di Angelo Stango – Responsabile delle relazioni industriali di Merloni Elettrodomestici
Vorrei iniziare queste brevi note con una considerazione un po’ provocatoria: ma quando mai non è esistita tale questione? Come pure, quando mai non è esistita, almeno nella impresa privata, una questione di produttività o di competitività? Questo per evidenziare che non aiuta alla soluzione enfatizzare problematiche che ci sono state, che ci sono e che sempre ci saranno, mentre ritengo più razionale, e più utile allo scopo, dibattere sugli strumenti di gestione di tali problemi, prendendo coscienza che qualsiasi soluzione necessita, nel tempo, di apposita manutenzione come ogni meccanismo. Sta alle parti avere la necessaria flessibilità: mentale, per capire e recepire i cambiamenti che naturalmente avvengono in qualsiasi contesto sociale; gestionale, per fare in modo che tali interventi manutentivi siano recepiti positivamente.
In Italia non esiste, come è logico che sia, un’unica categoria di lavoratori, ma una serie di categorie. Vi sono i lavoratori della grande industria, quelli appartenenti alla piccola industria, i lavoratori autonomi, gli statali, i parastatali ecc., a loro volta suddivisi in vari comparti. Di conseguenza non mi sembra corretto generalizzare la questione salariale, e perché in questo caso occorrerebbe generalizzare le condizioni normative di tutti i lavoratori, la qual cosa sinceramente mi sembra un’utopia.
Il protocollo del 23 luglio 1993 ha prodotto innegabili effetti positivi, ma, nel tempo, non solo non è stato sottoposto ai necessari interventi di manutenzione, ma sono rimaste zone d’ombra che dovevano essere chiarite, ed esse negli anni dal grigio/chiaro sono diventate grigio scuro, causando incomprensioni, divisioni e hanno permesso strumentalizzazioni da parte di chi ha sempre avversato quell’accordo. Tanto per citare qualche ombra che andava chiarita: tutti parlano di partecipazione, ma la partecipazione presuppone la condivisione degli obiettivi, o quanto meno una loro visione condivisa. A leggere i giornali di questi giorni, è difficile intravedere tale condivisione. Ancora, in sede di contrattazione integrativa aziendale, ove va premiata la produttività, è difficile che non emerga la tematica del “consolidamento salariale” in contraddizione con il concetto stesso di produttività che non può che essere variabile.
Per chiarire meglio il mio pensiero cito la Merloni Elettrodomestici, azienda ove lavoro. In Merloni la partecipazione, oltre ad essere un principio acquisito, è un valore, ma si fonda su obiettivi condivisi, sulla consapevolezza che l’azienda deve essere competitiva e fare produttività da una parte, e che dall’altra, ad una maggiore competitività, e quindi più volumi consolidati, deve corrispondere più occupazione, e ad una maggiore produttività una distribuzione di parte di essa tra i lavoratori.
In altre parole confronto significa anche accollarsi, da parte di tutti gli attori, una parte di rischio. Su queste basi la parte variabile ha raggiunto il 15% della retribuzione e tutti sanno che la sua acquisizione passa attraverso la realizzazione degli obiettivi concordati.
L’Italia da sempre ha scelto il confronto quale strumento per ammortizzare il conflitto e non penso che vi siano spinte per abbandonare tale metodo, semmai è da analizzare sul come esso viene sostenuto. Proprio da questa angolazione, noi assistiamo che da diversi anni le relazioni industriali, in special modo in alcuni comparti, sono state relegate in un ruolo secondario. Ad esempio: nel mondo imprenditoriale, nell’ambito delle risorse umane, per un giovane è molto più gratificante occuparsi di sviluppo, selezione, gestione, politiche retributive; nel mondo sindacale, sono pochi i giovani che hanno voglia e passione per dedicarsi ad esse, sicuramente attività meno gratificante rispetto all’epoca delle grandi rivendicazioni. Ne consegue che il campo delle risorse umane viene percepito non sempre in modo positivo o comunque non sempre capito, venendo così a perdere il ruolo di coinvolgimento di tutte le parti in causa e finendo per diventare materia di un ristretto gruppo di specialisti.
Per concludere queste brevi note, che sicuramente meriterebbero un maggior approfondimento, ritengo che analizzare le conseguenze di una politica che incentiva il confronto solo nelle situazioni di emergenza sia fuorviante e strumentale. Non nego che in alcuni settori vi possa essere una questione salariale, ma non giova generalizzare. Al di là di ricercare soluzioni a problemi contingenti e settoriali, occorre avere la forza di ristrutturare le relazioni industriali coerentemente alle mutate condizioni economiche e di mercato e su basi concordate e condivise.