E’ nata in questi giorni l’ennesima versione del cosiddetto testo unico sul pubblico impiego. E’ un modo di procedere ben singolare quello del nostro legislatore, che innesta e reinnesta sul tronco di una riforma (il d.lgs 165/2001) nata in un preciso contesto e con ben definiti obiettivi, prima modifiche apparentemente parziali ma in realtà assolutamente stravolgenti (con la cosiddetta riforma “Brunetta”), e , oggi, ulteriori torsioni a metà tra il continuismo e la (mezza) svolta. In questo scenario così particolare e per certi aspetti estenuante, vede la luce un volume interessante e corposo, curato da due studiosi (Carlo Dell’Aringa e Beppe Della Rocca) che sono sicuramente tra i più autorevoli cultori della materia, e la cui competenza non solo teorica autorizza a sperare che leggendone le pagine si finisca per capirne(almeno) qualcosa di più. Già il titolo del libro (“Lavoro pubblico fuori dal Tunnel? ed. il Mulino) è enigmatico e intrigante. Di quale tunnel stiamo parlando? E chi ce l’ha infilato, dentro al tunnel, il lavoro pubblico? E cosa autorizza a ritenere che i bagliori che si intravedono là in fondo siano davvero le luci del varco d’uscita, e non l’ennesima illusione ottica?
Quale sia il tunnel non è difficile capirlo. Tutti i saggi contenuti nel libro fotografano una pubblica amministrazione e un lavoro pubblico in uno stato di sofferenza, con risorse calanti, invecchiamento non solo anagrafico, insufficiente attenzione ai problemi dell’efficienza e dell’efficacia, relazioni di lavoro congelate da troppo tempo e dirigenza insieme poco autonoma e con scarsa capacità d’iniziativa.
Sbaglierebbe però chi pensasse che l’ingresso nel tunnel sia cosa dell’altro ieri. A smentirli c’è il breve saggio di Guido Melis che racconta le ragioni storiche della debolezza della burocrazia pubblica, dalla formazione dello stato unitario in poi. Leggendo queste pagine si colgono i dati di fondo e le continuità, dalla formazione formalistico-amministrativa della nostra burocrazia,alla sua storica estraneità dai ceti più dinamici, ai “peccati” della politica, all’assenza in Italia di un “tessuto virtuoso, a livello associativo e di base,che in altri paesi costituisce l’esercito stesso del riformismo amministrativo e la sua base di massa”. Certo, su questo pregresso si è poi innestata la crisi, che ha reso il buio più fitto . Lorenzo Bordogna compie un’importante rassegna di ciò che è accaduto dalla seconda metà del decennio scorso in poi, rivelando alcuni dati di sicuro interesse. Se è vero, infatti, che la penalizzazione più recente del lavoro pubblico è diretta conseguenza delle modalità attraverso cui le classi dirigenti europee hanno ritenuto di fronteggiare la crisi, e la conseguente penalizzazione dei salari e degli organici è una tendenza riscontrabile in molti paesi europei, è però anche vero che questa tendenza non è stata affatto uniforme. I dati rivelano che a essere penalizzati non sono stati necessariamente i lavoratori dei paesi più in crisi o con amministrazioni pubbliche più inefficienti. La crisi è stata invece, in una serie di casi, tra cui certamente quello italiano, anche il pretesto per ridimensionare lo spazio pubblico, abbattere bruscamente una spesa considerata improduttiva e fare i conti con i sindacati che nel settore pubblico avevano mantenuto alcuni dei loro punti di forza. Si è giocata insomma anche nel settore pubblico un pezzo di quella “lotta di classe” che si è svolta in questi anni non solo in Europa, e di cui oggi scontiamo ( forse non principalmente, ma anche nel settore pubblico) le conseguenze. “La massa dei redditi dei dipendenti pubblici in Italia nel corso della recente fase di crisi- scrivono nel loro saggio De Novellis e Signorini- ha evidenziato un arretramento che non ha precedenti nella storia della nostra economia, e che si presenta come peculiare anche nel confronto internazionale, nonostante politiche di contenimento del costo del personale abbiano caratterizzato la maggior parte dei paesi”.
Il fatto è che, almeno in Italia, tutto questo ha posto la parola fine a un’esperienza riformatrice che, con tutti suoi limiti, era transitata in larga misura proprio attraverso la contrattazione collettiva. Sia perché la contrattazione aveva cominciato a introdurre, a partire dall’ultimo scorcio del secolo scorso, strumenti capaci, se utilizzati con proprietà, di accrescere la trasparenza, la motivazione, la produttività degli addetti e del sistema, sia perché, come ricordano Gasparrini e Mastrogiuseppe, “la mediazione sociale ed istituzionale che si realizza attraverso le relazioni sindacali, la ricerca del necessario consenso sulle decisioni datoriali sono “imperativi funzionali” delle organizzazioni. Il divieto per legge non fa venire meno l’esigenza”. Occorre essere consapevoli però del fatto che, come scrive con la chiarezza un po’ brutale dell’economista di razza Carlo Dell’Aringa, il problema, almeno a partire dalla crisi, non è più tanto quello dell’efficienza, ma quello di spendere il meno possibile: di convincere , dunque, la gente del pubblico impiego a lavorare con impegno ma “con ritocchi anche importanti nella modalità di definire i compensi” (ritocchi… beh, è un eufemismo).
Come fare? Qui si scatena la fantasia dei seguaci del new public management, alla ricerca di meccanismi di valutazione, capaci di collegare la retribuzione ai risultati .
Qui però comincia anche un percorso difficile. Innanzitutto perché non è affatto certo che creare un nesso troppo stretto tra il salario e la performance, soprattutto se la strada prescelta è quella della valutazione individuale, secondo il mantra finora prevalente, sia efficace per spronare i lavoratori a dare l’anima sul posto di lavoro. Partendo da un’ esperienza concreta, quella dell’Agenzia delle Entrate, G.Pastorello analizza le criticità della valutazione della performance individuale, dalla difficoltà che il valutatore può incontrare a causa della complessità della struttura organizzativa, ai costi di comparazione che nascono dalla tendenza a sopravvalutare la qualità del proprio lavoro e a produrre un calo dell’impegno di fronte a giudizi che si ritengono iniqui. Per dedurne che “ l’obiettivo del rafforzamento della motivazione al lavoro attraverso l’estensione generalizzata della valutazione individuale formale si rivela illusorio ed è destinato a creare, proprio in tema di motivazione lavorativa, assai più problemi di quanti ne risolva”. A questo bisogna aggiungere che nelle esperienze italiane più recenti la strada della valutazione individuale sembra essere stata impostata in modo talmente dilettantesco da provocare effetti boomerang capaci di determinare conseguenze imprevedibili: l’esempio più clamoroso è nel settore della scuola, dove la pretesa di premiare il “merito” degli insegnanti attraverso meccanismi che è eufemistico definire approssimativi ha provocato malumori che si sono proiettati fino all’ambito delle scelte politico-elettorali. Ma accanto a questi problemi d’impostazione, magari in parte risolubili agganciando il salario variabile a performance non individuali ma collettive, il problema è rappresentato dalla scarsità delle risorse impiegate a questo scopo, e la fisiologica tendenza (presente peraltro anche nel “privato” ) a trasformarle in salario fisso, tanto più quando l’entità di questo è in netto calo, come adesso.
Non è questa, insomma, la strada che porta fuori dal tunnel: che è invece, come quasi tutti i saggi contenuti nel volume suggeriscono, quella di una serie concordata e ininterrotta di sforzi di miglioramento, dalla semplificazione normativa, alla selezione e formazione della dirigenza, alla capacità della politica di mantenere un corretto e non invasivo rapporto con la gestione. E, probabilmente, anche in un decentramento del sistema contrattuale pubblico che, come suggerisce Dell’Aringa, sposti in parte il baricentro contrattuale in periferia, responsabilizzando gli attori e scommettendo sulla loro capacità di autoregolarsi. Peccato che la riforma che ha appena visto la luce – che pure costituisce un passo avanti rispetto alle chiusure precedenti – riveli, su questo, le incertezze che ancora gravano sulle relazioni sindacali nel settore pubblico: è auspicabile che la prossima stagione contrattuale possa almeno in parte rimuoverle.
Mario Ricciardi