Lo stralcio dell’articolo 30 del ddl Pmi, il cosiddetto scudo penale per i committenti, accolto con grande soddisfazione da parte del sindacato, non ha di certo cancellato tutti problemi della filiera della moda, che sta vivendo una fase contraddistinta da crisi, trasformazioni e indagini nei confronti dei grandi brand da parte della magistratura.
“Siamo difronte a una crisi strutturale e non congiunturale, dovuta a più fattori” afferma Sonia Tosoni, segretaria nazionale della Filctem-Cgil. “Da un lato ci sono le tensioni geopolitiche. Con lo scoppio del conflitto in Ucraina è venuto meno un mercato importante per il calzaturiero e la pelletteria Made in Italy come la Russia. Le tensioni commerciali tra Usa e Cina e i dazi imposti dall’amministrazione Trump creano un clima di incertezza. Ci sono poi altri fattori che rallentano l’intera filiera come l’inflazione, il costo di materie prime ed energia, e un allungamento e una parcellizzazione dell’intera supply chain che determina anche un innalzamento delle spese logistiche”.
Il settore, che conta 79 mila imprese, metà delle quali artigiane, e circa 600mila addetti, e genera un fatturato da 90 miliardi, il 5% del Pil, sta dunque vivendo una fase di fragilità diffusa. Nei primi 9 mesi del 2025, come spiega Confartigianato, la produzione è ancora in calo del 6,3%, più marcata del 4,5% della media UE, ma di intensità inferiore rispetto -11,6% del 2024. Questa tendenza dovrebbe mantenersi anche nei prossimi mesi in quanto le attese sugli ordini sono ancora negative, con un saldo di -7,2 a novembre 2025, ma in miglioramento rispetto al -10,9 del mese precedente. Tutte i settori della moda registrano cali di produzione, con criticità più marcate nella pelle (-11,8%), mentre emergono segnali positivi nella fabbricazione di tessuti a maglia (+3,6%) e nella biancheria intima (+2,2%). Un rallentamento che, come detto, interessa l’intera filiera della moda europea, ma che colpisce in maniera acuta la nostra industria, che si posizione al primo posto per numero di addetti.
A incidere sull’andamento negativo anche una domanda interna debole, che nel 2024 ha segnato un -2,1%, una riduzione delle vendiate al dettaglio, in discesa dell’1,2% nei primi dieci di quest’anno, e una flessione delle esportazioni del 3,6% nel primo semestre del 2025. Tra le conseguenze della crisi del settore l’elevato numero di cessazioni di impresa, 10 al giorno nel terzo trimestre 2025, di cui l’84,3% artigiane.
Accanto ai numeri si registrano mutazioni anche negli orientamenti dei mercati e nelle tendenze di consumo. La Cina sta provando a sostituire i nostri brand con i loro marchi. E c’è, inoltre, un approccio diverso al mondo del lusso e della moda, in particolare da parte delle generazioni più giovani. Si guarda a dei prodotti che abbiamo una maggiore utilità e durabilità nel tempo, così come ci si sta orientando su produzioni sempre di più costruire sui gusti del singolo cliente. Tutto questo comporterà uno stravolgimento dell’assetto produttivo, perché si avranno manufatti sempre più costosi, che richiedono competenze elevatissime per la realizzazione, ma anche una riduzione dei lotti con una conseguente diminuzione del perimetro occupazionale: nei prossimi anni circa un quarto degli attuali addetti potrebbe non avere più un lavoro.
“Nonostante ciò – afferma Confindustria Moda – il Made in Italy continua a godere di forte riconoscibilità e traina ancora l’export. Per tutelarlo in modo più efficace è necessario agire su più livelli. Servono regole più stringenti sulla trasparenza della filiera, così da distinguere chiaramente chi produce secondo standard qualitativi, sociali e ambientali elevati da chi basa la competitività su volumi e prezzi insostenibili. È fondamentale poi contrastare la concorrenza sleale, introducendo controlli più efficaci sulle piattaforme globali e norme che rendano obbligatoria la tracciabilità dei prodotti immessi sul mercato europeo”.
Le richieste Confindustria Moda riguardano inoltre politiche industriali “a sostegno delle imprese italiane, dalla formazione delle competenze alla transizione digitale e sostenibile, per rafforzare il valore di questo patrimonio nazionale. È poi cruciale valorizzare il Made in Italy presso consumatori e mercati, promuovendo il vero prodotto di filiera e scoraggiando modelli produttivi non consoni. Tutelare il settore significa quindi difendere un modello culturale, economico e sociale radicalmente diverso da quello dell’ultra fast fashion, basato su una sostenibilità ambientale e sociale che permetta una corretta competitività sui mercati globali”.
La sostenibilità e la transizione ambientale sono “temi cruciali per la filiera – spiega Raffaele Salvatoni, segretario nazionale della Femca-Cisl -. Da un lato ci sono le abitudini del consumatore. Il fast fashion, sul quale tuttavia non si posizionano le nostre produzioni, genera molti scarti. Ma è tutto il settore che ha un impatto significativo, basti pensare al segmento della concia. Ovviamente non siamo all’anno zero. Se guardiamo sempre al mondo della concia, sul fronte del riciclo delle acque di lavorazione ci sono distretti importanti in Lombardia. Il punto della transizione ambientale sono i costi che le piccole e piccolissime imprese non sono in grado da sole di sostenere. Per questo è importante l’appoggio pubblico, favorire politiche di aggregazione”.
Il raggruppamento di piccole realtà o un accrescimento della sinergia, già ora molto presente, tra i distretti produttivi, sono punti di una politica industriale per la filiera che per Cinzia Maiolini, della segretaria nazionale della Filctem, “è urgente e non più rimandabile. Una politica industriale che richiede un approccio integrato. La dismissione della chimica di base impatterà sulla filiera, perché tutta una serie di prodotti e sostanze usate nella concia o lavorazione delle pelli le aziende dovranno andare a comprarle sul mercato. Il nostro paese paga, in aggiunta, una carenza di materia prime, molte delle quali vengono dalla Cina e dal Sud America, e questo comporta un innalzamento dei costi. Si sta inoltre verificando, o quanto meno i marchi tanto di farlo, il reshoring delle produzioni. Questo, tuttavia, si scontra con il fatto che negli anni, proprio per i processi di esternalizzazione, sono venute meno determinate professioni e competenze oggi necessarie”.
Ma oltre alla congiuntura economica, all’aspetto produttivo e occupazionale e al contesto geopolitico, in queste settimane a tenere banco sono le inchieste della magistratura, con la procura di Milano che ha messo sotto indagine 13 grandi brand: Missoni, Off White operating, Adidas Italy, Yves Saint Laurent manifatture, Givenchy Italia, Ferragamo, Versace, Gucci, Pinko, Prada, Coccinelle, Dolce&Gabbana, Alexander McQueen. La procura valuterà quali richieste avanzare al giudice: se un’amministrazione giudiziaria, sulla base del Testo unico antimafia, o un’accusa vera e propria di caporalato, sulla base della legge 231.
Negli stessi giorni nei quali si allungava la lista dei marchi finiti sotto la lente di ingrandimento della procura, l’emendamento presentato al ddl Pmi, ribattezzato appunto “salva committenti”, aveva accesso le proteste della compagine sindacale, salvo poi essere accantonato come detto all’inizio. Per Confindustria Moda “la formulazione del ddl non introduce alcuna forma di deresponsabilizzazione, ma sin limita a richiamare norme già esistenti, in particolare gli articoli 6 e 7 D. Lgs. 231/2001, che prevedono un’esenzione di responsabilità soltanto se l’impresa dimostra di aver adottato e attuato efficacemente, prima dell’illecito, un modello, il cosiddetto 231, idoneo a prevenirne la commissione Non si tratta quindi di automatismi, bensì di una prova rigorosa di un comportamento diligente dell’impresa, ispirato a quanto previsto dalle norme”.
Nonostante lo stralcio dell’emendamento resta l’urgenza della certificazione di “una filiera molto lunga – aggiunge Salvatoni – nella quale i grandi brand sono pochi ma moltissime le aziende che lavorano per loro. Questo determina una forte parcellizzazione dell’intera catena e il fatto che la possibilità di fare i controlli sia sempre più difficile. Noi non siamo contrari ad arrivare a una certificazione, ma il vero punto è costruire un percorso condiviso con tutti gli attori coinvolti capace di garantire l’intera filiera, e non solo il grande brand”.
Linea simile anche quella esposta da Maiolini che spiega come “per arrivare a una certificazione si devono tenere in conto e analizzare determinati dati che mi possono far capire che in quell’azienda c’è qualcosa che non va, sulla base del modello che abbiamo costruito per le lavanderie industriali proprio per prevenire e contrastare fenomeni di sfruttamento o di eccessivo ricorso al sub appalto. Quindi bisogna guardare al costo del lavoro al minuto, oppure studiando i fatturati si può capire se quell’impresa esternalizza in modo massiccio le produzioni”.
Tommaso Nutarelli




























