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Home - Approfondimenti - L'Editoriale - Le relazioni industriali: non un lavoro, ma una missione

Le relazioni industriali: non un lavoro, ma una missione

di Massimo Mascini
2 Dicembre 2024
in L'Editoriale
Confsal presenta le sue proposte per rinnovare le relazioni industriali

Il direttore generale di Federmeccanica, Stefano Franchi, in un’intervista per l’Annuario del lavoro 2024, ha affermato che quello delle relazioni industriali non è un lavoro, è una missione. E, ha aggiunto, per riuscire non basta studiare sui testi, le relazioni industriali devi viverle, sentirle dentro. E, soprattutto, devi avere idee ben chiare e alcune caratteristiche precise. La più importante, forse, è l’inventiva. Perché quando gli interessi divergono o l’evenienza in cui ci si trova è particolarmente complessa, spesso è proprio con una grande idea che si riesce a superare il problema. Ne è un esempio quello che è successo durante la pandemia. Partita in sordina, tra mille paure, all’improvviso è esplosa, con il rischio reale di bloccare l’intero paese. Le parti sociali ne sono uscite grazie all’inventiva dello smart working, istituto fino a quel momento per lo più trascurato, e con la decisione di indicare con precisione, in un accordo interconfederale che passerà alla storia, quali settori tenere aperti, quali chiudere.

La capacità di risolvere i problemi passa spesso proprio per un’idea. Un’altra regola d’oro è quella di saper distinguere l’interesse personale da quello collettivo. I contratti sono rivolti a una genericità di persone, spesso connotate da una caratteristica comune, il mestiere che fanno, l’azienda in cui lavorano, il grado di formazione che hanno. Si devono perseguire naturalmente gli interessi di chi si rappresenta, ma senza perdere mai di vista l’interesse generale, il bene comune. Una terza qualità deve essere la tenacia, la determinazione. Mai mollare, mai lasciarsi andare allo sconforto. La via d’uscita c’è sempre, basta trovarla, oppure, come si diceva prima, inventarla. Chi si lascia travolgere dagli eventi, alla fine perde.

Ancora, il buon sindacalista, dei lavoratori o d’impresa che sia, deve anche avere allo stesso tempo visione e pragmatismo. Visione perché deve saper guardare lontano, essere capace di pensare e se necessario agire in grande, con ideali ai quali non rinunciare mai. I grandi accordi si fanno sui grandi propositi, sui progetti più ambiziosi. Ma la stessa persona pronta a osare in nome del risultato deve anche essere pragmatica. Deve sapere con precisione, e non dimenticarlo mai, in quale realtà sta operando. Per non trovarsi sbilanciato in avanti, per non salire troppo e poi rumorosamente cadere. Un esempio tipico è quello della riduzione dell’orario di lavoro, tema sul quale si sono sempre impegnati i migliori, nel sindacato come in azienda. La visione aveva portato al sogno delle 35 ore per tutti. Si provò a forzare la mano, anche con una legge, il risultato fu disastroso. Poi si cominciò a studiare cosa accadeva nelle aziende, nei reparti, cosa effettivamente era possibile fare. Si valutò quali fossero gli effetti di una riduzione dell’orario di lavoro e ci si è accorti che la produttività poteva anche salire invece di scendere. Adesso l’attenzione si è concentrata sull’ipotesi, affascinante, della settimana lavorativa di quattro giorni, e anche lì i risultati sono stati sorprendenti. La politica dei piccoli passi, sorretti da una visione ampia, ha portato i suoi frutti.

L’ultima esigenza per chi vuole fare bene il mestiere delle relazioni industriali è quella di non perdere mai l’unità. Il sindacato diviso, si sa, è più debole, meno capace di resistere, quindi di ottenere risultati. In fin dei conti il sindacato è nato proprio per questo, per sopperire con la forza dell’unità dei lavoratori alla debolezza del singolo nel rapporto col datore di lavoro, oggettivamente più forte. Non sempre i sindacalisti se ne ricordano fino in fondo, la cronaca di questi giorni è costellata di brutte notizie sull’unità sindacale, messa a dura prova. Ma questa attenzione all’unità vale anche per l’altra parte. Quando si negozia un contratto a nome di una categoria, o di un gruppo di aziende, l’attenzione deve essere sempre viva nei confronti di tutti. È come nel convoglio marittimo: deve navigare alla velocità della nave più lenta, altrimenti il gruppo si sgrana e chi resta indietro è in pericolo. E allora l’attenzione va, o dovrebbe andare, alle aziende border line, quelle che possono perire o indebolirsi pericolosamente se l’accordo che si sta negoziando non tiene in debito conto le loro necessità e possibilità.

Un ragionamento che vale per le piccole, ma anche per le grandi. Per non incorrere nell’errore che commise nel 2011 la Confindustria di Emma Marcegaglia. La Fiat, l’azienda più grande della manifattura, aveva problemi seri, doveva operare profonde ristrutturazioni, soprattutto non poteva applicare le regole, abbastanza rigide, del contratto nazionale dei metalmeccanici. Per questo chiese di poter derogare a quelle regole. Le fu negato, e quando il governo in carica varò una legge che consentiva comunque accordi per piegare quelle regole, si decise di non applicare mai quella legge. Il risultato fu che la Fiat uscì da Confindustria per non rientrarvi mai più. Pochi mesi dopo Confindustria e Cgil, Cisl e Uil firmarono un accordo proprio per consentire le deroghe contrattuali. Troppo tardi.

Massimo Mascini

Massimo Mascini

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Direttore responsabile de Il diario del lavoro

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