Con una di quelle spregiudicate giravolte che spesso la moda regala, una delle storture storiche dell’economia – o, forse, sarebbe meglio dire, della società – italiana sta ottenendo il plauso e l’attenzione di studiosi e osservatori. E, dunque, l’impresa familiare, più e più volte deprecata e condannata come la zavorra che impedisce il decollo del paese, non sarà invece la ricetta per un futuro luminoso e migliore? Non è che il Brambilla – o, meglio, il Superbrambilla, visto che si parla soprattutto di multinazionali familiari – ha l’occhio più lungo di tanti gestori di fondi e amministratori manager?
Il quesito, su cui torna in questi giorni il Financial Times, nasce dal confronto fra l’andamento della Borsa negli ultimi dieci anni e il parallelo cabotaggio delle grandi multinazionali familiari italiane. In media, le aziende italiane quotate in Borsa si sono apprezzate, negli ultimi dieci anni, dell’1,5 per cento l’anno, in sintonia, più o meno, con quanto è avvenuto per l’economia nel suo complesso. Ma, nello stesso arco di tempo, l’Exor, la finanziaria degli Agnelli, ha visto il suo valore moltiplicarsi per 7. I liquori della Davide Campari hanno portato alla famiglia Garavoglia, che ha la maggioranza delle azioni, una quintuplicazione del valore. I farmaci della Recordati hanno beneficiato la famiglia titolare con una moltiplicazione per otto del valore in Borsa. Leonardo Del Vecchio ha visto triplicare il valore azionario della Luxottica. Fino al ponte Morandi, i Benetton non potevano certo lamentarsi dell’andamento di Autostrade e di Atlantia. La nutella dei Ferrero e i rigatoni della Barilla non sono quotati in Borsa, ma, se lo fossero, avrebbero registrato successi simili e, del resto, hanno certamente accumulato pingui profitti. Non vale per tutti, naturalmente: con Mediaset, Berlusconi e famiglia sono andati esattamente in senso opposto. Tuttavia, ce n’è abbastanza per individuare un trend e cercare di spiegarlo.
Rispetto al capitalismo anglosassone, queste (mega)imprese familiari possono permettersi di superare la schiavitù del risultato immediato, dove il ritmo dell’azienda è cadenzato dai bilanci trimestrali e un trimestre o due non in calo, ma con una crescita inferiore alle attese può determinare la fuga degli azionisti e la cacciata dei dirigenti. Queste grandi famiglie possono, invece, impostare strategie di più lungo respiro, che scontino anche risultati non immediati e qualche difficile momento di passaggio.
Il problema, però, più che di famiglie è, per un verso, la presenza di un nucleo azionario con un minimo di solidità e di stabilità e, per un altro, una cultura della Borsa e dell’investimento meno ossessionata dall’andamento quotidiano del titolo: il grande guru della finanza americana, Warren Buffett, ragiona appunto così, pur senza figli e nipoti. E la polemica sul familismo dell’imprenditoria italiana non riguarda gli Agnelli o i Ferrero. I casi singoli possono, infatti, illustrare qualsiasi tesi: abbondano horror stories in chiave opposta, tipo “tengo banca e famiglia” alla Popolare di Bari.
In sé, infatti, il capitalismo familiare non è un handicap. Gran parte dell’industria tedesca di maggior successo ha alle spalle proprietà – o, almeno, quote di controllo – familiari. La differenza, rispetto alla situazione tipica italiana, è che, in Germania, la proprietà, normalmente, non coincide con la direzione. La gestione è affidata a manager e condotta con criteri manageriali. È quanto vale anche per le grandi multinazionali familiari italiane. Al di là del fatto che – frequentemente, ma non sistematicamente – il bastone del comando sia nelle mani di un membro della famiglia, le stesse dimensioni aziendali impongono la presenza di un quadro manageriale ramificato e competente, selezionato in base al merito e giudicato solo sulla base dei risultati. Ma questo non vale per la stragrande maggioranza delle imprese italiane, piccole e medie.
Eppure, è l’unica rete di sicurezza contro le insidie incorporate nel capitalismo familiare: il nepotismo, la cattiva amministrazione. E la maledizione della terza generazione, ovvero l’altissima probabilità statistica che i nipoti non abbiano neanche un’oncia del talento imprenditoriale del nonno. Non è una maledizione solo italiana: leggere, per credere, Thomas Mann e “I Buddenbrook”. Ma l’assenza, quasi sempre, di due aperture fondamentali verso l’esterno (il management professionale e la quotazione in Borsa) la rende letale per molte aziende italiane. Anna Giunta e Salvatore Rossi, in un acuto libretto “Che cosa sa fare l’Italia”, hanno raccontato queste imprese in cui l’amministratore delegato è il figlio del padrone, la figlia direttrice al marketing, il genero direttore di produzione, un cugino fa le paghe e il cognato gli acquisti. E in cui le grandi decisioni di investimento arrivano sempre ad un bivio: compriamo i computer nuovi per l’azienda o la villa per la pupa che si sposa?
Maurizio Ricci
In realtà, questa è solo una faccia della lunga crisi del paese. Anche prescindendo dalla stragrande maggioranza delle nostre imprese e limitandosi alle grandi multinazionali italiane, come è che ci sono solo quelle con grandi famiglie alle spalle e le altre hanno chiuso o sono scappate?