Gian Primo Cella – Ordinario di Sociologia Economica all’Università di Milano
Il tema della pluralità (è meglio non utilizzare il termine pluralismo, che ha un suo specifico significato in senso teorico) delle rappresentanze sindacali con pretese di rappresentanza sulle stesse componenti del lavoro non ritrova un grande spazio nella teoria delle relazioni industriali. Segno, da una parte, della difficile (o impropria) collocazione del tema nell’ambito della logica (e della pratica) del processo negoziale, dall’altra del non grande rilievo assunto da questo carattere nella storia dei grandi movimenti sindacali che hanno attraversato la storia della industrializzazione.
La difficile collocazione (o considerazione) nel processo negoziale è spiegabile con le anomalie che la pluralità delle rappresentanze introduce sia nelle dinamiche delle relazioni, sia nella loro stabilità. La pluralità, se si traduce (come è probabile) in differenti (anche nei costi) piattaforme rivendicative, rende espliciti alla controparte il margine di chiusura (o il punto di caduta) della trattativa, indebolendo così le posizioni negoziali della parte pluri-rappresentata. La stabilità delle relazioni è indebolita dalla fonte di “disordine” rappresentata dalla pluralità. La teoria delle relazioni industriali (almeno quella più consolidata, ovvero quella pluralista) sostiene che la efficienza delle relazioni stesse è data soprattutto dalla loro capacità di riduzione del conflitto (o della protesta) in un periodo ragionevole di tempo. Il “conflitto in uscita” dal processo contrattuale deve essere inferiore al “conflitto in entrata”. E’ evidente come la pluralità delle rappresentanze sindacali contribuisca a ridurre questa efficienza.
Nella storia dei grandi movimenti sindacali, laddove esistono processi più o meno affermati di contrattazione, assistiamo certo a una pluralità di rappresentanze sindacali, ma queste sono portatrici di diversi modelli di rappresentanza, organizzativa e contrattuale. Una pluralità che si manifesta in momenti di grandi tensioni e mutamenti, nella società, nelle forme della industrializzazione, all’interno stesso dei movimenti sindacali. Gli esempi storici sono ben noti: vanno dalla nascita del new unionism in Gran Bretagna alla fine del XIX secolo (l’affermazione dei sindacati generali contro la tradizionale rappresentanza di mestiere), agli anni trenta negli Stati Uniti con la competizione fra i sindacati industriali nascenti (il CIO) e i sindacati di mestiere (dominanti nella AFL), fino alle lotte brasiliane negli ultimi anni della dittatura militare (finale anni 70) con la competizione fra il nuovo sindacalismo (la CUT) e i sindacati corporativi.
Un sistema di relazioni industriali cresce e si consolida attraverso soluzioni di vario tipo (più o meno stabili) fornite a questo problema. Il principio generale di soluzione si ispira in qualche modo alla costituzione di una qualche forma di “monopolio” della rappresentanza sindacale su una stessa componente della forza lavoro (categoria, occupazione, mestiere, impresa, reparto, ecc.). Come è noto, la regola più coerente con questo principio è quella individuata dal Wagner Act negli Stati Uniti, con la exclusive bargaining unit, definita da organismi istituzionali pubblici, attraverso processi di definizione anche tormentati e conflittuali, ma che conducono verso soluzioni di una qualche efficienza. Sostengono la regola altre forme (oggi vietate o rese di più difficile applicazione) di prerogative sindacali, da quelle più rigide come il closed shop, a quelle più morbide come lo union shop.
Sono questi caratteri, queste esigenze, queste soluzioni che rendono conto del perché non esista oggi esperienza sindacale forte, rappresentativa e dotata di poteri negoziali effettivi, entro sistemi di relazioni industriali consolidati, che non veda la presenza di una confederazione sindacale unitaria (sia pure animata da più o meno forti conflitti di giurisdizione fra le diverse federazioni sindacali). Basti pensare alle esperienze dell’Europa centro-settentrionale. In queste esperienze unità non significa affatto sindacalismo unico, bensì convivenza (spesso non competitiva) con associazioni rappresentative degli impiegati, dei funzionari, dei lavoratori di alcuni comparti pubblici (peraltro in sensibile riavvicinamento alla grandi confederazioni). Le divisioni e le competizioni nel sindacalismo confederale sono segno di debolezza organizzativa e contrattuale, di esposizione all’intervento organizzativo, di dipendenza dalle risorse pubbliche, come dimostrano le esperienze francese e spagnola. Conosciamo le origini politiche e ideologiche di queste divisioni, che risalgono ben addietro nella storia del movimento operaio, ma non possono essere addotte a ragioni esclusive di spiegazione delle divisioni. In altri casi le divisioni (come nelle esperienze belga e olandese) hanno anche ragioni linguistiche o religiose, ma proprio per questo tendono a ritrovare forme di specificità di tipo territoriale.
E’ per tutte queste ragioni che mi permetto di sostenere la tesi della anomalia della esperienza italiana di sindacalismo confederale forte, dal punto di vista organizzativo e contrattuale, ma travagliato (animato secondo alcuni) da fasi ricorrenti di divisioni, talvolta di risse, competitive. Ma si pensa possa reggere a lungo in Europa, e per di più nell’Europa della moneta unica, una anomalia di questo tipo, senza effetti rilevanti sulla efficienza e sulla stabilità delle nostre relazioni industriali? E’ questa una domanda alla quale sarebbe opportuno fornire una risposta.
Se la teoria delle relazioni industriali non ha dato un grande spazio al problema della pluralità delle rappresentanze sindacali, una attenzione particolare, nel caso italiano, è stata ad esso fornita dalle discipline giuslavoriste, animate non solo dalla anomalia italiana, ma anche dalla elaborata e forse macchinosa forma di regolazione della pluralità prevista dall’art. 39 della Costituzione (concepito in una fase in cui la anomalia non era tale, perché le divisioni si accompagnavano ad una estrema debolezza contrattuale). A tali contributi giuridici occorrerà necessariamente rifarsi, anche se con il rischio di imbattersi (salvo rare e note eccezioni) in argomenti e analisi non sempre consapevoli della logica e della pratica di funzionamento delle relazioni industriali. Fra queste eccezioni va ricordato uno degli ultimi scritti di Massimo D’Antona (apparso nel 1998), quello proprio dedicato al quarto comma dell’art. 39: veramente uno dei più bei saggi di diritto sindacale degli ultimi decenni.
L’anomalia nella anomalia è proprio data dalla presenza-assenza dell’art. 39. Negli ultimi anni, a vedere alcune divisioni anche aspre (pensiamo ovviamente ai metalmeccanici), è parso che ci si dimenticasse che, se le relazioni industriali italiane sono caratterizzate (almeno per il settore privato) da forte volontarismo, specie per l’assenza di ogni disposizione legislativa sulla contrattazione collettiva, esse sono come segnate, dalle origini, dalla presenza incombente dell’art. 39 della Costituzione. Ci si è dimenticati che l’alternativa funzionale alla mancata applicazione del quarto comma dell’art. 39, in una situazione di persistente pluralità di rappresentanza, è stata una sola, senza equivoci: l’unità d’azione contrattuale fra i sindacati confederali. In mancanza di tale unità, passati accomodamenti più o meno soddisfacenti nel breve periodo, cosa potrà succedere? Come sarà possibile il mantenimento di un sistema efficiente di relazioni contrattuali? Il rischio di uno “scenario alla francese”, dove i contratti si applicano (e si estendono) sulla base della firma anche di uno solo fra cinque (o sei) sindacati confederali, dovrebbe fare riflettere. Un rischio non poi così remoto, improbabile, se lo si accompagna ai processi di decentramento politico-amministrativo di stampo c.d. federale, con molte istituzioni regionali alla ricerca di competenze, attribuzioni, poteri anche sui temi del lavoro. Ma lo “scenario francese”, non dimentichiamolo, si accompagna al tasso di sindacalizzazione più basso fra le grandi esperienze industriali (ormai ben al di sotto della soglia del 10%).
Come è possibile individuare per il caso italiano forme di regolazione efficaci, realistiche, non rinviabili al lungo periodo? Certo, un accordo sulle regole fra i grandi sindacati confederali, un protocollo interno, potrebbe costituire una via di uscita. Ma forse una via insicura e instabile, troppo esposta non solo alle intemperanze delle diverse identità sindacali, e delle loro esposizioni improprie con il sistema politico, ma anche alle turbolenze delle rappresentanze dei datori di lavoro in alcuni settori produttivi, specie nei servizi (come era stato rilevato fin dall’accordo del luglio 1993). Una via legislativa sarebbe più opportuna, sembrano suggerire alcuni, che forse non sembrano tener in adeguato conto le difficoltà (e le inaffidabilità) degli attuali equilibri politici. Una via che potrebbe riprodurre nei settori privati quanto stabilito, ed applicato con discreto successo, dal decreto 29/1993 per il pubblico impiego. Una regolazione che, pur in una situazione particolare (quella del monopolio legale della rappresentanza dei datori di lavoro), ha rispettato, se non la forma, almeno il principio sostanziale di quanto previsto nel quarto comma dell’art. 39, quello che D’Antona chiamava il “nocciolo duro”, e che si riferisce al principio proporzionale di valutazione delle rappresentanze sindacali, con i conseguenti effetti sulla approvazione delle decisioni di tipo negoziale. E’ quello che permetteva a D’Antona di chiudere con queste parole il ricordato saggio: “Il ‘nocciolo duro’ dell’art. 39 trova, nel d.lgs. n. 29 del 1993 consolidato, una chiara concretizzazione, che fa della riforma della contrattazione collettiva nelle pubbliche amministrazioni il passaggio verso una nuova stagione della legislazione sindacale postcostituzionale”.
Ma le opposizioni verso una soluzione di tipo legislativo sono ben presenti in parti rilevanti del sindacalismo confederale italiano, e alcune di esse sono ben fondate. Inoltre, manca nel settore privato il requisito essenziale del monopolio della rappresentanza imprenditoriale. La strada del riconoscimento di tipo contrattuale delle competenze e delle prerogative contrattuali delle parti potrebbe rivelarsi, a questo punto, quella più realistica. La sede non potrebbe che essere quella di una revisione opportuna dell’accordo fondamentale del luglio 1993 (un vero basic agreement alla scandinava). Un nuovo, più efficiente, meno tormentato scenario potrebbe aprirsi per le relazioni industriali italiane. Una strada per tenere sotto controllo l’anomalia sindacale, e i danni da essa provocati.