Le aziende sono pronte allo scambio. Di più se producono beni in fabbrica, piuttosto che servizi in ufficio. E sono tanto più interessate, quanto più sono grandi. Che si fidino o meno del sindacato, che ci trattino tutti i giorni, invece, conta un po’ meno. Il punto è quello che sono pronte a mettere sul tavolo: blindare il posto di lavoro oppure appesantire la busta paga. In cambio, chiedono flessibilità sugli orari e sulla distribuzione del lavoro.
La Banca d’Italia è andata a chiedere ad un migliaio di aziende con più di 50 dipendenti (quindi di dimensioni rispettabili, per la media italiana) fino a che punto fossero interessate alla flessibilità dei lavoratori e cosa fossero disposte a dare in cambio. Il risultato è che due imprese su tre, il 65 per cento, sono pronte a fornire garanzie sul mantenimento del posto di lavoro, di fronte all’impegno a orari più flessibili. E’ una percentuale che sale al 72 per cento, nel caso di aziende industriali. Per le grandi imprese (oltre 200 dipendenti) è quasi un toccasana: tre su quattro sono pronte a scambiare orari flessibili con garanzie occupazionali. E anche più grandi imprese (76 per cento) sono pronte, anziché alle garanzie occupazionali, a mettere semplicemente più soldi in busta paga per poter avere le mani più libere sugli orari. Una strada – quella dei soldi – che lascia invece un po’ più fredde le aziende più piccole. Anche sotto i 50 dipendenti, comunque, il 60 per cento circa è pronto a giocare occupazione o salario contro orario.
A tirare sono, comunque, soprattutto gli industriali. Chi, invece che fabbriche, governa uffici o magazzini è meno entusiasta. Ma ugualmente interessato: fra il 50 e il 60 per cento delle aziende di servizi è disposta a esporsi – in soldi o in garanzie sul posto di lavoro – in cambio di una flessibilità degli orari. Una disponibilità generale e trasversale, in cui incide, anche se meno di quanto si potrebbe pensare, la frequentazione quotidiana e la fiducia consolidata con le organizzazioni che rappresentano i lavoratori. Il sindacato appare uno snodo utile a realizzare lo scambio. Sono più pronte a imboccare questa strada, infatti, le aziende che possono esibire un contratto aziendale. Non è, tuttavia, una condizione decisiva: le percentuali di aziende interessate, pur senza avere un contratto aziendale, sono appena inferiori.
L’orario non è l’unica flessibilità su cui sembrano puntare le imprese. C’è interesse anche ad avere mani più libere sull’attribuzione delle mansioni sul posto di lavoro. Due industrie su tre – e qualcosa di più se sono grandi – sono pronte a garantire il posto di lavoro o a concedere aumenti salariali, pur di avere autonomia nella gestione del personale, rispetto al contratto e al sindacato. Anche qui, la questione delle mani libere sembra assai più pressante per le aziende con più di 200 dipendenti e, in generale, per le industrie.
Quello a cui le aziende interpellate da Via Nazionale sembrano credere un po’ meno, invece, è, nonostante la crisi e la recessione, la possibilità di mettere sul tavolo una garanzia del posto di lavoro contro un taglio dei salari. Ci punta solo meno di metà delle imprese, senza differenze significative, si tratti o meno di industrie o di società con 50 o 200 dipendenti. Ma è un dato da leggere con attenzione, controluce, distinguendo fra settori esposti alla concorrenza internazionale o meno. “L’esigenza di comprimere le retribuzioni in cambio di garanzie sui livelli occupazionali – dice Via Nazionale – è particolarmente sentita tra le imprese che hanno almeno un terzo del fatturato da export”.