Gli italiani non hanno più voglia di lavorare. Un refrain senza tempo che racconta di una massa di lavoratori, per lo più giovani o giovani adulti, pigra e pretenziosa che pur subendo un costo della vita sempre più elevato, si permette il lusso di voltare le spalle a una domanda in crescita, soprattutto dal post-pandemia. Riprovevole, verrebbe da dire e quindi da empatizzare con la pletora di imprenditori che lamentano una carenza non più sostenibile, tra l’altro offerenti condizioni davvero golose. Meglio il sussidio (ei fu) o la borsetta di mammà che passare otto ore (nella migliore delle ipotesi) a sgobbare. Questo, però, sulla carta – per lo più stampata. Ma qual è il contraddittorio a questa tesi? Ci sarà un motivo un tantino più tridimensionale se c’è chi dice no.
La giornalista Charlotte Matteini, che si occupa di politica, lavoro e diritti, ha messo a punto una ricostruzione nel libro Gli italiani non hanno più voglia di lavorare (Cairo, 208 pagine, 17,00€), non certo inedita perché ormai è ampia la letteratura sul tema, ma che ha il merito di raccogliere la viva voce di lavoratrici e lavoratori ormai al limite di sopportazione di condizioni vessatorie. Attraverso la loro testimonianza, corredata di dati statistici, osservazioni e riferimenti giuslavoristici, l’autrice compone una fotografia dinamica dell’involuzione del mondo del lavoro italiano e dei sistematici abusi che caratterizzano numerosi settori – in particolare la ristorazione, il commercio, la Grande Distribuzione Organizzata, le professioni intellettuali e le partite IVA, gli stagisti, l’autotrasporto -, mettendoci davanti a una realtà complessa e sfaccettata che squarcia il velo sul falso mito di quegli italiani che non hanno più voglia di lavorare. Un lungo (de)corso che secondo l’autrice trova la sua origine nel culto della flessibilità inaugurato alla fine degli anni Novanta, «il cavallo di Troia per la compressione dei diritti dei lavoratori»: politiche che, con l’ambizione di sanare la disoccupazione giovanile e rincorrere la golden age della globalizzazione e del benessere diffuso, non hanno fatto i conti con la realtà produttiva e culturale di un Paese intrappolato nella tagliola delle Pmi a bassa crescita e basso valore aggiunto, poco propense all’innovazione e all’investimento sul capitale umano e che quindi «hanno gravemente minato le basi del mondo del lavoro italiano, spogliando i lavoratori di molte tutele, con un impatto devastante sulla dinamica di mancata crescita delle retribuzioni». Ed è in questo sistema di impresa, calata in un contesto troppo competitivo per il loro taglio, che si annida la vexata quaestio dello sfruttamento del lavoro, cui in qualche modo contribuisce anche una burocrazia farraginosa e un sistema di tassazione complesso. E allora come dare torto a coloro che non hanno più voglia di lavorare se le condizioni proposte sono per lo più precarie, irregolari, con orari insostenibili, paghe da fame, una conciliazione vita-lavoro inesistente? Perché lavorare/impoverirsi per far arricchire qualcun altro?
È anche vero, tuttavia, come sottolinea l’autrice, che i lavoratori non sono consapevoli dei propri diritti ed è proprio su questo che si fa leva sottoponendoli a un ricatto occupazionale in cui troppo spesso non si rintraccia una via d’uscita. Le alternative, secondo alcune delle testimonianze raccolte da Matteini, sono potenzialmente peggiori e quindi tanto vale rimanere nel seminato al netto di condizioni psicofisiche ed economiche impraticabili. Non si tratta, quindi, di un puro rapporto vittima-carnefice perché è importante denunciare le condizioni di abuso che violano diritti inalienabili (Costituzione, articoli 1, 4, 35, 36, 37), ma nemmeno si può scaricare sul lavoratore anche – anzi totalmente -la responsabilità di vigilare sulle cattive condotte delle parti datoriali. C’è il sindacato, sì, ma dovrebbero esserci anche gli ispettori. Dovrebbero, perché in rapporto alla mole su cui vigilare in realtà ce ne sono pochi – pur in aumento nel 2024 (4.585 al 31 dicembre 2024, rapporto Inl).
Qualche dato e qualche esempio. Ristorazione, il settore maglia nera delle irregolarità contrattuali a livello nazionale: il rapporto di vigilanza dell’Inl relativo al 2023 certifica percentuali di irregolarità del 71,2% al Nord, 79,6% al Centro e 78,9 % al Sud, per un’incidenza media pari al 77,3 %. Non solo: guardando ai dati regionali, l’attività di vigilanza ha rilevato un’incidenza di irregolarità ampiamente oltre l’80% in territori come Lazio, Campania, Puglia e Marche, fino al 92% della Sicilia. Commercio all’ingrosso e al dettaglio: incidenza dell’irregolarità pari al 64,5% Nord, 75,2 % al Centro e 70,9 %al Sud. Professioni intellettuali: stipula di contratti di finta partita IVA e co.co.co., ma obbligo per i lavoratori di lavorare come dipendenti, con tutti gli oneri del caso e fronte di retribuzioni basse e senza tutele. Stage utilizzato come strumento di compressione del costo del lavoro, distorcendone la ratio formativa e abusando di una normativa frammentata e complessa.
A leggere le voci raccolte dall’autrice, che danno corpo ai dati statistici e smentiscono gli hurrà governativi sui dati occupazionali (sicuramente in miglioramento, ma venati da crepe profonde), si resta non basiti, ma quasi indifferenti, perché sono anni che ne sentiamo parlare senza un’efficace azione di risanamento, tanto che ormai parrebbero essere naturalizzati. Tuttavia, come sottolinea la stessa Matteini, l’obiettivo del volume non è solo tratteggiare un quadro, ma anche restituire un manuale di auto-aiuto per coloro i quali si riconoscono in questi ritratti e si sentono isolati, senza strumenti per aprire l’uscita dall’emergenza. Ecco: il confronto e la conoscenza sono i grimaldelli per uscirne, strumenti di consapevolezza per impugnare i propri diritti e alzare la voce della dignità.
Elettra Raffaela Melucci
Titolo: Gli italiani non hanno più voglia di lavorare (e hanno ragione)
Autore: Charlotte Matteini
Editore: Cairo
Anno di pubblicazione: 2025
Pagine: 208 pp.
ISBN: 978-88-309-0488-0
Prezzo: 17,00€