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Home - Approfondimenti - Analisi - Lavorare di più per guadagnare come prima?

Lavorare di più per guadagnare come prima?

27 Ottobre 2004
in Analisi

di Aris Accornero – Professore emerito di Sociologia industriale all’Università di Roma – La Sapienza


Hanno fatto scalpore i casi di grandi aziende tedesche e francesi come Siemens, Bosch, Daimler-Chry­sler e Opel, dove i lavoratori hanno accettato il prolungamento degli orari a parità di paga per evitare la perdita dei posti che avrebbe se alcuni stabilimenti fossero delocalizzati in Paesi Est-europei. Sono casi clamorosi, soprattutto perché le 35 ore vengono messe in causa non soltanto dov’e­rano state contrattate dai sindacati ma anche dov’erano state introdotte dal Governo. «Il Sole-24 Ore» del 2 ottobre scorso ne ha dedotto che «l’o­rario non può più essere un argomento tabù», mentre il presidente del Consiglio ha parlato delle «troppe festività» e dell’esigenza di «far lavorare di più gli italiani».


Considerando poi che nell’Unione Europea è già in atto uno scontro sulla direttiva che fissa il tetto agli orari di lavoro (i sindacati chiedono di abolire le troppe deroghe, gli imprenditori di fissare soltanto limiti annui), è chiaro che qualcosa di profondo sta cambiando nella ripartizione fra tempo di lavoro e di non lavoro. Ci si chiede quindi se siamo in presenza di una pausa o di un blocco nella lunga marcia della riduzione d’o­rario a parità di paga, cavallo di battaglia del movimento operaio fin dal congresso tenuto nel 1866 dalla Prima Internazionale.


Ma prima di rispondere, bisogna ricordare due fenomeni. Il primo è la crescita del lavoro a tempo parziale, che crea posti con una dinamica maggiore di quella del tempo pieno, con l’effetto di redistribuire surrettiziamente e di emulare l’obiettivo di «lavorare meno per lavorare tutti». Al tempo stesso, come ha rilevato la Fondazione Europea di Dublino, si modificano le preferenze sulla durata del lavoro: il 47% dei part-ti­mers e il 35% dei full-timers accetta il proprio orario; il 36% dei primi e il 5% dei secondi lo vorrebbe più lungo; il 17% dei primi e il 60% dei secondi lo vorrebbe più corto. I soddisfatti del tempo parziale sono quindi molti e prevalgono su chi chiede più ore; invece i soddisfatti del tempo pieno sono di meno e vengono superati di gran lunga da chi chiede meno ore.


Il secondo fenomeno è l’allungamento delle aspettative di vita, che si incrocia con la tendenza alla riduzione del tempo di lavoro. Non è facile, neppure nei Paesi più sviluppati, reggere e gestire l’opposto andamento di una durata del lavoro che cala e di una durata della vita che cresce. A meno di differire l’età del pensionamento, nel senso di prolungare la vita attiva. Gli incredibili successi della scienza e della tecnica in campo medico-sanitario hanno regalato all’u­ma­nità un’esistenza durante la quale si può anche lavorare meno ore all’anno; ma proprio per questo non si può lavorare anche meno anni.


Però non è da qui che vengono i venti ostili alle 35 ore e alla riduzione degli orari. Vengono dalla comparazione fra i tassi di crescita europei e americani. L’indicatore comunemente usato, la produttività «per ora», dà conto soltanto in parte dei divari tra le due sponde dell’Atlan­tico, e la sua incidenza divide il giudizio degli economisti anche perché la statistica Usa enfatizza gli effetti delle tecnologie informatiche. Se invece si usa come indicatore la produttività «per testa», diventa meno dubbia la spiegazione affacciata da vari studiosi Usa e avvalorata dal­­l’ul­timo Employment Outlook dell’Ocse: gli americani non sono più produttivi ma semplicemente più sgobboni; danno maggior prodotto perché lavorano più a lungo (ancor più dei giapponesi).


Questo prolungamento della durata del lavoro era stato spiegato anni fa con il modello del work-and-spend cycle, che il presidente Bill Clinton aveva severamente criticato. Olivier Blanchard, del Massachusetts Institute of Technology calcola ora che fra il 1970 e il 2000 le ore lavorate siano salite negli Stati Uniti del 26%, mentre in Francia sono scese del 23%. Non è dunque una questione di produttività ma di orari. E in questione non è quindi l’eco­no­mia europea (quanto meno quella continentale, visto che in Gran Bretagna si lavorano 1.707 ore), ma semmai la società americana o anglosassone.


Il confronto è fra due modelli economico-sociali. Si sostiene che il maggior lavoro degli americani (dovuto innanzitutto alle minori ferie pagate) sta alla base del loro tenore di vita. Ma è proprio il super-lavoro che spiega il tenore di vita, o non è piuttosto il tenore di vita che spiega il super-lavoro? I dati ci dicono che gli americani consumano più di quel che producono e che il loro Governo spende più di quel che incassa, al punto che il disavanzo estero e il debito pubblico – i cosiddetti «deficit gemelli» – non sono mai stati così alti dopo la seconda guerra mondiale.


Ecco gli effetti del work-and-spend cycle, la tendenza individuata già nel 1967 da John K. Galbraith a desiderare più beni di consumo e meno tempo libero. Ed è proprio questa tendenza, non la scarsa produttività europea, che minaccia di bloccare e addirittura di invertire il cammino storico della durata del lavoro. Quando si dice che gli Stati Uniti tirano lo sviluppo, bisognerebbe pertanto aggiungere che lo tirano da questa parte (dalla parte del credito al consumo, direbbe Jeremy Rifkin). Ma andare da questa parte comporta enormi costi, sia economici che sociali. Basta dire che, se gli americani volessero andare in pareggio a casa loro e sostenere i consumi senza indebitarsi ulteriormente con il resto del mondo, dovrebbero lavorare ancor più a lungo. Altro che tempo libero od «ozio creativo».


Si spera che i sapientoni sempre pronti a segnalarci i vantaggi della globalizzazione, e a indicarci quel che dobbiamo imparare dagli Usa, non ci suggeriscano adesso di inseguire l’American way of life anche negli orari di lavoro.


           

redazione

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