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Home - Approfondimenti - Analisi - Le scelte della Cgil e il peso della sua storia

Le scelte della Cgil e il peso della sua storia

24 Aprile 2003
in Analisi

di Andrea Ciampani – Professore di Storia del movimento sindacale e delle relazioni industriali all’Università Lumsa

1. Non capita spesso di veder emergere nel dibattito pubblico una riflessione sul significato del passaggio drammatico che la Cgil sta affrontando. Le dinamiche di quella che è stata la più importante organizzazione sindacale comunista nel mondo occidentale sono tanto poco approfondite quanto più sembrano note, predeterminate e quasi rituali. Così, alcuni si limitano a registrare la centralità della Cgil nel sistema delle relazioni industriali e nella triangolazione tra forze sociali, partiti e governo. Altri rilevano come la sua cultura pesi ancora come un «macigno», per usare un’espressione di Giulio Sapelli, sull’esigenza di cambiamento del movimento sindacale.

Dunque, mentre i giornali titolano sulla possibile «riconversione della Cgil» appare inevitabile leggere i suoi movimenti interni in relazioni a quelli di Cofferati, collocatosi ormai apertamente nell’agone politico, o di coloro che nella sinistra li vogliono contrastare.

Ma, in una più ampia prospettiva, può essere interessante richiamare la novità del bivio che oggi la Cgil si trova ad affrontare. Da un lato, essa è tentata di ripercorrere, sia pure con una più faticosa costruzione, quei processi che hanno più volte consentito all’organizzazione di riconquistare la scena politica dopo una fase di crisi. Dall’altro, la Cgil può percepire l’impossibilità di sfuggire all’emarginazione nelle trasformazioni economiche, sociali e politiche dal carattere epocale senza affrontare un ripensamento della stessa natura sindacale che si vuole affermare.


 


2. Dagli anni Cinquanta in poi, mentre nello scenario delle relazioni industriali apparivano gli attori che hanno caratterizzato le dinamiche sociali della democrazia italiana, la Cgil ha continuato a rivendicare la sua natura di sindacato generale e la sua vocazione «politica». Questa concezione della propria presenza sindacale le ha consentito di utilizzare un’ampia gamma di opzioni tattiche, di scarti e rientri. I mutamenti di linea che potevano comportare una perdita d’identità erano metabolizzati dalla continua mobilitazione dell’organizzazione e della progressiva crescita del Partito comunista. Occorreva sostenere il progressivo inserimento del Pci all’interno dei processi di decisioni politiche come responsabile del consenso dell’opposizione sociale che ad esso affidava le sorti della propria emancipazione.


Così, dopo la caduta alle elezioni delle Commissioni interne alla Fiat negli anni Cinquanta o dopo la sconfitta sul referendum sulla scala mobile negli anni Ottanta, la Cgil ha seguito lo stesso percorso per recuperare, contro avversari politici e sindacali, il centro delle relazioni industriali: ha serrato le fila organizzative, ha mostrato i muscoli dell’antagonismo, ha chiesto la conta nel movimento sindacale; per gettare tale prova di forza all’interno di un processo riformatore e di scambio politico alternativo a quello socialista e indirizzato dalle scelte del partito comunista.


 


3. Come in passato anche oggi, dopo aver stretto i ranghi organizzativi, dopo essersi imposta nell’antagonismo al governo Berlusconi, la Cgil potrebbe rilanciare una proposta sindacale più moderata con l’obiettivo di consolidare la propria leadership organizzativa tra i lavoratori. Ma dopo il crollo del Muro di Berlino, scomparso il Pci e il suo successore Pds, la Cgil non trova più nei Ds quel protagonismo del «partito dei lavoratori» necessario ad impedire una frattura d’identità.


Da qui l’ipotesi di ricostruire per la Cgil un credibile un punto di riferimento nei partiti della sinistra politica. Se riuscisse questa operazione, grazie all’attività degli uomini con essa formatisi negli anni passati, l’approdo non sarebbe una permanente conflittualità, ma la ritrovata centralità della Cgil – scossa dal mutamento del lavoro e dalle iniziative degli altri attori sindacali – in un consolante schema neocorporativo che alcuni governi e settori industriali hanno in passato apprezzato. In altra sede sarà forse possibile riflettere sull’eventuale fallimento di questa strategia.


 


4. In ogni caso, percorrendo questa strada e rinunciando a prendere atto dell’ampiezza dei cambiamenti intervenuti, la Cgil corre il rischio di condannarsi all’emarginazione dalla trasformazione epocale in corso nelle relazioni tra attori politici e sociali, che ha iniziato a manifestarsi negli anni Ottanta e che si è fatta più evidente negli anni Novanta.


Già Aris Accornero aveva rilevato il definitivo esaurirsi della «incurabile l’ideologia»  del sindacato generale e  di quella «immagine di soggetto politico mediante la quale si fa credere che il sindacato possa impegnarsi per ‘schieramenti alternativi’». Ed ancora Alain Touraine fin dal 1991 osservava, intervistato da Rassegna Sindacale, che, alla luce del 1989 e degli avvenimenti seguenti, certamente la sinistra dovesse prendere atto che «un modello politico è definitivamente tramontato: quello giacobino statalista, fondato sulla presunzione del primato della politica rispetto a quello della società, l’emancipazione della quale – secondo tale modello – non andava affidata alle forze sociali, ma a quelle politiche, alla lotta per il potere, per la conquista dello Stato liberale».


 


5. Per dare un contributo nelle nuove dinamiche sociali di una società democratica poliarchica la Cgil deve dunque affrontare il nodo della impossibile continuità con la sua storica concezione sindacale. E’ la strada di sincero confronto con l’intero movimento sindacale che ha iniziato a realizzare la rappresentanza sindacale di una forza sociale capace di essere partner responsabile di un processo di democrazia e sviluppo dell’Italia e dell’Europa. La Cgil non può limitarsi a considerare convergenze pragmatiche le iniziative che si trova a  condividere con Cisl e Uil,  se è vero che dal 1992 la Cgil è entrata a far parte, con il loro necessario consenso, di quella confederazione internazionale dei sindacati liberi che per quattro decenni aveva avversato.


Nel passato gennaio, prendendo atto delle trasformazioni della realtà in cui vede immersa la Cgil, Antonio Panzeri ha invitato la propria organizzazione a non ignorarle: «Se cambia tutto il contesto politico e sociale, ciò significa che si aprono anche per noi  essenziali problemi di strategia.» E’ lecito, dunque, domandarsi se la Cgil di Epifani saprà sviluppare senza reticenze una riflessione sulla propria natura sindacale – iniziando col rinunciare a una legge sulla rappresentanza sindacale – perché nello sviluppo del pluralismo e della responsabilità di una società democratica la Cgil non resti «una pedina da manovrare nello scacchiere politico, ma una grande organizzazione sociale».


 

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