di Aris Accornero – Professore emerito di Sociologia industriale all’Università di Roma – La Sapienza
Hanno fatto scalpore i casi di grandi aziende tedesche e francesi come Siemens, Bosch, Daimler-Chrysler e Opel, dove i lavoratori hanno accettato il prolungamento degli orari a parità di paga per evitare la perdita dei posti che avrebbe se alcuni stabilimenti fossero delocalizzati in Paesi Est-europei. Sono casi clamorosi, soprattutto perché le 35 ore vengono messe in causa non soltanto dov’erano state contrattate dai sindacati ma anche dov’erano state introdotte dal Governo. «Il Sole-24 Ore» del 2 ottobre scorso ne ha dedotto che «l’orario non può più essere un argomento tabù», mentre il presidente del Consiglio ha parlato delle «troppe festività» e dell’esigenza di «far lavorare di più gli italiani».
Ma prima di rispondere, bisogna ricordare due fenomeni. Il primo è la crescita del lavoro a tempo parziale, che crea posti con una dinamica maggiore di quella del tempo pieno, con l’effetto di redistribuire surrettiziamente e di emulare l’obiettivo di «lavorare meno per lavorare tutti». Al tempo stesso, come ha rilevato la Fondazione Europea di Dublino, si modificano le preferenze sulla durata del lavoro: il 47% dei part-timers e il 35% dei full-timers accetta il proprio orario; il 36% dei primi e il 5% dei secondi lo vorrebbe più lungo; il 17% dei primi e il 60% dei secondi lo vorrebbe più corto. I soddisfatti del tempo parziale sono quindi molti e prevalgono su chi chiede più ore; invece i soddisfatti del tempo pieno sono di meno e vengono superati di gran lunga da chi chiede meno ore.
Il secondo fenomeno è l’allungamento delle aspettative di vita, che si incrocia con la tendenza alla riduzione del tempo di lavoro. Non è facile, neppure nei Paesi più sviluppati, reggere e gestire l’opposto andamento di una durata del lavoro che cala e di una durata della vita che cresce. A meno di differire l’età del pensionamento, nel senso di prolungare la vita attiva. Gli incredibili successi della scienza e della tecnica in campo medico-sanitario hanno regalato all’umanità un’esistenza durante la quale si può anche lavorare meno ore all’anno; ma proprio per questo non si può lavorare anche meno anni.
Ecco gli effetti del work-and-spend cycle, la tendenza individuata già nel 1967 da John K. Galbraith a desiderare più beni di consumo e meno tempo libero. Ed è proprio questa tendenza, non la scarsa produttività europea, che minaccia di bloccare e addirittura di invertire il cammino storico della durata del lavoro. Quando si dice che gli Stati Uniti tirano lo sviluppo, bisognerebbe pertanto aggiungere che lo tirano da questa parte (dalla parte del credito al consumo, direbbe Jeremy Rifkin). Ma andare da questa parte comporta enormi costi, sia economici che sociali. Basta dire che, se gli americani volessero andare in pareggio a casa loro e sostenere i consumi senza indebitarsi ulteriormente con il resto del mondo, dovrebbero lavorare ancor più a lungo. Altro che tempo libero od «ozio creativo».
Si spera che i sapientoni sempre pronti a segnalarci i vantaggi della globalizzazione, e a indicarci quel che dobbiamo imparare dagli Usa, non ci suggeriscano adesso di inseguire l’American way of life anche negli orari di lavoro.