Pietro de Biasi – Responsabile risorse umane e relazioni industriali del gruppo Riva
Il dibattito sulla riforma degli assetti contrattuali, così come fissati nel famoso accordo del 23 luglio 1993, ha preso negli ultimi tempi nuovo slancio. Questo tema torna periodicamente al centro dell’attenzione delle parti sociali da ormai diversi anni, almeno da quando, con il rinnovo del Ccnl metalmeccanico del 1999, il consensus, che aveva sorretto l’implementazione del sistema di regole concordate nel ben noto contesto del 1993, comincia ad incrinarsi.
Le caratteristiche di questo dibattito sono già di per sé molto significative. Sia in ambito confindustriale che sindacale all’intensità della discussione – molto attiva tra i metalmeccanici e tra Cisl e Uil, molto meno in casa Cgil ed in altri comparti del mondo imprenditoriale – ha fatto riscontro un’estrema frammentarietà dei suoi risultati, con opinioni radicalmente diverse anche all’interno di ciascun campo negoziale. Non si può non rilevare che a pochissimi mesi dal rinnovo della parte economica del Ccnl metalmeccanico, se da un lato, appunto, il dibattito si è improvvisamente riacceso, i contorni di un ipotetico confronto, con diverse ma compatibili posizioni di partenza ed una traccia di percorso negoziale, sono piuttosto confusi.
Questa confusione però non è solo il frutto della complessità e delicatezza della materia, quanto più spesso della funzione distorta ed ipertrofica che entrambe le parti sociali sembrano conferire alla riforma degli assetti contrattuali. Il confronto, davvero evocativo, con l’analogo, per durata ed inconcludenza, dibattito sulla riforma del sistema elettorale ed istituzionale nel nostro Paese fornisce forse una chiave di lettura delle attuali difficoltà a passare dalle dichiarazioni di principio ad un concreto progetto di modifica degli accordi del 1993.
In realtà non è certo un determinato meccanismo elettorale o assetto istituzionale che può supplire alle carenze di un ceto politico in termini di cultura di governo e condivisione dei generali interessi del Paese, al di là e prima della dialettica democratica tra maggioranza ed opposizione. L’intensità, peraltro curiosamente intermittente, e la confusione, con repentini cambi di impostazione (maggioritario-proporzionale, presidenzialismo-premierato etc) anche all’interno delle singole coalizioni politiche, del dibattito sulle riforme istituzionali dimostrano platealmente che il problema non è tanto nei diversi sistemi in discussione quanto in coloro che discutono.
Fuor di metafora, e tornando al tema degli assetti contrattuali, non vi è un sistema per definizione migliore degli altri, e nessuna nuova struttura contrattuale, per quanto brillantemente costruita, può sostituire, o creare d’incanto, quel consensus fondamentale tra le parti sociali sul che fare per uscire dal logoramento del precedente sistema e soprattutto dalla generale crisi delle relazioni industriali di questi ultimi anni. Il sovraccaricare un tema, importante ma eminentemente tecnico, di una funzione, per così dire, costituzionale è un chiaro indicatore proprio delle difficoltà a ritrovare quell’unità di intenti e quella condivisa lettura dei bisogni del mondo del lavoro che ha permesso al sistema del 1993 di lavorare egregiamente per un lustro. L’ingegneria normativa rischia di essere, a tutti i livelli, una fuga ed uno schermo, più o meno consciamente voluto, rispetto ai problemi reali; la durata e le dimensioni del dibattito non appaiono essere premessa ad una soluzione quanto una sua tacita rinuncia.
All’interno, e da parte, del mondo confindustriale va detto con chiarezza che non esiste un nuovo sistema contrattuale che per suo valore intrinseco consentirà di gestire meglio le dinamiche del costo del lavoro, almeno fintantoché non vi sarà una condivisione generale, da parte del sindacato, del principio che gli incrementi retributivi sono una funzione della produttività delle aziende e che, appunto, negli ultimi anni non vi è stato alcun incremento di produttività da distribuire. La polemica della Cgil, per tacere di alcune posizioni Fiom, sulla crisi del sistema industriale e sull’esistenza di una questione salariale in Italia entra, oltre un certo limite, in contraddizione con se stessa, poiché non è certo con una strategia di abbandono della “politica dei redditi” per tornare a rivendicazioni redistributive che si aiuta il sistema industriale ad uscire dalla crisi; gli esiti di una politica molto simile perseguita caparbiamente dal più importante sindacato europeo, l’IGMetall, in Germania, lo dimostrano, soprattutto, ma non solo, se si guarda lo stato di progressiva deindustrializzazione in cui versa il Mezzogiorno tedesco, i nuovi Laender.
Va detto però, con altrettanta chiarezza, che il contenimento delle dinamiche salariali, coerentemente perseguito da Federmeccanica negli ultimi anni, trova un limite non valicabile nella salvaguardia del potere d’acquisto dei salari a livello di Ccnl. Ed è per questo che trovo abbastanza surreali le ipotesi di differenziazione retributiva tra Nord e Sud nell’ambito della contrattazione nazionale: il contratto nazionale deve difendere il potere di acquisto di tutti i lavoratori, e solo quello. Pensare che un qualsiasi sindacato possa accettare, come regola e non come eccezione, incrementi salariali per un’area del Paese sotto il livello dell’inflazione, con un inevitabile effetto di impoverimento relativo, è del tutto irrealistico. Del resto, se anche fosse possibile, non sarebbe comunque auspicabile una sorta di concorrenza al ribasso con il lavoro irregolare; infatti, in tal modo se ne peggiorerebbero ulteriormente gli standards sociali per effetto a cascata, oppure, per paradosso, lo si renderebbe più attraente per il lavoratore stesso. La via per le aree disagiate del Paese non può essere che quella della riduzione del carico contributivo, meglio se generalizzata e non confinata ai contratti atipici.
Se questi due elementi cardine – legame inscindibile tra incrementi retributivi e produttività, tutela del potere reale di acquisto dei salari – vengono assunti e condivisi dalle parti sociali è probabilmente possibile ragionare in termini costruttivi di una coerente modifica degli assetti contrattuali.
Sarebbe possibile, infatti, venire incontro ad una delle richieste centrali del sindacato, pur nella attuale indeterminatezza delle proposte negoziali, come la generalizzazione della contrattazione integrativa, a patto che questa possa essere, in caso di assenza di incrementi di produttività aziendale, riassorbita negli aumenti retributivi concordati a livello di contratto nazionale. Questo, d’altro canto, manterrebbe l’attuale funzione di protezione dei salari nei confronti dell’inflazione. Rispetto all’assetto attuale, la contrattazione aziendale perderebbe progressivamente il suo carattere integrativo divenendo la sede primaria di negoziazione, senza però privare la generalità dei lavoratori della protezione del contratto nazionale, del quale andrebbe peraltro allungata la vigenza, sia per la parte economica che per la parte normativa.
Come è sin troppo evidente, il funzionamento dei meccanismi di raccordo tra retribuzione aziendale e salario nazionale e, in generale, tra i due livelli normativi, così come la condivisione piena dei criteri di valutazione e misurazione della produttività restano, al di là dell’ingegneria contrattualistica, nelle mani della volontà politico-negoziale delle parti sociali, che può, come abbiamo visto, cambiare anche radicalmente nel corso delle stagioni.