Serafino Negrelli – Professore straordinario di Relazioni industriali – Università di Brescia
Non è facile riprendere il filo del discorso sull’unità sindacale, iniziato nei mesi scorsi proprio sul Diario del Lavoro da Treu, Gottardi, Cella e altri, dopo che gli avvenimenti di questi giorni (ma temo purtroppo anche dei prossimi), sulle piazze e nei luoghi di lavoro, hanno fatto registrare nuovi e più alti livelli di tensione tra le principali confederazioni, con scomposti o, peggio, sgradevoli atteggiamenti anche da parte di molti che in passato si erano distinti per le loro posizioni più moderate. Demoralizzante appare soprattutto il fatto che non si riesca a intravedere la fine di questo tunnel. Occorre tentare comunque di ricondursi nell’alveo di un più sereno confronto tra le ragioni dei protagonisti e la realtà sindacale.
Nella storia delle vicende politiche e sociali del nostro Paese il tema dell’unità sindacale è stato ricorrente nel secondo dopoguerra. Segno che le rotture tra i sindacati italiani sono state spesso all’ordine del giorno. Se si esclude il periodo immediatamente successivo all’”autunno caldo” del 1969, è difficile ricordare altre stagioni di unità sindacale concretamente praticata. Come dimostra il ricorso alla machiavellica distinzione tra “unità organica”, quale traguardo da rinviare ad una data indefinita e indefinibile, e “unità d’azione”, più praticabile nell’immediato.
Sarebbe pertanto ingenuo farsi cogliere di sorpresa dagli ultimi pur gravi eventi, quali la presentazione di singole piattaforme di categoria, la firma di accordi collettivi separati, le differenti dichiarazioni di voto per il referendum sull’articolo 18 espresse dalle singole organizzazioni confederali. Gli appelli e gli auspici all’unità sindacale sono certamente importanti ed esprimono un comune sentire ed una condivisa preoccupazione. Ma le vicende più recenti non fanno altro che confermare l’impraticabilità, almeno per ora, degli inviti più o meno retorici che da più parti sono stati rivolti ai sindacati perché affrontino in maniera esplicita i loro dissensi di natura strategica (su concertazione, struttura contrattuale, rappresentanza e democrazia sindacale, solo per citarne alcuni di quelli macroscopici…), soprattutto quando questi vanno sempre più intrecciandosi in modo perverso con il tradizionale “mestiere” sindacale, che resta soprattutto quello, vale la pena ricordarlo, di stipulare contratti collettivi in rappresentanza e a vantaggio degli interessi dei lavoratori.
Sembra difficile negare l’importanza di alcuni contenuti dell’ultimo contratto dei metalmeccanici, sottoscritto da Fim e Uilm ma non dalla Fiom. Come per tutti gli accordi collettivi sottoscritti nel corso della nostra storia di relazioni industriali, si possono esprimere pareri più o meno favorevoli. Ma si tratta comunque di un risultato da valutare in maniera pragmatica, soprattutto nell’attuale contesto, sia sotto il profilo economico (aumenti non distanti dalle richieste dei sindacati che hanno firmato) che sotto quello del nuovo inquadramento professionale (apertura di spazi importanti per la contrattazione collettiva anche per chi non ha firmato) e della formazione (iniziative di riqualificazione). Certo, i sindacati potevano ottenere di più.
Se nell’ultimo decennio gli aumenti delle retribuzioni contrattuali sono stati nettamente al di sotto degli incrementi di produttività, peraltro non solo in Italia (vedi a questo proposito le sistematiche rilevazioni dell’Istituto sindacale europeo e dell’Eiro), lo si deve soprattutto alle crescenti difficoltà dei sindacati in Europa a fare il loro mestiere più tradizionale, aggravate nel nostro Paese dall’atrofia della contrattazione di secondo livello, aziendale e ancor più territoriale.
Fim, Fiom e Uilm avrebbero certamente ottenuto di più se avessero presentato una piattaforma unitaria, ma ciò non è avvenuto per mille ragioni conosciute o meno (può risultare banale, ma forse non scontato, ricordare che i coniugi Webb hanno coniato il termine “contrattazione collettiva” proprio per indicare un metodo attraverso il quale i lavoratori potevano ottenere di più rispetto al metodo tradizionale di presentarsi in ordine sparso!). Resta, comunque, altrettanto difficile negare l’esistenza del problema posto dalla mancata firma del sindacato più rappresentativo. Non solo per la prevedibile più intensa stagione di conflitti e tensioni all’interno dei sindacati e tra questi e le imprese, ma anche per l’oggettivo ripresentarsi del tema della misurazione della rappresentanza, destinato ad alimentare con nuova benzina i già infuocati rapporti intersindacali.
Così l’affermazione secca di Pezzotta che l’unità sindacale “resta un obiettivo. Ma non per dopodomani” (Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2003) si accompagna alle dichiarazioni a caldo del segretario generale della Cgil, Epifani, sulle gravi conseguenze che l’intesa separata del contratto dei metalmeccanici potrà avere sui rapporti sindacali in quanto rappresenta “una sconfitta per i lavoratori sia per i contenuti normativi sia per quelli retributivi”. Sono proprio queste affermazioni a segnalare l’emergere dell’intreccio perverso richiamato sopra. Un intreccio che tende ad offuscare, speriamo non a smentire, le precedenti importanti volontà espresse dalla stessa nuova dirigenza della Cgil di ritornare a fare sindacato, di estendere le tutele dal lavoro flessibile, di ricominciare ad occuparsi dei temi sindacali indicati dalla stessa relazione di Epifani: pensioni, politica economica e industriale.
Ma dall’intreccio perverso tra dissensi di natura strategica e pratica negoziale sindacale non sono state esenti neppure Cisl e Uil, a partire dalle perplessità sollevate dalla firma separata del Patto per l’Italia. Tornerò sul problema dei rapporti tra sindacato e Governi “ostili” o comunque “non amici”, secondo la efficace immagine utilizzata da Treu in un precedente intervento sul Diario del Lavoro (8 aprile 2003). Qui interessa soprattutto ribadire la legittimità delle ragioni di tali organizzazioni a trattare materie sindacali con qualsiasi tipo di Governo, di centro-destra o di centro-sinistra, nel rispetto della propria autonomia di azione. Ma anche osservare che i contenuti dell’accordo non possono essere esenti da una valutazione obiettiva, se si vogliono evitare le altrettanto legittime critiche di bipolarismo o, peggio, di scelta ideologica. E ancora una volta, l’essersi presentati in ordine sparso ha dato torto (leggi: risultati negoziali in perdita) a tutte e tre le confederazioni. Ritengo che solo la (auto)valutazione pragmatica e serena dei contenuti degli accordi finora sottoscritti, di quelli in forma separata, dal Patto per l’Italia al primo Patto di Milano, ma anche e soprattutto di quelli relativi ai rinnovi dei contratti nazionali dei lavoratori metalmeccanici, delle ferrovie, delle telecomunicazioni, del credito e di molti altri ancora, possa costituire l’unica concreta via di uscita per ricominciare davvero a “fare sindacato”.
Mi sia consentito rimandare alla lettura di un numero speciale del 1988 della storica rivista della Cisl milanese Prospettiva sindacale, dedicato ai “vantaggi e limiti dell’unità sindacale” (sic!), e ad un mio articolo in esso contenuto dal titolo “Le rotture negoziali: prevedibili o imprevedibili? Tradizionali o innovatrici?”. Come sostenevo allora, ancora oggi direi che le divisioni sindacali non sono mai state un bene per il nostro Paese (per fortuna, solo pochi ne sono davvero convinti, anche se tentano di nasconderlo dietro improbabili dichiarazioni di rincrescimento o vaga e ideologica difesa di supposti interessi generali). Ma in certi frangenti o nella fasi di ripensamento delle stesse strategie sindacali esse possono contribuire a chiarire e a mettere sul tavolo le diverse posizioni che richiedono di essere ricomposte per il futuro dell’azione sindacale.
Il punto critico oggi, a differenza del passato, come ricordato sopra, resta il contesto politico ostile o comunque non amico nel quale si devono muovere i sindacati italiani. Non può certo sorprendere il fatto che un Governo di centro-destra miri a ridimensionare il potere dei sindacati. Di solito, ciò avviene perché, nei termini del classico gioco a tre, due attori possono allearsi per indebolire il terzo. Esistono esempi storici in questo senso. Si pensi alla legislazione del Governo Thatcher degli anni Ottanta, con il progressivo smantellamento del potere delle Unions inglesi, oppure al licenziamento in tronco negli Stati Uniti dei 13 mila controllori del traffico aereo in sciopero, deciso dall’amministrazione Reagan nel 1981.
L’attuale Governo italiano non sembra avere né il consenso né la coerenza interna per simili radicali programmi neo-liberisti. Perciò appare meno comprensibile l’obiettivo di giocare su o addirittura favorire le divisioni sindacali o peggio il bipolarismo sindacale, come risulta da gran parte della sua politica del lavoro finora sviluppata in maniera alquanto contraddittoria se non schizofrenica. Affermazioni quali quelle del sottosegretario al Lavoro, Sacconi, che esprime “né interesse né disinteresse per l’unità sindacale” o che dà pagelle di “modernità” agli uni e definisce “antistorici” gli altri, o che ancora indica come modello sindacale “collaborativo e partecipativo” quello di Cisl, Uil e Ugl e “conflittuale” quello della Cgil (Il Corriere della Sera, 1 maggio 2003), segnalano una forte anomalia rispetto al comportamento dei precedenti Governi della nostra storia democratica e repubblicana. In passato, il ministero del Lavoro di qualsiasi Governo nazionale si era limitato al massimo ad esercitare, quando necessario, un ruolo di mediazione, mentre ora tende sempre più a ritagliarsi un intervento diretto nelle vicende intersindacali con una invasione di campo dell’autonomia delle parti sociali.
Questo nuovo e inconsueto orientamento strategico, non conforme alle stesse regole prevalenti nell’Unione europea, risulta paradossalmente speculare a quello sindacale “antagonista” che intende combattere, ponendo così in evidenza una cultura superficiale delle relazioni industriali, ovvero il fastidio di prendere in considerazione i sofisticati e pur faticosi equilibri indispensabili per combinare e negoziare tra i molteplici e diversi interessi di una grande economia matura. Ad emblema di una certa visione manichea dei rapporti sindacali può essere indicata la sostituzione della pratica della concertazione (che ci è stata invidiata da tutto il mondo per il raggiungimento degli obiettivi di politica dei redditi che ha reso possibile in un grande Paese moderno) con quella del dialogo sociale che, a differenza di quanto si intende a Bruxelles, come chiarisce bene Giuliano Cazzola, ma forse non ce n’era bisogno, libera l’azione dell’esecutivo dall’obbligo di “essere vincolata al consenso di tutte le organizzazioni” (Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2003).
Si tratta di strategie selettive difficilmente condivisibili, soprattutto tra la maggior parte di coloro che operano da anni nel campo delle relazioni industriali o che si occupano dei problemi del lavoro. Anche per il fatto che troppo spesso, in passato, tali strategie sono state all’origine di effetti boomerang per chi le ha promosse. Si pensi alla frammentazione della rappresentanza sindacale in alcuni settori, quali il trasporto aereo e quello ferroviario, oppure in aziende e comparti dei servizi, all’inizio accolta imparzialmente quando non favorita dalla azione imprenditoriale o statale, ma in seguito temuta per gli effetti devastanti della più diffusa vertenzialità e dei conflitti incontrollabili.
Come giustamente conclude il rapporto Supiot redatto per la Commissione europea sul futuro del lavoro (Au-delà de l’emploi, Flammarion, 1999), le forme di azione e rappresentanza sindacale sono sempre “strettamente legate alle forme di organizzazione del lavoro nelle imprese”. Imprenditori e Governi non possono quindi limitarsi a distribuire voti ai buoni e ai cattivi, ma dovrebbero piuttosto sentirsi vincolati, insieme ovviamente agli stessi lavoratori e sindacati, ad entrare nel merito dei problemi del lavoro, economici e normativi. L’unità sindacale è innanzitutto un problema interno del sindacalismo confederale, ma la sua soluzione dipende molto dagli ostacoli o dal riconoscimento delle controparti, come è ovvio che sia. Il diffuso disinteresse se non addirittura il malcelato compiacimento, verso le drammatiche divisioni, lacerazioni e difficoltà del sindacalismo confederale di questi giorni non sono certo di buon auspicio.
Resta comunque la convinzione che proprio dal suo interno il sindacalismo confederale possa trovare quelle risorse per ricominciare a tessere di nuovo un dialogo unitario sui temi propriamente sindacali, sulle politiche industriali, sullo sviluppo del Mezzogiorno, sulle pensioni, sulla prossima scadenza del 23 luglio, secondo quanto dichiarato dagli stessi protagonisti prima di quegli assurdi e oltraggiosi fischi in piazza. Vale la pena, quindi, di continuare a credere alle intenzioni di fondo, unitarie nonostante tutto, di Epifani, Pezzotta e Angeletti, e richiamarsi alla (quanto mai lontana…) intervista del primo a Repubblica dell’8 aprile scorso, in cui sosteneva che “in otto materie su dieci” esiste di fatto l’unità sindacale. Da lì converrebbe per tutti ripartire.