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Home - Blog - La priorità è aumentare i salari non deprimerli: no ai 9 euro come salario minimo legale

La priorità è aumentare i salari non deprimerli: no ai 9 euro come salario minimo legale

di Alessandro Genovesi
29 Gennaio 2020
in Blog
La priorità è aumentare i salari non deprimerli: no ai 9 euro come salario minimo legale

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Vanno nella direzione giusta tutte le dichiarazioni di importanti esponenti del Governo che puntano ad un’accelerazione sugli investimenti pubblici così come su una più equa riforma previdenziale e fiscale, richieste non da oggi di Cgil, Cisl e Uil.

Attenzione, invece, all’introduzione di un salario minimo legale a cifra definita (i famosi 9 euro lordi comprensivi di ratei e Tfr di cui si parla insistentemente). Questa non è una scelta giusta: l’unico modo per garantire un salario minimo legale senza compromettere la capacità regolatoria dei Ccnl è quello di dare validità erga omnes ai Contratti Collettivi Nazionali sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, attuando l’articolo 39 della Costituzione, lasciando alle parti la definizione della “cifra minima”.

Troppi apprendisti stregoni o teorici da aula universitaria si stanno cimentando su un tema complesso come quello delle relazioni industriali, sottovalutando così come materialmente queste si strutturano (insomma per parlare di contrattazione, averla praticata aiuterebbe…)”.

Oggi la priorità è da un lato contrastare il fenomeno sempre più diffuso dei part-time involontari (che nessun salario orario affronta) con politiche occupazionali espansive e con incentivi alla crescita oraria e, soprattutto, dobbiamo alzare i salari a 18milioni di lavoratori (16 dei quali con salari già sopra i 9 euro lordi) agendo sia la leva fiscale, come si sta cominciando a fare, sia con una politica rivendicativa che porti ad aumenti ben più alti dell’attuale inflazione, recuperando il gap accumulato negli anni 2000 anche per responsabilità di sindacati e imprese.

Questo per facilitare una ripresa della domanda interna e per spingere le imprese ad innovare ed investire, affrontando così il tema della bassa produttività che, in Italia, non è imputabile ai lavoratori (siamo tra i Paesi con i più alti carichi di lavoro, come dimostra purtroppo anche l’alto numero di infortuni) ma alla scarsa innovazione di prodotto e processo.

Introdurre una cifra definita come salario minimo legale non solo porterebbe ad una maggiore rigidità nelle dinamiche relazionali in settori che sono tra loro diversi (e che produco valori aggiunti diversi), depotenziando la funzione industriale dello stesso Contratto nazionale di lavoro, ma rischia alla lunga di avere effetti opposti a quelli che molti si augurano, spingendo verso il basso i prossimi rinnovi salariali e comprimendo i salari reali, soprattutto di quei lavoratori più qualificati (la parte centrale della scala parametrale). Ben difficilmente infatti, una volta introdotto un salario minimo ed un indicatore di adeguamento successivo (inflazione ex post basata su Ipca depurato) si potrebbero ottenere aumenti salariali in grado, secondo prassi e specificità, di essere superiori a tali indicatori, redistribuendo così quella produttività di sistema che le nuove tecnologie “disseminano” lungo l’intera filiera (e non solo nella singola azienda).

Questo ovviamente a meno di non “scambiare” ad ogni rinnovo un pezzo di tutele normative (dal mercato del lavoro, agli orari, all’organizzazione del lavoro, agli appalti, ecc.) per un aumento salariale superiore all’inflazione.  
Insomma i Ccnl non sarebbero più autorità salariale: da strumento di aumento del potere d’acquisto rischiano di ridursi al mero recupero del potere d’acquisto (già perso prima essendo il calcolo inflativo ex post) che non sono la stessa cosa.

E noi, militanti dal cuore rosso pulsante, ragionieri dell’inflazione da recuperare e non agitatori sociali che, “facendo del salario l’anello a cui aggrapparsi, puntano a impadronirsi dell’organizzazione di impresa”, come ci insegnava Sergio Garavini.  

Nel migliore dei casi avremmo fornito all’impresa più spregiudicata, comunque, una pistola fumante (un’altra) da mostrare comunque al rappresentante dei lavoratori, condizionando il confronto. La capacità di aumento reale dei salari sarebbe per tanto delegata esclusivamente alla contrattazione di secondo livello che, in Italia, riguarda circa il 18% dei lavoratori (e così è da circa 15 anni, al di là di ogni sforzo o belle parole), vista la dimensione media di impresa, la concorrenza feroce al ribasso e il nanismo aziendale, caratteristiche più italiane che di altri paesi.

Sono infatti una positiva specificità italiana la cogenza di fatto di un Contratto nazionale di lavoro che assicura diritti e salari uguali a tutti i lavoratori di un comparto, da Aosta a Catania, e l’esistenza di un secondo livello, aziendale o territoriale che sia, al netto ovviamente dei contratti pirata contro cui – ritorna- rispondere con l’attuazione sempre dell’articolo 39 del Costituzione.

Il combinato disposto di spinte a territorializzare sempre di più la cogenza della contrattazione, come da ultimo proposto da diversi Governatori del Nord per scuola o sanità e da qualche associazione datoriale per i settori privati e il salario minimo legale a cifra definita sono, allora, tante bombe ad orologeria volte a far saltare un sistema di relazioni industriali, che certo è da innovare ulteriormente,  ma che in tutti questi anni ha retto, rappresentando una delle poche certezze in un Paese attraversato da mille spinte disgregatrici, come dimostra da ultimo il c.d. “Patto della Fabbrica”.

Chiudo con due riflessioni un po’ scoordinate tra loro (ma fino ad un certo punto). La prima: sarà forse un caso che nel momento di massimo “commissariamento democratico” del Paese da parte della cosiddetta Troika (fase Governo Monti), tra le indicazioni dateci da Bruxelles vi era il superamento dell’art. 18, la riduzione del ruolo dei Contratti Collettivi Nazionali e l’introduzione del salario minimo legale. E a me, la politica della Troika non mi è mai parsa schierata dalla parte dei lavoratori.

La seconda: per dirla all’antica maniera rimangono, in compenso, i buoni e vecchi rapporti di forza (così è  e così sempre sarà) che, però alla lunga, se esercitati come premessa ad ogni confronto e non come eccezione, certo non contribuiscono ad un buon sistema di relazioni industriali di cui il Paese avrebbe bisogno… Personalmente io sulla questione dei 9 euro continuerei a riflettere senza smanie, furbizie o subalternità…

Alessandro Genovesi – Segretario Generale della Fillea Cgil

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Responsabile Contrattazione inclusiva, appalti e lavoro nero della Cgil Nazionale

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