di Massimo Masi, segretario generale Uilca Uil
Quando si parla e si scrive di retribuzioni, quando si fanno i confronti fra gli stipendi dei top managers e la media dei lavoratori, si corre sempre il rischio di fare demagogia. Ma fra la demagogia e il silenzio, preferisco la verità. Soprattutto perché in questi ultimi tempi il dibattito sulle retribuzioni è sempre più acceso e tocca, visto l’aumento dei prezzi e delle tasse, pesantemente le tasche dei lavoratori. Inoltre le aziende di credito, visti i non brillanti dati trimestrali, propongono, ancora una volta, ulteriori riduzioni dei costi che, guarda caso, ricadano sui lavoratori.
In un articolo apparso su Il Sole 24 Ore del 12 aprile, Nicola Borzi ricorda, con riferimento ad un significativo campione di 294 tra amministratori, sindaci e top manager dei principali gruppi italiani, come l’insieme degli emolumenti sia cresciuto in un anno del 70 per cento circa rispetto al florido 2006.
Naturalmente il mondo del credito la fa da padrone. Alcuni esempi Corrado Passera (Intesa SanPaolo) 3,5 milioni + stock option, titolo – 7,3%; Alessandro Profumo (Unicredit Group) 9,43 milioni (?), + titolo – 16,5%; Giampiero Auletta Armenise (Ubi Banca) 5,7 milioni + (?), titolo – 10,1%, Adolfo Bizzocchi (Credito Emiliano) 4,73 milioni, titolo – 14%.
Non meno pesanti (dal punto di vista retributivo) appaiono le somme a titolo di liquidazione (peraltro spesso destinate a presidenti che cambiavano casacca a seguito di fusioni/acquisizioni e che, per il tipo di carica, non erano storicamente destinatari di compensi corrisposti per decine di milioni di euro a tale titolo), come ad esempio Matteo Arpe 37,4 milioni titolo, fino alla fine del suo “regno”, – 7,6%, Cesare Geronzi 23,65 milioni di cui 20 milioni come premio alla carriera, Gabriele Galateri di Pianola (ex presidente Mediobanca) 11 milioni,titolo – 11%. Questi dati, se confermati, e non ci appaiono smentiti, risultano assolutamente fuori da ogni realtà e non accettabili proprio alla luce di quel senso di responsabilità che, come sindacato, abbiamo invece dimostrato.
Ancora più grave è che non si sia deciso, quanto meno, di disinnescare quei meccanismi micidiali di stock options, nella maggior parte dei casi notoriamente e del tutto autoreferenziali, e di piani di remunerazione variabile che hanno dimostrato di essere in realtà molto fissi, oltre ad avere, quando pure li hanno, dei riferimenti a risultati di breve se non di brevissimo periodo. Al tempo stesso, permangono ancora grandi differenze tra top management e lavoratori. Il piano di incentivazione di Unicredit Group prevede un nuovo piano di partecipazione azionaria per tutti i dipendenti del gruppo “al fine di dare a tutto il Personale un segno tangibile del successo del Gruppo rafforzandone il senso di appartenenza e la motivazione al raggiungimento degli obiettivi aziendali” con uno sconto del 5%, non vendibilità del titolo per 5 anni e pagabili attraverso trattenute mensili sullo stipendio. Non sono previsti aumenti del capitale sociale per l’esecuzione di questo piano in quanto le azioni verranno prelevate dal mercato tramite una SGR del gruppo. Mentre ad un selezionato gruppo di top & senior manager e risorse chiave si prevede l’assegnazione milionaria di stock option e performance share.
Non abbiamo avuto modo di registrare quello che, almeno in qualche sparuto caso, si è verificato nel resto del mondo, con le autoriduzioni di stipendio e la sospensione o l’annullamento dei piani di stock option o di stock granting unilateralmente decisi da qualche banchiere che ha deciso di passarsi la mano sulla coscienza prima di licenziare in tronco qualche centinaio o qualche migliaio di dipendenti. Nulla di tutto questo è accaduto da parte di alcun esponente dei gruppi bancari di casa nostra.
Crediamo che sia giunta l’ora di mettere fine a questo metodo. E’ per questo che riproponiamo quanto abbiamo ufficialmente detto prima della conclusione della tornata contrattuale e cioè che è ormai giunta l’ora di una moratoria delle stock options, che potrebbe anche accompagnarsi a qualche gesto di autoriduzione della retribuzione sempre più spesso milionaria dei vertici aziendali. Sarebbero un segno della consapevolezza che non si possono chiedere sacrifici a chi lavora nelle aziende di credito e vede lievitare anno dopo anno retribuzioni che sono decine se non centinaia di volte superiori alle sue.
Riteniamo, altresì, non più dilazionabile quel ripensamento radicale e coraggioso di piani incentivanti sempre più spesso intesi come l’altra faccia di politiche di vendita che definire aggressive nei confronti sia dei venditori che degli acquirenti, rappresenta, almeno in base alle segnalazioni che riceviamo, un puro eufemismo. Revisione basata sulla necessità di spostare, ovviamente a livello aziendale, risorse dalla remunerazione variabile a quella fissa, anche in un’ottica di parziale ridimensionamento.
Solo in presenza di concreti segnali nella direzione da noi indicata saremo disponibili ad affrontare ulteriori confronti sul piano dei costi come quello proposto in Intesa SanPaolo, anche perché, a nostro avviso, occorre un recupero di credibilità per avanzare richieste a chi ogni giorno contribuisce, con il suo lavoro, alla creazione di quel valore aggiunto che viene poi distribuito in modo così ineguale.



























