di Guido Fantoni – presidente Aran
Un nuovo patto costitutivo per le relazioni industriali, quale si configura nella proposta formulata all’assemblea di Federmeccanica dal vicepresidente di Confindustria, Alberto Bombassei, risponde ad una oggettiva necessità sia dell’attuale sistema di relazioni industriali, sia di quello che viene comunemente chiamato il sistema Paese. Al suo centro dovrà esserci la riforma della contrattazione, e su questo terreno sembra altrettanto necessario chiarire che un tale patto deve coinvolgere direttamente il Governo, anche – ma non soltanto – per il suo ruolo di datore di lavoro nei confornti di milioni di dipendenti. Di conseguenza, quando si discute di un nuovo sistema contrattuale è bene ragionare anche in termini di settore pubblico. Si può partire da un giudizio sull’accordo di luglio ’93 in base all’esperienza compiuta sul versante pubblico.
I giudizi, le valutazioni, le proposte di modifica dell’accordo di luglio e, in specifico, sulla struttura contrattuale scontano una visuale tutta incentrata sull’impresa privata. In realtà l’accordo è stato applicato anche nel settore pubblico, e non senza conseguenze positive sul deficit italiano : ricordiamo che la voragine sui conti pubblici a seguito dell’accordo sindacale nella scuola del 1990 portò alla maximanovra di Amato del 1992 e fu concausa non secondaria all’accordo del 1993, che applicato anche al pubblico insieme alla pressoché contemporanea “scesa in campo” dell’Aran aprì una stagione di moderazione sindacale anche fra i dipendenti pubblici. In questo senso, nel settore pubblico, l’accordo di luglio del ‘93, sostanzialmente funzionato.
Le convulsioni degli ultimi tempi sul contratto degli statali sono in realtà più dovute a quanto si sia o meno rispettata la tempistica contrattuale più che ad una crisi del modello.
E’ comunque evidente che una revisione debba essere condotta ed è anche evidente che sarebbe una iattura se si prefigurassero due sistemi di struttura contrattuale per il pubblico e per il privato. Una cosa è tenere conto delle differenze fra i settori, altra cosa dare una ulteriore mano alla tendenza, non più tanto sotterranea, alla nuova separazione fra pubblico e privato. Nel settore pubblico la contrattazione decentrata è diffusa dappertutto. I problemi sono di tenuta e di compatibilità con le esigenze di finanza pubblica ma la diffusione del secondo livello è un dato acquisito.
Per il privato molte sono le domande, non del tutto diverse dal pubblico: che ruolo deve avere il contratto nazionale? Un ruolo di garanzia? Un ruolo più normativo e di definizione del tabellare? E per contrattazione decentrata si intende solo quella aziendale o anche la territoriale? Che cosa intendiamo per produttività? Che tipi di produttività vi sono e a quali livelli sono individuati e quindi, distribuiti? Anche se può sembrare un sistema complesso, non escludo che il sistema di decentramento possa essere modulato con momenti territoriali ( forse più sull’applicazione di alcuni istituti normativi definiti a livello nazionale ) e momenti aziendali (più sul versante economico). La modularità del sistema potrebbe favorire anche un tendenziale allargamento della contrattazione decentrata ( prima si garantisce un sistema territoriale, poi via via ci si allarga). Il livello territoriale potrebbe anche non essere una vera e propria contrattazione ma, più che altro, una erogazione di “servizi” alla contrattazione, una fase propedeutica. Nel pubblico, forse, avrebbe il pregio di tenere sotto controllo gli eccessivi costi e l’effettiva virtuosità della contrattazione, fornendo nello stesso tempo supporto alla controparte datoriale , eccessivamente carente sul versante contrattuale (con effetti negativi su tutto il sistema). Nel privato sarebbe forse un elemento di garanzia e di tendenziale effettività della contrattazione, limitando le paure e i dubbi sullo spostamento sul secondo livello.
La produttività. Chiariamo un punto: sono apparsi articoli ed è diffusa un’opinione secondo cui nel settore pubblico non sia praticamente possibile misurare produttività o criteri analoghi di miglioramento. Sembrerebbe quasi che si parli del pubblico ma si intenda anche il privato. Parlando del nostro settore deve essere chiaro che le molte amministrazioni pubbliche che erogano servizi( e che sono la maggioranza) possono misurare la “ produttività” e l’efficienza.
Indicatori come il numero di cittadini raggiunti in più da questo o quel servizio, in meno tempo e con maggiore soddisfazione sono possibili. L’abbattimento delle liste di attesa nelle Asl non è un obiettivo poco importante. La semplificazione amministrativa, i tempi per le autorizzazioni sono parametri effettivi. Questa misurazione della produttività può riguardare anche amministrazioni centrali: anni fa, la diminuzione dell’arretrato dell’Inps sui tempi per l’erogazione delle pensioni non fu un fatto marginale.
Possono esistere problemi per i ministeri, certo, in cui minori o assenti sono i servizi direttamente erogati ai cittadini (quindi più facilmente misurabili), ma anche lì si potrebbe fare molto: semplificazione delle procedure, innovazione dei processi e dell’organizzazione, riduzione dei costi di funzionamento della macchina – i costi interni – abnormemente alti rispetto al privato ecc. E poi, sia i media, sia anche molti “esperti” dovrebbero finire di considerare parametro unico di giudizio della P.A. i ministeri che, ricordiamo, impiegano 300.000 dipendenti su 2.900.000 lavoratori pubblici cd “contrattualizzati”.
Anche in un settore storicamente poco disponibile su questo terreno, come i docenti della scuola, è sempre più sentita, anche da parte delle famiglie, una richiesta di strumenti di valutazione.
Insomma, se si può fare nel pubblico…..
Altra questione riguarda invece la cosiddetta “produttività di sistema”. Su questo sono scettico o, almeno, lo sono per il settore privato, caratterizzato comunque dal lato competitivo fra aziende merceologicamente affini. Un po’ diversa è la questione per il pubblico: ritornando alle liste di attesa nelle Asl, spesso la questione si affronta e si risolve al livello regionale. Molti comuni si consorziano per erogare servizi comuni. E’ individuabile una produttività di sistema territoriale e, forse, anche una nazionale o per macroregioni. Certo, deve essere chiaro a tutti che la prima vera modifica della struttura contrattuale è la modifica della struttura retributiva. Governo, Regioni, autonomie locali e, dall’altro versante, i sindacati devono rendersi conto che non vi può essere efficienza e produttività senza consistenti risorse destinate, in modo effettivamente premiante e incentivante, alla retribuzione accessoria.
In questo senso, inoltre, non da oggi, l’Aran lamenta il fatto che la definizione esplicita, in Finanziaria, delle disponibilità per i rinnovi contrattuali limita per la parte datoriale ed disponibilità di un’arma potente nella contrattazione e limita fortemente o annulla qualsiasi politica retributiva incentivante. Se a questo aggiungiamo, come in questo biennio 2004/2005, il ritardo nella contrattazione, qualsiasi ipotesi di destinare risorse non al tabellare o ad incentivazioni “ a pioggia” diventa una pia illusione.
C’è poi un ulteriore punto, a mio avviso, che deve essere posto al centro del dibattito sulla riforma dell’accordo di luglio ’93 e della struttura contrattuale, ossia la questione della rappresentatività sindacale. Nel settore pubblico il sistema di rappresentatività ha dato certezza, trasparenza e solidità a tutto il sistema contrattuale. Ha reso trasparenti i reali rapporti di forza tra le organizzazioni sindacali, ha rafforzato la tenuta dei contratti stipulati: certo, la possibilità di rimessa in discussione o di scavalcamento dei sindacati rappresentativi è sempre possibile – direi, per fortuna (e noi lo sappiamo bene: vedi il cd. “concorsone” dei docenti) – ma almeno si naviga su dati reali. Vorrei ricordare che anche nel settore pubblico, prima del bagno di democrazia delle elezioni sindacali per le Rsu, molti ritenevano che i “sindacati di mestiere” fossero molto più forti di Cgil, Cisl e Uil e molti erano i “corteggiamenti” verso di essi. Dopo, la situazione si è chiarita, e di molto.
Per il settore privato la questione della rappresentatività, ovviamente , dovrebbe avere suoi tempi e sue differenziazioni. Nessun sistema di questa rilevanza può essere applicato in modo automatico e inutilmente rigido: non a caso precedenti tentativi sono falliti. Però una prospettiva di questo tipo è, a mio avviso, non rinviabile, e troverebbe ulteriori motivi di interesse proprio ove si procedesse ad eventuali modifiche della struttura contrattuale. Un decentramento contrattuale deve essere accompagnato da un sistema di rappresentatività che può svolgere una funzione di garanzia e di tenuta di un sistema contrattuale che, decentrandosi, può rischiare di sfuggire alla relazione con i sindacati tradizionali o assumere connotazioni di “giallismo” sindacale. In questo modo si può contribuire a rassicurare molti settori sindacali (presenti non solo in Cgil) che temono la mancanza di reti di sostegno e di promozione alla contrattazione, soprattutto decentrata.