La vicenda riguarda una giornalista, Br.Ti., che aveva lavorato per Telearena S.p.A. fino al luglio 2015, quando iniziò una nuova collaborazione con Athesis S.p.A., editore del Giornale di Vicenza. Dopo la cessazione di quest’ultimo rapporto, la lavoratrice ha agito in giudizio per far accertare che il precedente contratto con Telearena non si era mai formalmente concluso e che, pertanto, il rapporto di lavoro doveva considerarsi ancora in essere. I giudici di merito, tuttavia, hanno rigettato la domanda, ritenendo che, pur in assenza di un atto scritto, il comportamento complessivo delle parti dimostrasse una volontà chiara di risolvere il rapporto: la lavoratrice aveva infatti assunto un nuovo incarico con mansioni diverse (da giornalista televisiva a giornalista della carta stampata), aveva comunicato all’ente previdenziale dei giornalisti (Inpgi) l’inizio del nuovo rapporto, richiesto i permessi per assistenza familiare (L. 104/1992) con riferimento al nuovo datore e aveva messo in mora Telearena solo dopo la fine del rapporto con Athesis.
La Cassazione, con l’ordinanza n. 15006 del 4 giugno 2025, ha tuttavia accolto il ricorso, cassando la sentenza e richiamando una norma specifica della cosiddetta legge Fornero (art. 4, commi 17-22 della legge 92/2012), che impone un requisito fondamentale per la validità della cessazione del rapporto di lavoro: la risoluzione consensuale – così come le dimissioni – è efficace solo se viene convalidata in una sede protetta, come i Centri per l’impiego o le Commissioni di certificazione, oppure se il lavoratore sottoscrive una dichiarazione allegata alla comunicazione di cessazione inviata dal datore. Senza tale convalida, la cessazione del contratto non è nulla, ma è priva di effetti: il rapporto si considera sospeso, in “quiescenza”, in attesa del compimento del procedimento previsto dalla legge.
La Suprema Corte ha chiarito che, anche se il testo del comma 22 si riferisce espressamente alle dimissioni, l’intero impianto normativo disciplina unitariamente anche le risoluzioni consensuali e, pertanto, entrambe le ipotesi richiedono la convalida per essere efficaci. Di conseguenza, anche se nella pratica le parti si sono comportate come se il rapporto fosse cessato – e anche se vi è prova chiara della volontà di risolverlo – in assenza degli adempimenti formali previsti dalla legge, la cessazione resta inefficace.
La decisione impone dunque grande attenzione nella gestione della fase di uscita dal rapporto di lavoro, perché esclude che la sola volontà tacita o desumibile dai comportamenti basti a sciogliere validamente il contratto, e ribadisce la centralità del rispetto delle forme, a tutela della parte più debole, nella cessazione del rapporto di lavoro.
Biagio Cartillone