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Home - Approfondimenti - Analisi - Le contraddizioni della manovra

Le contraddizioni della manovra

8 Ottobre 2007
in Analisi

di Marigia Maulucci, segretario confederale Cgil

La Gestalt sosteneva che la “forma globale” prevale sugli elementi che la compongono, è  percepita nel suo insieme (il tutto è sempre differente e più della somma delle singole parti) e distinta dal fondo su cui è impressa. La nostra percezione tende ad accorpare gli elementi secondo coerenza, permettendoci così di stagliare la figura dallo sfondo che la contiene. Credo, però, che persino il più ortodosso dei gestaltici avrebbe difficoltà nell’applicare i suoi solidi principi alla Finanziaria 2008. C’è davvero (o per lo meno io ce l’ho) una difficoltà a definire i confini della sua forma e la composizione armonica dei suoi elementi, che pure si presentano, ognuno nella sua specificità, come nient’affatto disprezzabili. Proviamo intanto a definire lo sfondo, cioè il contesto nel quale la manovra si inserisce: un contesto di finanza pubblica solidamente sulla via del risanamento e di risultati brillanti sul piano delle entrate, grazie alla crescita che esce dallo stallo dello zero virgola e soprattutto grazie all’efficacia della lotta all’evasione fiscale. Tre buone notizie dal punto di vista qualitativo e quantitativo.
Tutto ciò ha consentito di alleggerire la manovra di circa 7 miliardi, messi a carico del decreto 2007 finalizzato prevalentemente ad investimenti in infrastrutture, inchiodando il deficit dell’anno al 2,4%. Soprattutto però, per la prima volta dopo molto tempo, per la precisione dall’ultimo governo Prodi della tornata precedente, non è necessaria una manovra correttiva e il bilancio torna ad essere quello che è giusto che sia, un equilibrio tra entrate e uscite.
Stante poi l’inalterabilità del prelievo fiscale, anzi la sua necessaria e progressiva riduzione, più si ottimizza e si qualifica la spesa pubblica e meglio è. E su questo cominciano ad apparire le prime crepe, perché l’operazione, che potrebbe davvero liberare molte risorse, stenta a decollare, dovendo quotidianamente fare i conti con i mille veti incrociati che una società frammentata, chiusa e corporativizzata come la nostra  continuamente esercita. Il Governo (e il Parlamento) sono attraversati da queste, diciamo così, articolazioni sociali, politiche, economiche e dunque è illusorio pensare a scelte coraggiose sul piano dei tagli alla spesa pubblica.

Questa stessa precarietà rende impercorribile anche un avvio di soluzione vera al problema, perennemente e ossessivamente evocato, della quantità del debito pubblico: tutti ci sentiamo sul groppone il peso di quei 70 miliardi di interessi annuali che dobbiamo destinare allo scopo, a molti di noi sarebbe piaciuto che il Governo cominciasse a indicare una soluzione forte: riserve della Banca d’Italia, gestione attiva del patrimonio, insomma qualcosa di impegnativo e strutturale.
Il quadro macroeconomico del Dpef risulta peggiorato nel dato più importante, quello riguardante la crescita del 2008, che si attesta all’1,5% (contro una previsione dell’1,9%) mentre rimane inalterata la previsione del deficit al 2,2%. Questi numeri, ovviamente, pesano sulla composizione complessiva dei dati di bilancio ma soprattutto indicano con nettezza la priorità vera dell’azione del Governo, vale a dire  gli interventi necessari a sostegno dello sviluppo. Mi sembra dunque di poter leggere con questi occhiali gli investimenti in infrastrutture, il sostegno fornito alla ricerca e all’innovazione tecnologica, la spinta che speriamo arrivi dal ddl Industria 2015: certo, le quantità non sono adeguate alle necessità, ma la linea di tendenza mi pare definita.
In questa stessa linea potrebbe muoversi la misura di ristrutturazione della base imponibile per la riforma della tassazione d’impresa, che, a saldo zero, consente di ridurre lo svantaggio competitivo del nostro sistema fiscale e dunque di attirare investimenti esteri. Semplificando e riducendo imposte, sia IRES che Irap, si introducono correttivi che di fatto possono premiare il capitale reinvestito e favorire la crescita dimensionale delle imprese. Tutto ciò delinea un diverso modo di approcciare le politiche per la crescita, che dovrebbero combinare le opportunità di investimenti produttivi privati e il sostegno alla produttività generale dei fattori, a carico del soggetto pubblico. L’impianto era già presente nell’impostazione del Dpef, è indubbiamente condivisibile, ma contiene alcune criticità particolarmente rilevanti.


La prima attiene proprio alla lentezza e non adeguatezza degli interventi pubblici: l’infrastrutturazione materiale e immateriale è ancora troppo arretrata e non sarà certo ad opera di questa Finanziaria che ci mettiamo in pari coi nostri competitori europei. Per non parlare dell’affanno con cui questo popolo di navigatori, poeti e corporazioni reagisce ai primi cenni di processi di liberalizzazione, che renderebbero efficace e trasparente il mercato.
La seconda: puntiamo tutti sulla volontà delle imprese a contribuire realmente alla crescita, una volta realizzate quelle condizioni favorevoli di contesto, per le quali si sono così tenacemente battute. So bene che siamo in un’economia di mercato, ma non credo sarebbe una violazione della libertà d’impresa chiedere conto degli effetti di queste agevolazioni, pretendere che ad esse corrisponda una crescita qualitativa della produttività, dunque del tasso di innovazione dei prodotti, di impegni verso la modificazione del modello di specializzazione produttiva che possa rendere più dinamica la nostra competitività. Se questi impegni fossero assunti in un quadro di sistema, si potrebbe di nuovo cominciare a ragionare di politica dei redditi, fondata sull’individuazione dell’obiettivo comune dell’aumento della produttività.
La terza, e più importante, criticità attiene a quanto sia monco questo processo che non accompagna l’intervento fiscale sulle imprese a quello sul lavoro. Il limite più serio di questa Finanziaria è proprio la mancanza di questa scelta netta, l’orientamento verso i fattori dinamici dello sviluppo, la rotta verso chi la produttività la produce.


L’inadeguatezza delle retribuzioni è sicuramente un problema vero per le persone ma è un tema forte per l’intera economia: investire sulla crescita deve significare investire sul capitale e sul lavoro, niente di più e niente di meno. In assenza di interventi sul lavoro, rischia di appannarsi l’intera “figura” della manovra di bilancio, che non sembra mostrare dunque quella determinazione che sarebbe stata necessaria. L’incoerenza, la contraddizione appare evidente nella scelta sulla riduzione dell’Ici: proprio quando, per le ragioni che dicevo, sarebbe stato necessario un intervento “dinamico”, ci si orienta verso il più statico dei fattori, la casa di proprietà, come dire la mamma. Incoerente e contraddittorio decidere, inoltre, di dilazionare nel tempo l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie: altro segnale di non scelta tra capitale produttivo e capitale finanziario.
Sono davvero convinta della necessità, invece, di un’operazione strutturale sulle retribuzioni, di un programma di interventi fatto da una riforma dell’Irpef, a partire dall’aumento delle detrazioni specifiche, e dalla riorganizzazione di detrazione per i figli e gli assegni familiari, che abbia tempi certi e scadenze definite e coperture coerentemente derivanti dalla lotta all’evasione fiscale. Abbiamo tutto il diritto di rivendicare questo scambio, essendo la nostra parte quella che sicuramente le tasse le paga, per la semplice ragione che non ha altra scelta.


Certo, comprendo perfettamente che è complicato scegliere in maniera netta quando le emergenze sono molto stringenti: emergenze drammatiche come gli incapienti, anziani, giovani precari, tanti lavoratori con qualifiche e retribuzioni molto basse, oltreché modalità di lavoro molto precarie. Tali interventi, nella forma di una tantum, rischiano però di lasciare sostanzialmente inalterato il problema. E’ questa frammentarietà che non convince, anche se pare del tutto evidente che tale risultato sia il portato delle articolazioni nella compagine governativa, dalla quale è troppo sperare l’individuazione di una priorità e il suo tenace perseguimento. Risultato di tali contrasti è stata anche la scelta di escludere dalla manovra di bilancio il protocollo Welfare, esponendolo così a tutti i rischi e le insidie di un percorso legislativo “a latere”.
In questi giorni i lavoratori sono chiamati al voto, dunque chiudo solo con qualche considerazione sul carattere della consultazione. Al di là dell’effetto mediatico dei fischi in qualche assemblea, anzi dei fischi di qualche gruppuscolo in un numero infinitesimale di assemblee, le discussioni nei posti di lavoro sono state attente e vivaci, hanno consentito una vera informazione e, quel che è meglio, un vero coinvolgimento.
Solo qualcuno ha confuso un’assemblea sindacale con un salotto televisivo o una piazza alla Grillo. La maggior parte ha avuto modo di capire, comprendere le ragioni che ci hanno portato a sottoscrivere quel protocollo, misurandosi con gli stessi vincoli e le stesse complessità delle scelte con le quali ci siamo misurati noi in trattativa, trovando infine un punto di equilibrio che segna per tanti aspetti un punto di arrivo, per altri la base di partenza per continuare l’impegno e la battaglia sindacale. Voglio dire che il valore alto di questa consultazione è stato l’esercizio della soggettività della platea, chiamata a decidere, non solo a urlare, fischiare e/o applaudire. E tutto ciò è un risultato positivo.

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