Massimo Mascini
Ha un senso parlare ancora di concertazione nel nostro Paese? Esistono spazi e motivi per insistere in questa direzione? La recentissima presa di contatto tra Francesco Storace, presidente della Regione Lazio, e i sindacati suoi interlocutori, appunto in vista dell’avvio di una fase concertativa, farebbe credere di sì. Del resto, è stato lo stesso Governo Berlusconi che non più tardi di qualche mese fa aveva rispolverato l’idea della concertazione a fronte delle irritate reazioni del sindacato al Dpef, proponendo ben undici tavoli di confronto, peraltro mai aperti, nonostante le reiterate pressioni dei sindacati confederali.
Questi segnali di interessamento da parte di esponenti del centrodestra, anche se non restassero sulla carta, così come occorso per quanto si riferisce al Governo nazionale, non sarebbero comunque esaustivi per rispondere alla domanda di fondo sull’attualità dell’istituto della concertazione e sull’opportunità per il sindacato di darvi luogo. Una seguita corrente di pensiero, e per tutti basta leggere <Sindacato negoziale e sindacato antagonista> di Roberto Mania su Il Mulino 4/2003, ritiene infatti lesivo per il movimento dei lavoratori continuare a cercare un rapporto concertativo con il Governo, perché i sindacalisti correrebbero in questo caso il rischio (certo?) di infettarsi con il virus pernicioso della politica e della politicizzazione, in grado di cambiare la natura stessa del sindacato.
A riprova di questa affermazione si fa riferimento alla recente storia del movimento dei lavoratori, che in realtà ha subito, e ne ha risentito in maniera fortissima, un processo di politicizzazione profondo, partito proprio dal rapporto concertativo che si era instaurato nei primi anni novanta. Le esperienze di Sergio D’Antoni nella Cisl e di Sergio Cofferati nella Cgil, destini sempre incrociati, sono eloquenti, e ambedue hanno preso il via da quanto accaduto in quel lasso di tempo in cui la dissoluzione dei partiti di massa richieste alle forze sociali un protagonismo superiore a quanto fosse mai accaduto.
La supplenza delle forze politiche da parte di quelle sociali realizzatasi nei primi anni novanta è stata significativa per i comportamenti nella seconda metà del decennio. D’Antoni ha puntato esplicitamente alla politicizzazione della Cisl, tentando, via via, prima di ricreare una forte unità sindacale organica, poi di realizzare l’ambizioso disegno di una grande Cisl, raggruppamento delle forze sociali ed economici di stampo cattolico, infine di forzare la mano, ancorché inutilmente, alla Commissione bicamerale che studiava possibili riforme istituzionali per creare un obbligo, appunto costituzionale, alla concertazione. Tutti tentativi andati a vuoto, ma che testimoniano una volontà egemonizzante, non sorretta forse da una concreta visione della realtà politica, sociale ed economica. Lo stesso errore che ha commesso quando è passato alla politica, pensando che la sua forza di leader sindacale si sarebbe tradotta in una parallela forza di leader politico.
Quasi uguale la storia di Cofferati, che ha visto crescere nel tempo, e nell’opposizione a Berlusconi, il suo carisma, ma non ha capito che questo difficilmente poteva valere, oltre che nel sociale, anche nell’agone politico. Per questo ha trascinato la confederazione in una battaglia partitica congressuale, cosa mai avvenuta nella storia della confederazione, velando appena questa scelta con un inesistente distinguo tra scelte collettive e scelte personali. Una battaglia persa, perché i consensi generalizzati di cui godeva il Cofferati sindacalista non si sono tradotti in consensi politici.
Dietro queste scelte, a detta di tutti i commentatori, l’esperienza inebriante dei primi anni novanta, quando il sindacato era determinante per le scelte di politica economica e per la stessa stabilità dei Governi in carica. E di qui, proprio per questo, la condanna di quelle esperienze e, più in generale, della concertazione, che avrebbe causato allora e potrebbe causare ancora trasformazioni così evidenti e così perniciose.
Ma vale la pena di abbandonare una pratica che, a detta degli stessi commentatori, è stata così importante da consentire il superamento di una delle crisi macroeconomiche più forti che il nostro Paese abbia mai attraversato, impostando gli strumenti per il risanamento delle finanze dello Stato? Non che le altre mission indicate per il sindacato degli anni a venire, la gestione del mercato del lavoro in un’epoca di precarizzazione, la democrazia economica, la partecipazione, non siano importanti e caratterizzanti, ma perché, è opportuno chiedersi, privarsi, forze politiche e sociali, di uno strumento così utile?
Perché di strumento si tratta, nonostante D’Antoni abbia sempre sostenuto che si trattava in realtà di una vera a propria politica e non di una scelta tecnica. Forse per capirlo occorre fermarsi a capire cosa sia effettivamente la concertazione. Questa è infatti un sistema che consente a chi governa di farlo più agevolmente. Le società complesse, come quella in cui viviamo, sono tali perché vi coesistono numerosi centri di interesse, che naturalmente possono essere diversamente colpiti dalle decisioni di politica e di politica economica del Governo, e quindi reagire in maniera differenziata. Proprio per cercare di evitare questa molteplicità di reazioni, e trovarsi a non potervi far fronte nello stesso tempo, chi ha responsabilità di quelle scelte può, prima di formalizzarle, contrattarle con alcuni di questi centri di interesse.
E’ quanto accaduto in questi anni, quando i Governi in carica non hanno affidato ad altri le scelte dell’economia ma hanno scelto di discutere con le parti sociali più rappresentative i contenuti delle decisioni che si apprestavano a prendere, con il dichiarato fine di acquisirne il preventivo consenso. In tal modo il Governo della cosa economica sarebbe stato più semplice, ma lo sarebbe stata anche la difesa degli interessi dei rappresentati, lavoratori o imprese che fossero, perché una cosa è lottare per cambiare un indirizzo vago e non distinto di politica economica, un altro costringere un Governo a cambiare le sue decisioni dopo che queste sono state assunte e formalizzate. Importante è che non ci sia trasferimento di poteri dal Governo, che deve sempre restare detentore del potere decisorio, alle parti sociali, le quali altrimenti cambierebbero natura.
E, allo stesso modo, è evidente che non si cambiano i rapporti di potere solo se resta fermo che non esiste alcun obbligo di accordo. Se l’intesa viene raggiunta, tutto va per il meglio, perché è più facile sia governare che difendere gli interessi di cui ciascuno è parte, altrimenti il gioco politico si svolgerà normalmente, senza scorciatoie. Nel 1995 il Governo Dini raggiunse con il sindacato un accordo per la riforma previdenziale che non trovò il consenso della Confindustria. Nessuno ne fece un dramma, perché non era stato rotto alcun patto: il Governo decise di andare avanti lo stesso, subendo il contrasto della Confindustria. Diverso il caso del 1998, quando era stato quasi raggiunto un accordo per un nuovo impianto contrattuale, ma la Cgil, e poi anche la Confindustria, dichiararono la loro contrarietà alle soluzioni che si venivano delineando. In quel caso il Governo D’Alema non se la sentì di andare avanti lo stesso e rinunciò alla manovra. Scelte, comunque, sempre del Governo, legate alla prevedibilità di poter o non poter gestire il dissenso manifestato.
Se quindi si tornasse a considerare la concertazione per quello che è, ossia uno strumento con il quale è possibile ottenere il consenso preventivo di parti importanti della società su decisioni politiche di rilievo, senza che si verifichi alcun trasferimento di poteri decisionali, sembra inutile parlare di pericolo di politicizzazione del sindacato. E’ la politicizzazione, infatti, a guastare l’atteggiamento delle parti sociali nei confronti della concertazione e non il contrario.