenEu che, in Italia, significa spesa, in Germania si traduce in risparmio, allargando il fossato fra bilanci sempre più squilibrati (Italia) e sempre più solidi (Germania). Economicamente, la cosa è irrilevante, visto che i soldi arriveranno comunque dall’Europa, ma psicologicamente può avere importanza, se una Cdu all’opposizione decidesse di soffiare sul fuoco dell’opinione pubblica tedesca e di chiedere stretti vincoli di bilancio nel futuro Patto di stabilità.
Molto, in realtà, dipende da come l’Italia saprà utilizzare i fondi europei. Se li saprà spendere con efficienza, alimentando la crescita, riuscirà a ridurre debito e disavanzo e a dimostrare che il NextgenEu non è stato uno spreco. In qualche modo, le insidie nascoste nelle differenze fra Italia e Germania nella campagna post-Covid rendono più difficile e più importante la scommessa di Draghi e di tutto il paese.
Maurizio Ricci