“Che ci faccio qui?” è uno dei più famosi libri di Bruce Chatwin sui suoi avventurosi viaggi. Il titolo continua a tornarmi in mente, ogni volta che mi imbatto in anticipazioni del rapporto che Enrico Letta presenta in questi giorni sul mercato unico Ue e di quello sulla competitività europea che Mario Draghi ha annunciato per questa estate. Qualcosa, infatti, non torna. Siamo alla vigilia di elezioni europee, forse, storiche: il voto potrebbe affondare la tradizionale alleanza fra democristiani e socialisti che ha alimentato sia l’unità del continente, sia anche il modello sociale ed economico che, per oltre mezzo secolo, ha forgiato il miracolo postbellico.
E, in questa situazione fluttuante e turbinosa, con mezza Europa, a cavallo di un trattore, in rivolta contro le più importanti scelte politiche degli ultimi anni e l’altra mezza, intenta a covare un “mea culpa”, il compito di fotografare, in prima persona, la crisi europea e la rotta per uscirne, magari rifondando l’Unione viene affidato a due italiani, non il passaporto migliore nella politica europea. Per giunta, due italiani (due ex presidenti del Consiglio) clamorosamente trombati in patria. Due personalità di grande prestigio (con Draghi siamo a livelli stratosferici), certo, ma giocoforza tutt’altro che in sintonia con chi oggi governa a Roma. E, infine, culturalmente e ideologicamente affini, ambedue, a quella tradizione democristiano-socialista che ha ispirato il processo europeo e che oggi è in discussione. Mettete insieme questi quattro fattori (italiani, personalmente trombati, privi di appoggio politico ufficiale e, forse, anche nell’elettorato) ed è inevitabile chiedersi quale peso e ruolo politico effettivo potranno avere, nelle future discussioni europee, le loro proposte.
E, allora, come si è arrivati a Letta e Draghi? Una prima ipotesi è che a Bruxelles viga davvero la meritocrazia e si siano scelte le persone migliori per il compito affidato, a prescindere dal quadro complessivo. Una seconda ipotesi, meno lusinghiera, è che a Bruxelles viaggino lentamente e che a Letta e a Draghi si sia arrivati senza considerare come la situazione (politica) complessiva stesse mutando. Una terza ipotesi – questa, maligna – è che la loro scelta sia l’ultimo omaggio alla cultura europeista e che la loro debolezza politica sia un ottimo veicolo per sbarazzarsi sia dell’una che dell’altra relazione e ripensare da zero ad una risposta alla crisi europea più nelle corde di gente come Le Pen, Salvini, Meloni, Wilders.
Perché la crisi c’è davvero. Negli ultimi venti anni, la produttività è cresciuta negli Usa ad un ritmo doppio, rispetto all’Europa. Dal 2019 ad oggi, il rapporto è stato di 6 a 1. Se le cose non cambiano, continueremo a crescere un punto di Pil in meno l’anno, rispetto agli Usa. Nel 1993 i paesi della Ue rappresentavano il 20 per cento del Pil mondiale, oggi siamo al 13,3 per cento.
Il mercato unico dovrebbe rappresentare 450 milioni di consumatori, ma è in realtà spezzettato ed impedisce le economie di scala di cui fruiscono Usa e Cina. Anche il panorama industriale è frammentato: abbiamo 34 gruppi di telecomunicazioni contro le 4 cinesi e le 3 americane: far decollare il 5G così è più difficile. E, in generale, la politica industriale diventa una guerriglia fra paesi. Intanto, per centrare gli obiettivi climatici occorrerebbero investimenti per 800 miliardi di euro l’anno: da dove dovrebbero arrivare?
Le ricette che propongono Draghi e Letta – non a caso – convergono: una politica industriale coordinata, favorire la concentrazione fra aziende per avere attori più robusti, gli eurobond per rilanciare gli investimenti pubblici, abbattere le divisioni fra i mercati nazionali dei capitali per attirare gli investimenti privati ed evitare che 250 miliardi di euro l’anno, invece, prendano la strada dei mercati americani.
Il punto è che queste proposte vanno a cozzare contro resistenze radicate da anni e altre che crescono in questi mesi. Una politica industriale coordinata significa puntare, ad esempio, su un’azienda tedesca invece che francese, favorire il consolidamento significa chiudere una fabbrica magari in Polonia per concentrare la produzione in Italia, gli eurobond fanno storcere da sempre il naso a nord delle Alpi, gli investimenti “verdi” non sono riusciti neanche ad avere il passi fuori bilancio nel nuovo Patto di stabilità e il mercato unico dei capitali si traduce in una perdita di controllo sulla finanza nazionale. E’ difficile immaginare Meloni, Le Pen, Wilders che sottoscrivono questa rivoluzione. Ancora più difficile immaginare quella che appare la proposta più radicale di Draghi che, pragmaticamente, rispolvera “l’Europa a più velocità”, con paesi a diversi livelli di integrazione, perché altrimenti tutto si ferma.
Ma è anche molto probabile che altre ricette non esistano. Il punto è quanto tempo impiegherà l’Europa che uscirà dalle elezioni di giugno a rendersene conto.
Maurizio Ricci