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Il Diario del Lavoro

Quotidiano online del lavoro e delle relazioni industriali

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Home - Approfondimenti - Analisi - L’azionariato dei dipendenti nelle fusioni societarie

L’azionariato dei dipendenti nelle fusioni societarie

20 Luglio 2010
in Analisi

di Giuseppe Farina, segretario generale Fim Cisl

 

Un accordo nel segno della responsabilità sindacale

Le persone attente ai cambiamenti nelle relazioni industriali hanno subito colto la portata storica dell’accordo tra il sindacato americano United Auto Workers (UAW) e FIAT-Chrysler. Non solo per il prestigio internazionale derivante all’azienda del Lingotto, chiamata dal presidente Obama a ridare speranza alla crisi di Detroit e a ridisegnare la geografia globale dell’industria dell’auto, ma perché nel cuore del capitalismo i lavoratori – per salvare l’occupazione – hanno assunto il 55 per cento delle azioni entrando nella governance dell’impresa. 
In realtà l’accordo firmato era una strada obbligata per tutti. La Chrysler, sommersa dai debiti (8 miliardi di dollari il deficit di gestione solo del 2008), ha dovuto cedere buona parte del capitale al sindacato UAW come forma di pagamento per gli oltre dieci miliardi di dollari di debito accumulato nei confronti dei propri dipendenti, alle voci “assistenza sanitaria e trattamento pensionistico”. Il sindacato e i lavoratori hanno dovuto rinunciare a una parte del welfare (che in USA non è garantito dallo Stato, ma dagli accordi aziendali) per allontanare lo spettro del fallimento e la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro. 
Uno scenario insolito per il sistema di relazioni sindacali in Italia. Un’esperienza, quella dell’accordo FIAT-Chrysler non facilmente replicabile. Nonostante ciò, con questo accordo si è tornati a parlare, in Italia, di forme di partecipazione dei lavoratori alla governance dell’impresa. Dalle forme minime di partecipazione, già regolate dai contratti nazionali e/o dalle direttive europee sui diritti d’informazione e consultazione, a quelle più impegnative del coinvolgimento dei rappresentanti sindacali negli organismi di gestione o controllo aziendale, nonché alle forme di azionariato dei lavoratori e la loro partecipazione diretta o per mezzo di fondi gestori. 
La partecipazione e la responsabilità sono stati i temi posti al centro del Congresso della CISL e si è sostenuto che l’affermarsi della partecipazione anche azionaria dei lavoratori ai destini dell’impresa è uno dei fondamenti di un nuovo equilibrio tra capitale e lavoro. Non solo quindi partecipazione alla produttività e agli utili ma anche alla distribuzione dei dividendi azionari e alle decisioni, all’indirizzo e al controllo della gestione delle scelte dell’impresa. 
Da parte del mondo imprenditoriale le reazioni sono di diverso segno, anche se da parte del vertice di Confindustria si assiste, per la prima volta dopo anni, a una disponibilità a discutere di democrazia economica e nel Contratto nazionale metalmeccanico siglato nell’ottobre 2009 è prevista una commissione di studio congiunta con Federmeccanica sui temi della partecipazione. Le imprese italiane non ne avevano mai voluto sapere, fino a quando Emma Marcegaglia, ospite del congresso CISL, dice di non avere “alcuna preclusione”, purché sia “su base volontaria, a partire da una scelta delle parti. […]Se si fa questa scelta il livello di conflittualità deve (però) scendere”. In pratica si prospetta, tra i sindacati dei lavoratori (in particolare la CISL) e settori più aperti del capitalismo italiano, una possibile convergenza sul binomio “più partecipazione, meno conflitto”. 
In questo senso l’accordo raggiunto dal sindacato americano dell’auto con la FIAT-Chrysler, indica una nuova strada di collaborazione tra tutti i protagonisti dell’impresa che supera le tradizionali contrapposizioni capitale-lavoro. Soprattutto si è dimostrato che esistono forme di dialogo che vanno oltre il conflitto e che fantasia e coraggio sono la chiave di uscita dalla crisi economico-finanziaria delle imprese, ridisegnando non solo il profilo dell’industria in sintonia con l’eco-sistema (la green economy), ma anche le relazioni tra proprietà-management-lavoratori. È la fantasia e il coraggio che fino a oggi sono mancate alle nostre relazioni industriali. 
Nello stesso Gruppo FIAT, nonostante la leadership di un manager intelligente come Sergio Marchionne e le profonde innovazioni che hanno interessato le politiche di mercato, la tecnologia e i processi produttivi e migliorato l’immagine del Gruppo, il sistema di relazioni sindacali e la qualità dei rapporti di lavoro sono rimaste conformisticamente le stesse degli anni ’80 / ’90. 
Ben venga quindi un’esperienza come quella di FIAT-Chrysler che, anche se è ancora presto per giudicarla, ha avuto se non altro il pregio di far uscire in Italia il dibattito sulla democrazia economica dall’alveo degli specialisti per condividerlo con il resto dell’opinione pubblica, creando del terreno fertile necessario a una cultura partecipativa delle relazioni industriali. 
Può valere la pena, quindi, analizzare in modo più approfondito la natura di questo accordo “di partecipazione” per coglierne appieno i risultati, ma anche i limiti. E’ bene non dimenticare che questo accordo non è un’eccezione nel quadro delle relazioni industriali che hanno caratterizzato la crisi dell’auto negli Usa e gli ingenti aiuti di Stato al settore. 
Nella co-gestione della crisi delle tre big companies americane del settore auto – General Motors (GM), Ford e Chrysler – è stato decisivo il ruolo assunto dai sindacati, da quello americano (UAW) e da quello canadese (CAW). I sindacati dell’auto hanno garantito, da un lato, rilevanti riduzioni del costo del lavoro (con rinuncia a benefit, agevolazioni di assistenza sanitaria, ferie, ecc.) e, dall’altro, consistenti aumenti di produttività.
E’ in questo quadro che, nel corso del 2009 negli Usa, il sindacato United Auto Workers è diventato il principale azionista delle tre case automobilistiche di Detroit. L’UAW possiede, infatti, il 55 per cento delle azioni di Chrysler, il 39 per cento di quelle di General Motors e una quota rilevante di Ford, perché ha accettato che le tre società paghino con azioni il debito contratto per il pagamento della propria quota al VEBA (Voluntary Employees’ Beneficiary Association), il fondo per la previdenza e l’assistenza sanitaria di dipendenti e pensionati, gestito dal sindacato. 
Tutte le azioni detenute dai lavoratori di Chrysler, General Motors e Ford sono, dunque, affidate al VEBA. E’ un rappresentante del VEBA, quindi, che siede nel Consiglio di Amministrazione della Chrysler composto in tutto da nove membri. Gli altri sono tre di nomina FIAT, uno in rappresentanza del Governo canadese, quattro designati dal Tesoro Usa. Come si può vedere, nonostante la partecipazione maggioritaria al capitale di Chrysler, il sindacato (attraverso VEBA) ha solo un posto nel Consiglio di Amministrazione, mentre FIAT, con il 20 per cento delle azioni, ha ben tre membri. E’ evidente che si sono usati consapevolmente, nell’attribuzione dei posti nel CdA, due pesi e due misure. I lavoratori – se pur azionisti di maggioranza – hanno un solo rappresentante nel CdA e sono tenuti lontani dalla gestione. Ci troviamo, quindi, di fronte a una forma alquanto “asimmetrica” di democrazia economica.

Un accordo che porta acqua al mulino della “democrazia economica”.

E’ indubbio che il ruolo assunto dai sindacati nell’accordo con FIAT-Chrysler è stato decisivo e ha richiamato l’attenzione di chi si occupa di relazioni industriali. Non si può negare che esso offra materia per ridare un po’ di fiato al discorso sulla partecipazione dei lavoratori e, più ampiamente, sulla democrazia economica. Questione storicamente irrisolta che, nella fase dominata dal neoliberismo (e dal “mercatismo”) era caduta nel dimenticatoio delle idee. 
C’è chi, come Massimo Mucchetti dal Corriere della Sera, ha voluto vedere nella soluzione incontrata per la Chrysler “il modello Volkswagen, dove lo Stato partecipa assieme ai rappresentanti dei lavoratori e del capitale privato al consiglio di sorveglianza che nomina i manager”. Ma in realtà è improprio sostenere che a Detroit si stia trapiantando il modello del “capitalismo renano”, parecchio lontano dalla cultura di tutti gli attori protagonisti delle relazioni industriali in USA e Canada. Il sistema di co-gestione tedesco è nato dopo il secondo conflitto mondiale per aiutare la ricostruzione del Paese dopo la tragica esperienza del nazionalsocialismo e della guerra. In una economia fortemente statalizzata si è affermato in Germania il principio della eguale legittimazione tra capitale e lavoro nella gestione delle imprese (Gleichberechtigung). 
Il sistema di co-gestione tedesco si articola, infatti, sia a livello delle relazioni industriali in azienda sia a livello di governance dell’impresa. Nel primo opera il consiglio di rappresentanza dei lavoratori con diritti e poteri di co-decisione e perfino di veto; mentre nel secondo, e solo nelle imprese più grandi, è prevista una partecipazione paritaria (o minoritaria) nei Consigli di Sorveglianza di rappresentanti direttamente prescelti dai lavoratori e/o indicati dai sindacati. 
Viceversa l’ipotesi partecipativa delineata nell’accordo FIAT-Chrysler “nasce dalla realtà dei fatti e viene concordata per portare in porto un’operazione altrimenti impraticabile: essa si correla quindi ad un’esigenza pragmatica, e non ad affermazioni ideologiche, che dovrebbero poi trovare riconoscimento in una apposita legislazione” che non mi sembra sia nelle intenzioni del Governo americano. Una scelta quindi di partecipazione dei lavoratori e dei sindacati americani più per condizione che per convinzione.

Gli antefatti e i contenuti dell’accordo

Per ricevere altri aiuti di Stato, che evitassero il fallimento di GM e Chrysler e sostenessero il settore dell’auto, i sindacati americani e canadesi, nel febbraio del 2009 hanno raggiunto un accordo preliminare con GM, Chrysler e Ford con l’impegno ad alcune limitazioni e deroghe a quanto pattuito con l’Accordo Collettivo Nazionale del 2007.
Nel caso di Chrysler erano in ballo altri 6 miliardi di dollari di aiuti da parte dell’amministrazione Obama, dopo i 4 miliardi ricevuti il 19 dicembre 2008 dalla precedente amministrazione americana. La Chrysler, nonostante che nel biennio 2007-2008 avesse cancellato 32 mila posti di lavoro, aveva accumulato nella gestione aprile 2008 – marzo 2009 oltre 8 miliardi di dollari di perdite. In queste condizioni e con una previsione di bilancio per l’anno in corso ancora peggiore, la bancarotta della Corporate era inevitabile.
Il piano di salvataggio, predisposto dalla task force sull’auto del dipartimento americano del Tesoro, poneva come condizione che tutti gli stakeholders (lavoratori, pensionati, fornitori ecc.) della Chrysler facessero delle concessioni per salvare l’azienda, la cui continuità futura era, quindi, legata a un accordo con i sindacati. Senza accordo sarebbe saltato il mega-prestito. Del resto il presidente degli Stati Uniti Barack Hussein Obama, aveva parlato chiaro, senza nascondere nulla: 
”La situazione alla Chrysler è ancora più impegnativa. Nonostante una profonda riluttanza, dopo un attento esame, un’intelligente ricognizione dei fatti ci ha fatto decidere che a Chrysler occorra un partner, per rimanere vitale. Recentemente Chrysler si è guardata intorno e ha trovato quel che potrebbe essere un potenziale partner – la compagnia automobilistica internazionale FIAT, dove l’attuale management ha realizzato una impressionante inversione di tendenza. FIAT è pronta a trasferire la sua tecnologia di avanguardia a Chrysler e, dopo avere lavorato a stretto contatto con la mia squadra, si è impegnata a produrre – fabbricando nuove automobili e nuovi motori, efficienti dal punto di vista dei consumi, proprio qui negli Stati uniti. Noi abbiamo anche fissato un accordo tale da garantire che Chrysler ripaghi i contribuenti per ogni nuovo investimento fatto prima che FIAT sia autorizzata ad assumere una maggioranza della proprietà azionaria in Chrysler. Inoltre, tale patto richiederebbe un investimento addizionale di dollari dei contribuenti, e vi sono numerosi ostacoli da superare perché funzioni. Mi sono impegnato a fare tutto il possibile per vedere se un patto possa funzionare in un modo compatibile con gli interessi dei contribuenti americani. Ed è per questo che daremo 30 giorni a Chrysler e FIAT per superare tali ostacoli e pervenire a un accordo finale – e noi provvederemo Chrysler di un capitale adeguato per continuare a operare nel corso del periodo. Se esse sono capaci di raggiungere un solido patto che protegga i contribuenti americani, noi prenderemo in considerazione un prestito di 6 miliardi di dollari per contribuire alla riuscita del loro piano. Ma se esse e l’insieme degli stakeholder non sono in grado di raggiungere un tale accordo, e in assenza di qualsivoglia altro vitale collegamento, non avremo più la possibilità di giustificare l’investimento di altri dollari provenienti dalle tasse per mantenere Chrysler in affari. (…) Se esse (FIAT e Chrysler) sono capaci di raggiungere un solido patto che protegga i contribuenti americani, noi prenderemo in considerazione un prestito di 6 miliardi di dollari (pari a 3,6 miliardi di euro) per contribuire alla riuscita del loro piano. (…) Ma se esse e gli stakeholder non sono in grado di raggiungere un tale accordo (…) la conseguenza è inevitabilmente il fallimento della casa di Detroit. 
Il 27 aprile 2009 è raggiunto l’accordo tra sindacati (UAW e CAW) e FIAT-Chrysler, che nei giorni successivi è approvato dai lavoratori. Prevale la consapevolezza che i sacrifici richiesti, se pur dolorosi, sono stati la condizione per mantenere i posti di lavoro (53 mila occupati, in prevalenza negli Stati Uniti), i salari, i piani sanitari e previdenziali per lavoratori e pensionati. 
Tra le concessioni per il contenimento dei costi, l’accordo prevede alcuni interventi in materia di orari e trattamenti economici: 
- computo delle maggiorazioni di straordinario solo dopo la quarantesima ora; 
- rinuncia, negli anni 2010 e 2011, alla festività successiva al giorno di Pasqua; 
- riduzione dei minuti di pausa al giorno da 46 a 40; 
- sospensione del pagamento dei bonus legati alla performance e quelli natalizi previsti nel 2009 e 2010; 
- uso più estensivo del part-time; 
- limitazioni dei periodi di integrazione salariale (50 per cento) in caso di disoccupazione temporanea; 
- uso di 2 settimane di ferie per periodi di chiusura decisi dall’azienda;
- riduzione del numero dei rappresentanti dei lavoratori eletti. 
L’accordo, inoltre, prevede una razionalizzazione del sistema di classificazione e un coinvolgimento dei sindacati nell’implementazione del nuovo sistema di organizzazione del lavoro, che integrerà il FIAT’s World Class Manufacturing con il Chrysler Workplace Organization Model. La Chrysler, per confermare l’impegno reciproco ai sacrifici finalizzati al recupero dell’azienda, fornirà trimestralmente informazioni ai sindacati sul contributo dei dirigenti, manager, concessionari e fornitori; coinvolgerà in anticipo i sindacati su alcune decisioni concernenti i prodotti, i programmi produttivi e le relazioni con la catena dei fornitori, favorendo il dialogo sociale tra le parti. In questa prospettiva è stata firmata una clausola che impegna i sindacati a non avanzare rivendicazioni o proclamare scioperi fino al 2015. 
A fronte di questo accordo il Governo federale americano – come promesso – ha prestato alla Chrysler 6 miliardi di dollari, cui si sono aggiunti altri 2,5 miliardi di dollari concessi dal Governo canadese. “Di fronte alle avversità abbiamo assicurato il futuro produttivo e abbiamo negoziato nuove opportunità per il coinvolgimento del sindacato nelle decisioni imprenditoriali future”, scrive il vicepresidente dell’UAW nel messaggio inviato ai lavoratori iscritti. 
In effetti, inaspettatamente, i lavoratori con l’accordo si sono trovati a essere i “padroni” della Chrysler, con il 55 per cento delle azioni della società, attraverso il fondo VEBA che gestisce le prestazioni sanitarie e previdenziali dei dipendenti e pensionati del Gruppo di Detroit. La FIAT è entrata con il 20 per cento, che salirà al 35 per cento, mentre il restante 8 per cento è in mano al Governo americano e il 2 per cento a quello canadese. In cambio delle concessioni sul piano normativo e contrattuale la Chrysler ha pagato 4.587 milioni di dollari al fondo VEBA, di cui la metà in azioni, che il sindacato utilizzerà da subito per assumere i costi delle prestazioni sanitarie per i lavoratori pensionati. Inoltre, l’azienda verserà al fondo VEBA 300 milioni di dollari in denaro nel 2010 e 2011, 400 milioni nel 2012 e 600 nel 2013, 650 milioni per anno dal 2014 al 2018, fino a 823 milioni di dollari per anno dal 2019 al 2023. Il VEBA indicherà, con il consenso del sindacato UAW, un rappresentante nel CdA e, in futuro, potrà vendere tutte o in parte le azioni possedute. 
Il Presidente di UAW, Ron Gettelfinger, in effetti, ha già dichiarato che le azioni detenute dal sindacato saranno vendute il più presto possibile per finanziare le ingenti spese che deve sostenere il VEBA per l’assistenza sanitaria e pensionistica. Il sindacato UAW ha, infatti, già manifestato l’intenzione di vendere in futuro la quota di controllo del 55 per cento di azioni alla Chrysler, gestite attraverso un trust indipendente, per ottenere liquidità e diversificare il rischio nell’interesse dei pensionati presenti e futuri. 
La FIAT potrà assumere il controllo dell’impresa con il 51 per cento di azioni dal 2016, avendo restituito nel frattempo tutto il prestito avuto dai due governi. L’acquisizione del primo 20 per cento non ha comportato alcuna spesa da parte della FIAT, che paga la sua partecipazione trasferendo alla Chrysler tecnologie motoristiche a bassa emissione e sistemi di trasmissione automatica. La Chrysler userà la rete di vendita FIAT nei paesi dell’area NAFTA e la FIAT quella della Chrysler negli USA. 
E’ stato, anche, concordato che almeno un’auto piccola sarà prodotta in una fabbrica Chrysler negli Usa (o in Messico) e l’utilizzo di motori della casa automobilistica americana. Infine la nuova azienda denominata Chrysler Group LLC commercializzerà alcuni modelli FIAT nei mercati nordamericani, come la FIAT 500. L’investimento complessivo previsto dall’accordo è di 8 miliardi di dollari, che assicurerà la creazione di 4 mila nuovi occupati “sindacalizzati” negli Usa. Il piano industriale per il rilancio di Chrysler sarà messo a punto entro l’autunno del 2009. 
I debiti dell’impresa sono rimasti nella vecchia Chrysler, che è stata messa in liquidazione sotto la supervisione del tribunale fallimentare di New York.

La discussione in Italia sulle prospettive aperte dall’accordo

Francesco Vella dal sito on line “La Voce” ha cercato di smorzare gli entusiasmi di quanti, in particolare nei sindacati, hanno visto aprirsi con quest’accordo nuove prospettive di partecipazione diretta al capitale e al governo delle imprese. Nella nuova FIAT-Chrysler i lavoratori, aprendo la strada al salvataggio dell’impresa, hanno la quota di maggioranza del pacchetto azionario e un loro rappresentante siede nel Consiglio di Amministrazione. 
E’ innegabile che “la partecipazione torna puntualmente di moda come una delle possibili alternative per favorire ipotesi di risanamento e salvaguardare posti di lavoro”. Ma nel caso specifico della partecipazione finanziaria nel capitale azionario, una considerazione è d’obbligo: “… le azioni risentono delle oscillazioni di mercato e la concentrazione di questi investimenti in una unica società espone a un rischio oggettivamente alto: bisogna avere spalle adeguatamente solide per sopportarlo; proprio l’esperienza di alcuni fondi aziendali statunitensi coinvolti in clamorosi e dolorosi default lo testimonia. E anche stare in un consiglio di amministrazione vuol dire assumere scelte gestionali con i conseguenti rischi e responsabilità …”. 
Secondo Vella l’interesse dei lavoratori non è tanto co-gestire, quanto avere a disposizione strumenti per conoscere e monitorare le strategie societarie e per rafforzare le loro tutele. Prevale in questa impostazione una visione della “democrazia economica” che assume i principi della “Corporate Social Responsibility”, dove “ogni attore deve fare il suo mestiere. E quello dei lavoratori […], non è l’azionista, ma lo stakeholder. In altri termini, se possono esserci situazioni eccezionali e temporanee per consentire delicati passaggi aziendali, queste devono collocarsi in limiti rigorosi, evitando un coinvolgimento proprietario e una confusione di ruoli inevitabilmente destinata ad alimentare logiche distorsive…”. 
Il “Financial Times” sembra fargli eco enfatizzando in un articolo come la decisione di FIAT di portare verso il Messico la produzione di Chrysler può costituire “un importante test su come la proprietà sindacale possa condizionare la strategia della casa automobilistica…. La UAW, che fece pressioni su GM perché costruisse le small car negli Usa anziché in Cina, rimane vistosamente in silenzio sui piani di Chrysler. Come azionista di maggioranza, si trova ad affrontare un grave conflitto d’interessi.” 
Vella sostiene la via della consultazione e dell’informazione, già prevista nel nostro sistema contrattuale e rafforzate dal sistema di relazioni industriali a livello europeo, a cominciare dalle imprese transnazionali attraverso i CAE (Comitati Aziendali Europei). L’evoluzione “naturale” di questa esperienza è il sistema dualistico con la presenza dei rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza, come già avviene in Germania e in altri paesi europei. Bisognerebbe però, secondo Vella, “evitare ogni forma di obbligatorietà, imponendo un vestito anche a chi non lo vuole indossare, e trovare invece strumenti partecipativi che si adeguino alle esigenze delle imprese”. 
Nella discussione sui futuri assetti delle relazioni industriali sono quindi emerse nell’ultimo anno ipotesi e proposte di nuovi interventi legislativi per incentivare la partecipazione dei lavoratori alle imprese e la diffusione di strumenti di democrazia economica all’interno della governance societaria. Non tutte sono ipotesi originali, esistendo soprattutto in Europa una lunga tradizione di studi e rapporti che sollecitano gli Stati membri a intervenire sulla materia. 
Nel Vecchio Continente, sono trenta milioni i lavoratori che possiedono azioni di un’impresa. Secondo il Rapporto 2008 sull’azionariato dei dipendenti – appena presentato a Bruxelles dall’EFES (European Federation of Employee Share Ownership) – il valore delle azioni possedute dai lavoratori è calato in Europa, per effetto della recessione, dai 283,3 miliardi di euro del 2007 ai 240,2 del 2008. EFES ritiene, però, che nei prossimi cinque-dieci anni il totale del capitale azionario posseduto dai lavoratori – oggi pari a livello europeo al 2,63 per cento – salirà al 4-5per cento. Sono due i motivi che porteranno, secondo Efes, a tale incremento: la ricerca di un maggiore coinvolgimento dei dipendenti da parte delle imprese e la discesa del mercato azionario, che renderà più facile per un lavoratore l’acquisto di titoli aziendali.

La partecipazione in Italia

Se dobbiamo trarre una lezione come sindacati italiani dall’accordo firmato dai sindacati dell’auto di Canada e Stati Uniti, è che gli operai, i tecnici e i white collars della Chrysler – approvando l’intesa – hanno accettato sacrifici contrattuali sul piano normativo e sul welfare, scommettendo sul loro lavoro e sulla loro professionalità. Non possiamo tralasciare il contesto nel quale l’accordo è stato negoziato e firmato: la più devastante crisi economica dopo il ’29 e lo stato pre-fallimentare di Chrysler.
Va posto l’accento sul fatto che, in questo contesto, il coraggio dei leader sindacali di UAW e CAW è consistito soprattutto nell’essersi assunti il peso principale della transizione tra la vecchia e la nuova proprietà. E’ un impegno a termine, dal quale i sindacati dell’auto usciranno più forti e responsabili di come ci siano entrati. Sul management della FIAT pesa ora la responsabilità non solo di trasformare e rilanciare la Chrysler nel mercato dell’auto facendo profitti e ripagando gli ingenti aiuti di Stato ricevuti, ma anche quella della tenuta e della tutela dell’intero sistema di protezione sociale per i lavoratori in attività e per quelli in pensione. 
Il ruolo positivo e responsabile giocato dai sindacati e dai lavoratori per salvare l’azienda, accettando i sacrifici in cambio del controllo azionario, ha avuto il merito di riaprire in Italia il dibattito “asfittico” sul tema della partecipazione dei lavoratori nella vita delle imprese. Ma non dobbiamo farci molte illusioni sulla effettiva volontà di imprenditori, manager e mercati finanziari di approdare a forme reali di democrazia economica. Se ci fossero dubbi, il “Financial Times” del 30 aprile 2009, nel commentare i contenuti dell’accordo tra sindacati e FIAT-Chrysler, ha subito chiosato: “La prospettiva di avere dei dirigenti sindacali nel consiglio di amministrazione ha fatto rabbrividire gli azionisti”. 
In un dibattito di Rai Uno su “Operai, partecipazione agli utili e governo dell’impresa”, al quale ho partecipato insieme al professor Alberto Quadrio Curzio, il dottor Guido Alberto Guidi, esponente di punta della Confindustria, ha liquidato qualsiasi prospettiva di democrazia economica, dichiarando senza mezzi termini che troverebbe “bizzarro che si ripropongano ipotesi trite e ritrite sulla partecipazione”. Temo che le opinioni del dottor Guidi siano molto rappresentative dell’imprenditoria italiana. 
Per la FIM-CISL la partecipazione dei lavoratori ha un senso se insieme – imprese e lavoratori – decidono che lo stato di salute delle aziende è un interesse comune, che va salvaguardato e valorizzato. Per farlo bisogna condividere gli obiettivi, partecipare alla gestione e al raggiungimento dei risultati. C’è, quindi, un processo virtuoso da attivare, i cui benefici devono essere equamente ripartiti (non solo i sacrifici). 
In Italia non si è mai giunti a risultati concreti sulla partecipazione ma forse lo scenario è cambiato e offre occasioni da non perdere. Le poche esperienze di partecipazione azionaria dei lavoratori, o sono avvenute come nel caso della FIAT-Chrysler per una esigenza di salvataggio e rilancio dell’impresa, come nella positiva esperienza della Metalcom, sostenuta fortemente dalla FIM, che non solo ha permesso il rilancio dell’azienda, ma ha fatto guadagnare soldi ai lavoratori che su di essa e sul suo rilancio avevano investito il proprio TFR, oppure come è accaduto in Finmeccanica, operazioni di aumento di capitale delle aziende, nelle quali viene offerta ai dipendenti lavoratori la possibilità di parteciparvi con soluzioni agevolate. Ma in entrambi i casi la partecipazione azionaria dei dipendenti / lavoratori non ha prodotto di per sé migliori relazioni sindacali e non ha aumentato il grado di partecipazione dei lavoratori alle scelte dell’impresa. Per i limiti della legge, che ancora oggi impedisce la raccolta collettiva delle azioni dei dipendenti azionisti, e una loro rappresentanza negli organismi di gestione e controllo della società, ma anche e forse soprattutto per un deficit di cultura partecipativa delle imprese e dello stesso sindacato. Abbiamo realizzato nel Gruppo Electrolux un’altra importante esperienza partecipativa. Non era costruita sulla partecipazione azionaria ma era centrata sulla condivisione e sul coinvolgimento nella gestione delle scelte dell’impresa, del sindacato e dei lavoratori. Si è costruito un testo unico di partecipazione che istituiva organismi e procedure per promuovere il maggior coinvolgimento dei lavoratori alla vita dell’azienda. 
Per qualche anno ha funzionato. E’ poi andato in crisi, soprattutto tra i lavoratori. 
Una bella architettura partecipativa, a cui sono progressivamente venuti meno soggetti principali della partecipazione, i lavoratori: il motivo è semplice, i lavoratori non riuscivano ad apprezzare i miglioramenti sulle loro condizioni da lavoro. Questo è il tema centrale su cui dobbiamo concentrare la nostra attenzione. La partecipazione anche azionaria ha bisogno che realizzi due condizioni senza le quali non potrà funzionare. La prima: la condivisione degli obiettivi d’impresa e la possibilità di controllare attraverso organismi partecipativi dotati di poteri, la gestione delle scelte. La seconda condizione è che i lavoratori delle aziende partecipative debbono poter apprezzare i vantaggi del sistema partecipativo. In una azienda partecipativa, per intenderci, ci debbono essere meno infortuni e migliori condizioni di lavoro, maggiori opportunità per le persone che lavorano, una migliore qualità delle relazioni interne e migliori trattamenti. Solo a fronte di ciò, i lavoratori saranno disponibili a investire di più sul loro lavoro e anche i propri risparmi nella loro azienda. Una partecipazione quindi per convinzione e perché conviene, più che per condizione, in cui gioca un ruolo fondamentale la fiducia nell’imprenditore e nell’impresa e la voglia di protagonismo dei sindacati e dei lavoratori. Se vogliamo davvero cambiare il segno delle relazioni sindacali nel nostro Paese e favorire una maggiore partecipazione dei lavoratori dobbiamo superare l’idea che questa la si affermi solo nell’emergenza e nella disperazione come nel caso FIAT-Chrysler. E l’esperienza storica dimostra proprio questo. Si parla di partecipazione e di quella azionaria in particolare solo nelle fasi di accentuata crisi finanziaria, di depressioni economiche,di rischi da impoverimento o di ricostruzione post-belliche, come nel caso della Germania. La vera sfida partecipativa è nell’affermare che le imprese che fanno partecipazione hanno più possibilità di successo sui mercati e maggiori risultati e i lavoratori migliori condizioni e soddisfazione nell’impresa. D’altronde il lavoratore ha già il proprio rischio di impresa con la quota di salario variabile della sua retribuzione; se aggiunge a questa una parte dei propri risparmi il suo rischio personale nell’impresa aumenta, e a buon diritto può e deve pretendere di controllare che il management e l’imprenditore non commettano errori e il miglioramento della propria condizione di lavoratore. E’ difficile sostenere che chi rischia lavoro, reddito e una parte dei propri risparmi nella propria azienda non abbia al pari, e forse più dell’imprenditore assunto fino in fondo il rischio di impresa.

Considerazioni finali

Nella nostra società globale, alla crescita geometrica delle disuguaglianze sociali si accompagna un preoccupante deficit di democrazia politica ed economica. Per questo motivo come sindacati non possiamo più permetterci che, passato il momento peggiore della crisi finanziaria, dopo aver ridistribuito tra tutti le perdite e gli svantaggi degli istituti bancari, all’insegna del motto “siamo tutti sulla stessa barca”, si riscopra che la barca bisogna saperla condurre e che a ciò sono deputati solo banchieri, capitalisti, imprenditori e manager. E’ troppo comodo pretendere che insieme ci si lecchino le ferite e fuori dall’emergenza si ritorni alle “divisioni di classe” proprie del Novecento, rinviando a un’altra occasione qualsiasi discorso di partecipazione dei lavoratori ai frutti del loro lavoro.

 

 

Tags: AziendeAutoCisl
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