di Dino Pesole – Giornalista di Il Sole 24 Ore
Dal Fondo monetario internazionale all’Ocse, per finire con la Commissione europea. Ormai è convinzione comune delle massime istituzioni internazionali che nel 2003 l’economia europea non crescerà oltre un modestissimo 0,5 per cento. Pesa la perdurante fase di stagnazione dell’economia internazionale e pesa soprattutto l’andamento dei conti pubblici di Francia e Germania. Quest’anno, per la prima volta, la Francia supererà la fatidica soglia del 3%, nel rapporto deficit-Pil (le ultime stime parlano del 4%), mentre la Germania raggiungerà quota 3,8%.
L’ex locomotiva tedesca, cui si deve per gran parte l’interpretazione più restrittiva del Patto di stabilità e di crescita, finirà dunque nella rete dei vincoli imposti nel 1998 per far fronte a rischi di sforamento da parte dei Paesi meno virtuosi, tra cui l’Italia, che peraltro continua a detenere la quota più rilevante di debito in rapporto al Pil (106,7% nel 2002), ma che non rischia “cartellini gialli” per quel che riguarda il deficit.
In una situazione di tal fatta, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, presidente di turno dell’Ecofin, si trova da un lato a difendere l’impalcatura del Patto, dall’altro a ipotizzare eventuali e temporanei sforamenti di bilancio a fronte di evidenti e accertate riforme strutturali che saranno varate dai Paesi membri.
La linea, che sembra trovare concorde il commissario europeo agli Affari economici e monetari, Pedro Solbes, è in sostanza la seguente: nessuna modifica sostanziale al Patto di stabilità, ma apertura a eventuali letture “intelligenti” del Patto che diano respiro alle economie europee tuttora alle prese con palesi difficoltà, sia sul fronte della crescita che su quello dell’occupazione.
Se tra i ministri economici dei Quindici prevalesse la linea di chi spinge per una radicale revisione del Patto di stabilità, il messaggio che verrebbe inviato ai mercati sarebbe quello di un allentamento della disciplina di bilancio. Ipotesi che la Bce continua a respingere con forza. In un contesto di questo tipo, peraltro, sarebbe proprio l’Italia a correre i rischi maggiori: un aumento dei tassi finirebbe per pesare sui conti italiani in modo certamente più rilevante rispetto a quei Paesi, Germania e Francia compresi, che continuano ad avere un debito di gran lunga inferiore a quello italiano (attorno al 60 per cento). Ecco dunque la ragione per cui dal Governo italiano, almeno per l’intero semestre di presidenza dell’Unione, non verrà avanzata alcuna proposta di revisione radicale del Patto.
Le nuove stime per l’economia italiana nel 2003 sono in linea con quelle europee. Con la nota di aggiornamento al Dpef, che vedrà la luce a fine mese insieme alla Finanziaria, il Governo rivedrà nuovamente al ribasso la stima di crescita per l’anno in corso. Si passerà così a una nuova previsione dello 0,4-0,5%, in linea con il risultato conseguito nel 2002, a fronte dello 0,8% del Dpef varato a metà luglio. Vale la pena peraltro di ricordare che quello stesso obiettivo era già stato rivisto al ribasso (all’1,1%) in primavera, nella “Relazione sull’andamento dell’economia nel 2002 e aggiornamento delle previsioni per il 2003”. Ben più ambiziose erano le previsioni del Dpef presentato lo scorso anno: 2,9% nel 2002, 2,9% nel 2003 e 2004, 3% nel 2005 e 2006.
L’ulteriore revisione delle stime per l’anno in corso porterà all’inevitabile conseguenza di un ritocco anche delle previsioni per il 2004, tanto che da un’ipotesi iniziale del 2% per la crescita si è già passati a un più contenuto 1,8%. Di conseguenza, il deficit del prossimo anno crescerà al 2,1-2,2%, contro l’1,8% programmato solo un mese fa.
Fare previsioni è indubbiamente un esercizio assai complesso. Nel 2003, per compensare le mancata entrate causate dalla minore crescita, il Governo ha fatto ricorso a una massiccia dose di condoni e sanatorie fiscali. Per il prossimo anno, la manovra da 16,2 miliardi in via di preparazione sarà composta ancora per parte rilevante (10 miliardi) da nuove una tantum. Il ministro Tremonti si è impegnato a ridurne l’effetto, fino ad annullarlo del tutto nel 2006, ma l’operazione si annuncia alquanto complessa.
La riforma del sistema previdenziale che il Governo sta faticosamente cercando di mettere a punto in questi giorni non produrrà effetti di cassa nell’immediato. Si percepiranno a partire dal 2008. Le misure di contenimento della spesa corrente ipotizzate nel Dpef (nuovo gito di vite sulle pubbliche amministrazioni; potenziamento del Patto di stabilità interno) non appaiono in grado di incidere, se non in misura minore, sugli andamenti generali di finanza pubblica. Da qui il sentiero stretto che si apre di fronte al Governo. I margini finanziari a disposizione appaiono esigui, tanto che il ministro Tremonti è stato costretto a rinunciare al “secondo modulo” dell’Irpef, vale a dire alla seconda tranche della riforma fiscale avviata lo scorso anno, uno dei principali cavalli di battaglia della campagna elettorale con cui la Casa delle libertà ha vinto le elezioni nell’aprile di due anni fa.
Si parte da una constatazione che appare incontrovertibile. Gli squilibri nei mercati valutari, la sopravvalutazione dell’euro nei confronti del dollaro penalizzano le esportazioni dell’intera area europea. La ripresa, che si immaginava potesse essere trainata dagli Stati Uniti, è nuovamente rinviata al prossimo anno. Non mancano segnali incoraggianti d’oltre Oceano, ma la disoccupazione non accenna a diminuire, ed appare arduo ipotizzare una robusta virata generata solo dalla ripresa dei corsi azionari.
In tali condizioni, le residue speranze per una, sia pur lieve, inversione di tendenza, non possono che essere affidate in prevalenza alla componente interna. Nel 2003, nonostante siano stati concessi sgravi fiscali per 5,5 miliardi di euro a beneficio dei redditi medio-bassi, i consumi hanno mantenuto un profilo piatto. Pesa l’incertezza di imprese e singoli consumatori, pesa la mancanza di prospettive certe per l’immediato futuro. In economia – è noto – le aspettative sono determinanti. Ecco perché il Governo, alle prese con la difficile messa a punto della prossima Finanziaria, appare intenzionato a spingere il pedale, per quanto possibile, sulle misure in grado di generare nuovo sviluppo.
Secondo le ultimissime indicazioni, dalla manovra di 16,2 miliardi verrà ritagliata una quota (circa 6 miliardi) da destinare appunto al sostegno della domanda interna. In tal modo la manovra del 2004 diverrà “lorda” e non più “netta”. La conseguenza è che decrescerà la componente destinata al taglio del deficit nominale, con conseguente incremento dell’obiettivo concordato con Bruxelles.
Tremonti si era però impegnato con la Commissione europea a ridurre il deficit strutturale (depurato dagli effetti del ciclo economico) per almeno lo 0,5% del Pil ogni anno. Quota che, con la nuova ripartizione della manovra, scenderebbe nei dintorni dello 0,3%. Da qui nasce l’idea di proporre a Bruxelles una sorta di “scambio”: un po’ più di deficit, in cambio del varo effettivo di riforme strutturali. La scommessa che sta giocando il Governo in questi giorni è tutta qui, in attesa che la ripresa arrivi finalmente nel 2004.



























