di Giacomo Berni – Segretario generale Filcem-Cgil
In Europa si è aperto da questa estate un dibattito sul modo di fronteggiare la competizione globale e i rischi di perdite occupazionali e di delocalizzazioni. Una ricetta emerge con forza su tutte, sostenuta soprattutto dalle associazioni industriali tedesche e francesi: orari più lunghi, salari più bassi. Tema complesso, questo, e molto spinoso, perché attiene in un certo qual modo alla “polemica” fra diritti acquisiti e diritti conquistati con la contrattazione e per i quali, a livello contrattuale, le parti sociali possono valutare di volta in volta le rispettive convenienze a mantenerli o eliminarli.
Lavorare di più e guadagnare di meno, non è solo una soluzione tutto sommato rozza, ma – rivolta a chi lavora in un’azienda – fa intravedere un odioso ricatto: se non si accetta, si chiude. Non si tratta certo di una grande novità, né mi sembra utile a battere la concorrenza, ma il rischio è che l’eventuale “contratto a perdere” – come lo definisce Tiziano Treu – diventi la sola regola per competere. Già in passato abbiamo respinto analoghi ricatti quando si volevano far pagare in termini di posti di lavoro la sicurezza e salute e la tutela ambientale. I risultati di quella stagione sono sotto gli occhi di tutti: produzioni chiuse, disastri ambientali e perdita di occupazione anche qualificata. Voglio riaffermare, insomma, che di fronte alle sfide del mercato globale, le soluzioni che inseguono semplicemente la riduzione dei costi hanno il fiato corto e soprattutto presentano il conto solo ai lavoratori: molto spesso un conto inaccettabile.
Non a caso in tutti i luoghi di lavoro ed in tutti i confronti sindacali noi poniamo in primo piano la richiesta di conoscere e discutere i piani industriali per capire la reale direzione di marcia dell’impresa, come vuole posizionarsi sul mercato, se intende “campare di rendita” oppure innovarsi per crescere. Tutti i diritti di informazione contenuti nella prima parte dei nostri contratti nazionali affrontano questi temi, rafforzati da accordi aziendali, soprattutto con i grandi gruppi industriali. Il sindacato italiano non solo non ha mai negato il tema dell’efficienza e della produttività, tanto nell’industria che nella pubblica amministrazione, ma addirittura ne ha fatto un elemento rivendicativo della propria azione negoziale nei confronti di Governi, imprese e loro associazioni. Quando abbiamo denunciato il declino del Paese o l’inefficienza della pubblica amministrazione, indicando sempre ciò che si doveva fare per superare declino e inefficienza, abbiamo posto il tema della qualità e della competitività al centro della nostra azione rivendicativa.
Il punto è che, per noi, questi obiettivi si possono raggiungere se si agisce sulla qualità del vivere civile, sull’ampliamento dei diritti, sull’aumento della formazione, della spesa per ricerca e sviluppo: in una parola, sulla cultura e la conoscenza. Ecco perché non abbiamo mai condiviso le scorciatoie a senso unico che addebitavano agli eccessivi vincoli contrattuali o al costo del lavoro la perdita di competitività del made in Italy. Basta infatti scorrere i contratti nazionali oppure i tanti accordi aziendali per vedere quanto concretamente il sindacato ha fatto su questi temi, avendo sempre presente sia la tutela dei diritti individuali e collettivi dei lavoratori, sia l’esigenza di efficienza e competitività delle imprese. Perché tutto si può dire, meno che i lavoratori italiani ed i loro sindacati siano autolesionisti, come i recentissimi accordi Alitalia insegnano.
Mi riferisco a precisi contenuti dei contratti e degli accordi aziendali dei settori che la Filcem-Cgil organizza (chimica, farmaceutica, petrolio, elettricità, gas-acqua, gomma-plastica, vetro, piastrelle, ceramica), dove si ritrovano quote di salario collegate alla redditività e produttività dell’impresa ed incentivi legati al raggiungimento di obiettivi specifici sia in tema di performances aziendali che di qualità dei servizi erogati ai cittadini. Il tema degli orari di lavoro è poi presente in misura larghissima, tanto sul versante del miglior utilizzo degli impianti che su quello della flessibilità, proprio per raccogliere talune esigenze dei lavoratori (turni, orari multiperiodali, orari flessibili, calendari stagionali, banca delle ore, gestione delle emergenze, reperibilità, ecc.). Il tutto rigorosamente contrattato, senza che per questo nessuna impresa sia mai fallita o abbia imputato a queste normative costi tali da ritenerla fuori mercato. In caso di crisi aziendali abbiamo praticato diffusamente accordi di solidarietà che hanno ridotto il salario e l’orario, sia pure temporaneamente e comunque finalizzati alla riconversione ed al rilancio della produzione.
Così facendo abbiamo garantito il maggior utilizzo degli impianti, che è stato possibile nonostante la riduzione dell’orario di lavoro settimanale, che in tutti i nostri settori è inferiore alle 40 ore. Ciò sta a significare che, salvo situazioni particolari, non è automatico né corretto collegare la maggiore produttività con l’orario di lavoro contrattuale. Essa è invece la risultante di un complesso di fattori, fra i quali la qualità del lavoro è quello principale. E la sfida che oggi l’industria italiana deve affrontare è proprio sulla qualità: la si può vincere se si sceglie la qualità anche nel lavoro, praticando in primo luogo buone politiche per la formazione e non inseguendo la precarizzazione ad oltranza del lavoro, come purtroppo è avvenuto con la legge Maroni e con il tentativo di sopprimere l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
Noi siamo invece convinti che le innovazioni di processo e di prodotto, i nuovi modi di erogare servizi essenziali per il vivere civile, l’evoluzione della conoscenza e quindi dei mestieri, impongono alle parti sociali di reinterpretare realtà consolidate e modelli diffusi, per farli evolvere in positivo. Quando tutti riconoscono che c’è una questione salariale aperta e che la produttività aziendale negli ultimi anni – una recente ricerca dell’Ires-Cgil lo testimonia – è andata essenzialmente a profitto delle imprese, non si può sostenere che il prezzo di una maggiore competitività sia l’aumento dei carichi di lavoro e la compressione dei salari. Bisogna, al contrario, far crescere la competitività potenziando gli investimenti per innovazione, formazione, ricerca, aumentando i redditi da lavoro, sviluppando adeguate politiche di sostegno pubblico, con una fiscalità che tutto questo riconosca ed incentivi.