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Home - Rubriche - Poveri e ricchi - L’imbuto in cui si è infilato il governo

L’imbuto in cui si è infilato il governo

di Maurizio Ricci
4 Febbraio 2019
in Poveri e ricchi, Blog
L’imbuto in cui si è infilato il governo

Il governo si è infilato in un imbuto. Se guardasse un po’ più in là del proprio naso, ne sarebbe molto preoccupato: il 2019 è partito male, il 2020 rischia di essere un incubo. Ma è probabile che il naso, appunto (cioè le elezioni europee), sia l’orizzonte più lontano cui si spinge lo sguardo da Palazzo Chigi. Chi segue la politica ha annotato con cura i sondaggi, da cui risulta che il gradimento del governo è assai superiore al favore che incontrano le sue riforme più importanti, reddito di cittadinanza e pensioni. Il governo Conte, insomma, viaggia su una apertura di credito che, prima o poi, si esaurirà. Le elezioni europee di fine maggio sono uno spartiacque che fa comodo a entrambi i contraenti del contratto di governo siglato, giusto un anno prima. I 5Stelle ci arriverebbero con il reddito di cittadinanza che sta entrando in funzione e prima che ne emergano i limiti, i vincoli e, soprattutto, le esclusioni. La Lega, avendo portato a casa – oltre al giro di vite sui migranti e sulla legittima difesa – la revisione delle autonomie regionali che premia Veneto e Lombardia: quasi un en plein. A quel punto – sempre secondo gli analisti politici – le Europee daranno il loro verdetto. Un trionfo previsto per la Lega, un bagno di umiltà per i 5Stelle. Allora, la crisi di governo e nuove elezioni serviranno alla Lega per passare all’incasso, ma anche ai 5Stelle, che possono pensare di recuperare consensi, in un voto a loro molto più congeniale di quello europeo.

Potrebbe, insomma, non essere il governo Conte quello che si trova nell’imbuto. Ma l’imbuto c’è e Conte o un altro dovranno riuscire a passare dall’altra parte, superando la strettoia di un’economia in asfissia nel 2019 e a rischio implosione nel 2020. Per un verso, grillini e leghisti sono stati sfortunati: hanno steso il loro contratto con una economia – italiana e internazionale – ancora in espansione e si sono trovati a navigare con il mondo in frenata. Ma sono loro che hanno portato la nave sott’acqua. Tutto sommato, infatti, anche con la congiuntura avversa, le esportazioni hanno continuato a tirare. Da giugno ad oggi, quella che si è fermata è la domanda interna. Neanche i consumi, ma gli investimenti, scesi dello 0,1 per cento fra giugno e ottobre (ultimo dato disponibile). Con un eufemismo ormai consolidato, le diagnosi (dal governatore della Banca d’Italia agli analisti delle grandi banche di investimento) attribuiscono lo stop alla “incertezza politica”. In soldoni: lo scontro con l’Europa e i mercati sulla Finanziaria 2019 ha fatto schizzare lo spread e il costo del debito pubblico, zavorrando i conti del disavanzo, ma compromettendo anche i bilanci delle banche, con i forzieri pieni di titoli di Stato. Risultato? Le banche hanno ridotto i prestiti alle imprese e li hanno resi più costosi: siamo l’unico paese europeo, certifica la Bce, in cui questo sta avvenendo.

Difficile – con la recessione che aumenta il rischio di credito – che la stretta si allenti nei prossimi mesi. Con l’aria che si respira intorno alla Tav, difficile anche credere ad un impulso che venga dagli investimenti pubblici. Come fa, allora, il presidente del Consiglio, Conte a parlare di un 2019 “bellissimo”? Se sa quel che dice, punta sull’effetto espansivo dei sussidi che il governo distribuirà con il reddito di cittadinanza e con i pensionati ex Fornero. Ma è uno stimolo del tutto teorico. Chi ha fatto i calcoli dice che, al massimo, la decina di miliardi di euro che il governo inietterà nel sistema daranno una spinta pari allo 0,2 per cento del Pil. Esattamente l’ammontare della controspinta negativa che, al pil 2019, sarà il trascinamento dei sei mesi di recessione del 2018. In altre parole, così non si va da nessuna parte. E un 2019 con una crescita che oscilla fra lo 0 e lo 0,4 per cento trascina il ristagno sull’anno più difficile, il 2020.

Eccolo, l’imbuto. Lo si può descrivere con due numeri, 18 e 23, quelli che il governo ha tirato fuori dalla manica per uscire dall’impasse con la Ue sulla Finanziaria. Diciotto miliardi è l’entità delle privatizzazioni che il governo si è impegnato a fare (e a Bruxelles hanno fatto finta di credere) quest’anno, per mettere a segno una diminuzione, almeno simbolica, del debito pubblico. Una cifra mai vista nel bilancio italiano e a cui credono in pochi. Ma quando, a fine anno, si faranno i conti, i mercati registreranno che il debito non è sceso e – forse – è aumentato: la reazione potrebbe far schizzare lo spread. A quel punto, comunque, saremo in piena tempesta per l’altro numero. Ventitre sono i miliardi di euro che il governo ha promesso di rastrellare, per pagare reddito di cittadinanza e pensioni anticipate nel 2020, con un aumento dell’Iva. E’ una cifra che vale l’1,3 per cento del Pil. Se il governo non rispetta l’impegno ad aumentarla, il disavanzo pubblico 2020 sfonda il 3 per cento, con successivo terremoto europeo. Se l’aumenta, rischia di strangolare i consumi, in un momento in cui l’economia già stenta. Se cerca i 23 miliardi da un’altra parte, è costretto a tagli selvaggi alla spesa pubblica, con effetti ugualmente negativi (oltre che sulla sua salute politica) sulla congiuntura. Forse, più che un imbuto, è uno schiaccianoci.

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Maurizio Ricci

Maurizio Ricci

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