Che sarà della trattativa iniziata lunedì tra Cgil, Cisl e Uil e la Confindustria è difficile dirlo. L’incontro, che si presentava sotto i peggiori auspici, con corredo di dichiarazioni roboanti, in realtà si è concluso con l’impegno di Carlo Bonomi di sbloccare, intanto, il contratto per la sanità privata. Un piccolo passo, ma un grande segnale, per parafrasare il celebre detto. Quanto all’altro contratto bloccato, quello del settore alimentare, sembra si stia sbloccando da sé, con l’adesione, avvenuta nei giorni scorsi, di altre importanti aziende del settore al testo già firmato da diversi grandi gruppi.
Il vero banco di prova per capire che aria tira sui contratti sarà, come sempre, quello dei metalmeccanici, che inizieranno il confronto la prossima settimana. Si capirà a quel punto il vero clima, se le Federazioni di categoria di Confindustria andranno per conto loro, o accetteranno la linea dettata da Viale dell’Astronomia. Ma quale linea? Al momento non è affatto chiaro. Può essere che Confindustria, per scoprire le carte davvero, al di là delle dichiarazioni pubbliche, attenda la fine del mese: quando, passato l’appuntamento cruciale delle elezioni regionali e del referendum, si terrà l’assemblea annuale, rinviata dalla primavera al 29 settembre causa Covid, nella quale Bonomi terrà la sua prima, vera, relazione programmatica.
Intanto qualche considerazione si può comunque fare. Prendendo spunto proprio dalla ”rivoluzione” che Bonomi ha dichiarato di voler portare nella contrattazione. Perché qui sta il punto. La rivoluzione, infatti, la stiamo già vivendo, bisogna essere ciechi per non vederla, è già tutta attorno a noi: nel mondo del lavoro, della produzione, nelle città, nei servizi. Nelle priorità. Nelle persone. Nel sentire comune. Una rivoluzione che ha aspetti positivi, e negativi. Ma che bisogna guardare dritta negli occhi.
Le crisi, per esempio: non sono più soltanto quelle industriali di ”prima”, che già erano tante e pesanti, come dimostrano i dossier che si impolverano sul tavolo del Ministero dello Sviluppo. Ce ne sono di nuove che si affacciano, e che possiamo chiamare “effetti collaterali del distanziamento sociale”. La crisi della moda – se non vai in ufficio, e nemmeno alle feste, agli eventi mondani, non ti compri vestiti, scarpe, orpelli. Il vino, per la convivialità che viene a mancare. I vestiti da sposa, la gioielleria, le agenzie che organizzano eventi e cerimonie, i fioristi. La cosmetica, i rossetti. La musica, lo spettacolo dal vivo, il cinema, il teatro, la cultura, l’arte. Lo sport. La ristorazione veloce, quella che viveva di pause pranzo e di impiegati, ora scomparsi assieme ai preziosi turisti stranieri, la cui assenza affossa alberghi stellati, super ristoranti, industria del lusso. I trasporti, pubblici e privati, costretti a viaggiare con carichi ridotti. I centri delle grandi città, Londra, New York, Roma, Milano, unite da uno stesso destino di abbandono, e dall’obbligo di trovare un nuovo senso di essere.
Oggi il futuro è avvolto in una nebbia assoluta, in attesa di vaccini, o miracoli, o qualunque cosa. Ma intanto c’è un mondo del lavoro che è già del tutto cambiato, ed è cambiato in questi sei mesi più che negli ultimi sessant’anni. Lo smart working per esempio: è qualcosa da cui indietro non si torna, ma nemmeno si può andare avanti a casaccio, per forza di inerzia. Costringerà a ripensare tutto: l’orario di lavoro, col cartellino che scompare, o assume nuovi connotati, i salari, che andranno ricalcolati, il tempo di lavoro e di vita, che sarà scandito diversamente, i servizi, i distanziamenti, il sistema dei trasporti, il concetto di sicurezza sul lavoro, e infinite altre cose. Se si prende un capo del filo e si inizia a seguirlo, a srotolarlo, ci si ritrova in un mondo mai visto, una Narnia inesplorata che pone infiniti problemi, ma che offre anche infinite sorprese e opportunità. La rivoluzione digitale, con l’avvento del 5G, la rete unica, la banda larga; la rivoluzione della transizione energetica; l’accresciuta attenzione all’ambiente; la ricerca di un nuovo modello di sanità, più efficiente, più vicino ai bisogni. E ci sono, stavolta, non ultimi, anche i soldi, quelli del Recovery Fund, che bisognerà decidere come spendere nel modo migliore: e c’è un rapporto diverso, migliore, con l’Europa, nell’Europa.
Tutto questo richiede una visione diversa dal passato, coraggiosa e creativa; visione che peraltro sindacati e imprese hanno già dimostrato di avere in primavera, quando si sono messi a lavorare assieme, molto proficuamente, per risolvere i problemi enormi creati nelle aziende dal lockdown e dall’emergenza pandemia. Se l’Italia non si è fermata davvero, ma ha saputo riorganizzarsi e almeno in parte resistere e tirare avanti, per poi ripartire, è merito loro, di sindacati e imprese.
Oggi c’è tutto un mondo – tutto il mondo- che deve riorganizzarsi; e no, non sarà mai più il mondo di prima. Per questo, sentire il presidente di Confindustria chiedere una rivoluzione dei contratti, limitandosi a riproporre il vecchio schema salario in azienda- vs – salario nel contratto nazionale, sembra, come dire, un po’ stonato, un po’ vintage. Sindacati e imprese hanno di fronte un’occasione unica per di ridisegnare il mondo della produzione, del lavoro, delle relazioni industriali, e anche sé stessi: magari sopravanzando – come già accaduto in altri momenti assai cupi nella vita del nostro paese- un governo che sembra, al momento, alquanto imbambolato. Ecco, questa si sarebbe una rivoluzione.
Nunzia Penelope