Gli accordi commerciali sono roba sofisticata e complessa, in cui commi e codicilli sono l’elemento chiave e in cui non sempre i risultati corrispondono agli annunci. In altre parole, per giudicarli davvero bisogna aspettare mesi, quanti occorrono per un testo scritto e per vedere se viene applicato. Per esempio, il primo Trump dichiarò vittoria, nel 2018, per un impegno cinese a comprare soia americana in quantità. Solo che Pechino, quella soia, non l’ha mai comprata e tutti fanno finta di niente.
Nel caso di Ursula e Donald, tuttavia, anche il quadro d’insieme conta. Su quella base, il giudizio è meno scontato di quanto sembrerebbe a prima vista.
Politicamente, non ci sono dubbi. L’accordo tratteggiato in Scozia fra il presidente americano e la presidente della Commissione Ue è una grande vittoria, su tutta la linea, per Trump e la sua strategia. Partita con l’idea delle tariffe “zero contro zero” o, almeno, del 10 per cento, Ursula von der Leyen si ritrova con un 15 a zero, che la riduzione a quel 15 del 25 minacciato per le auto – e assai temuto da Germania e Italia – non basta ad addolcire. La più grande potenza commerciale mondiale – cioè l’Europa – si è piegata come un giunco, senza neanche abbozzare una reazione. Magari la scossa sarà l’occasione – come spesso è capitato nella storia europea – per mettere mano a riforme difficili, ma decisive, come l’abbattimento dei dazi interni alla Ue che, disse Draghi, sono molto più pesanti del 15 per cento. Ma è una vittoria politica che Trump potrà rivendersi, in patria e fuori, all’infinito, e che, conoscendo il soggetto, non è neanche definitiva. Vedremo se, nei prossimi mesi, il presidente americano non tornerà alla carica con nuove richieste contro un’Europa già sul piede debole.
Sul piano economico, però, le cose non sono così nette. L’Europa ha mantenuto intatte, salvo sorprese, le proprie regole sul mondo digitale e sui requisiti sanitari delle importazioni agricole. Ha, invece, accettato, sostanzialmente tre cose. Un impegno ad acquistare 750 miliardi di dollari di prodotti energetici nei prossimi tre anni. Un impegno ad investire, in futuro, un totale di 600 miliardi di dollari negli Usa. Dazi del 15 per cento su tutte le sue esportazioni oltre Oceano. Il primo impegno, probabilmente, è mirabolante ma irrealizzabile. Il secondo superfluo. Il terzo non si sa a chi conviene.
1) L’energia. L’Europa, l’anno scorso, ha importato prodotti energetici (gas e petrolio) per 375 miliardi di dollari. Per riservarne 250 agli americani, l’intero mercato mondiale dell’energia dovrebbe essere messo sottosopra. Di quei 375 miliardi del 2024, solo una sessantina riguardano il gas, di cui l’Europa è avida, e metà di quei 60 già vengono dagli Usa. Il petrolio americano rappresenta il 15 per cento (ancora, circa 60 miliardi) dei barili che arrivano in Europa. Passare a oltre 200, forse, non è neanche interesse dei produttori americani.
2) Gli investimenti. L’anno scorso, gli investimenti europei negli Usa sono cresciuti di 200 miliardi di dollari. I 600 miliardi di dollari nei prossimi tre anni garantiti a Trump, probabilmente, sarebbero arrivati oltre Atlantico comunque, anche senza nessun accordo.
3) Le tariffe al 15 per cento. Finora, i prezzi delle importazioni arrivate sulle coste americane, prima che vengano applicati i dazi, sono saliti, dicono le statistiche ufficiali, non scesi. Ovvero, il costo dei dazi se lo sono addossato le aziende importatrici e, prima o poi, toccherà ai consumatori. Quei soldi che il fisco americano intasca alla dogana, dunque, sono una tassa clandestina, che Trump applica alle aziende e ai consumatori di casa sua. Per gli esportatori e, quindi, per gli europei, il rischio, però, è che questi maggiori costi facciano scendere le vendite e, dunque, le esportazioni: è il motivo per cui la Ue ha accettato tariffe al 15 per cento, pur di non averle al 30. Ma neanche questo è scontato. L’esperienza fatta negli anni scorsi con i dazi sulla Cina mostra, infatti, che le aziende Usa, sul mercato americano, approfittano dell’aumento dei prezzi dei beni importati per aumentare anche i propri. Paradossalmente, aumentarono anche, per contiguità, i prezzi dei beni non colpiti alla dogana: c’era il dazio sulle lavatrici, non sulle lavastoviglie. Ma rincararono anche le lavastoviglie. Insomma, tutto lascia credere che i dazi si traducano in una spinta ad un aumento generale dei prezzi interni. Si chiama inflazione.
Maurizio Ricci



























