di Enrico Tosco – Responsabile Relazioni Sindacali e Caring alle persone Gruppo Tim
Il tema dei rapporti tra la competitività e il mercato del lavoro è spesso al centro delle riflessioni di chi opera nel mondo del lavoro e dell’impresa con posizioni spesso diversificate, che si manifestano in richieste di intervento, al Governo e alle parti sociali, per definire o modificare ora questo ora quell’aspetto.
Su un punto si registrano i maggiori consensi: la competitività di un sistema produttivo si misura in gran parte sulla sua capacità di innovazione, intesa non solo come innovazione di prodotto e tecnologie, ma anche di processo e di metodi di lavoro. L’innovazione consente di incrementare il valore di prodotti e servizi e mantenere così la competitività del sistema, contrastando tra l’altro – con l’arricchimento del valore di processi/prodotti – il differenziale del costo del lavoro dei Paesi in via di sviluppo.
L’altro punto su cui spesso si converge è quello della flessibilità: tutti la chiedono, ma non tutti poi la applicano, o per lo meno non ne sfruttano tutti le possibili forme applicative. Un esempio è la riforma Biagi: delle forme contrattuali da essa previste alcune sono ormai consolidate (il lavoro temporaneo su tutte), altre stentano a partire o a svilupparsi nonostante i numerosi provvedimenti applicativi che il ministero del Welfare da un lato e la contrattazione collettiva dall’altro hanno prodotto negli ultimi mesi.
Su innovazione e flessibilità qualche riflessione merita di essere fatta, naturalmente senza la pretesa di esaustività, ma con l’auspicio di fornire spunti per ulteriori considerazioni. Sul primo punto va risottolineato che l’attore principale dell’innovazione (e della produttività) è la persona che lavora. Occorre allora riscoprire il legame profondo tra le risorse immateriali dell’azienda (i c.d. intangible assets) e le sue risorse umane, e valorizzarlo attraverso adeguati investimenti in capitale umano. L’introduzione di nuove tecnologie e il cambiamento dei processi richiedono non solo che le persone applichino le loro conoscenze/competenze, ma anche la loro voglia di imparare, di (ri)mettersi in gioco: sono le persone che attuano il cambiamento, ma sta all’azienda investire nella loro continua formazione e stimolarne la motivazione.
Questo si traduce, da un lato, nella necessità di collaborazione e sinergie crescenti tra imprese e sistema di istruzione (università, istituti di ricerca, sistema scolastico secondario) per aumentare la capacità delle imprese di incidere sul processo di formazione del patrimonio umano, aumentando la qualità delle risorse umane a cui accedere; dall’altro, in un continuo processo di empowerment (formazione, responsabilizzazione, delega) delle risorse umane all’interno dell’impresa. Occorre rendere le persone protagoniste del lavoro, porle al centro dei processi di creazione di valore, generando in tal modo una capacità dell’impresa di attrarre, trattenere e motivare i talenti migliori e un aumento della volontà/capacità performante delle persone.
In un contesto competitivo in cui innovazione e qualità sono elementi essenziali, la collaborazione attiva dei lavoratori è indispensabile, e, conseguentemente, la fidelizzazione del lavoratore è vantaggiosa per entrambe le parti. Questo non significa un giudizio negativo sulla flessibilità delle forme di rapporto di lavoro, ma una sua più precisa qualificazione: l’impresa non ha come scopo la flessibilità, che è invece uno strumento. L’impresa investe sulle proprie risorse umane per trattenerle e aumentarne la capacità di produzione di valore.
D’altro canto, vista dal punto di vista del costo del lavoro, non sempre la maggiore flessibilità ne implica una riduzione (cfr. il rapporto di lavoro temporaneo, tra le forme più diffuse di rapporto di lavoro atipico). La teoria economica suggerisce, anzi, che le nuove tipologie di contratto, anche se consentissero salari più bassi – e qui si aprirebbe un ampio capitolo, non esauribile in poche righe, sugli interventi strutturali necessari a garantire una dinamica contenitiva del costo del lavoro che non implichi una analoga dinamica delle retribuzioni – sono intrinsecamente meno produttive, e quindi più costose, in quanto la non continuità del rapporto genera maggiori costi in termini di addestramento, affidabilità e qualità del lavoro. (1)
Se tutto questo è vero, il rischio di una diminuzione generalizzata delle tutele paventata da una parte del sindacato è in realtà un rischio anche per le imprese, in quanto genera nel lungo periodo effetti negativi sul livello di motivazione, appartenenza, capacità di generazione di valore da parte delle persone. Una risposta può essere ricercata sul versante della struttura retributiva: una maggiore rispondenza dell’assetto retributivo agli effettivi risultati della prestazione consentirebbe un aumento della produttività del lavoro sostenibile con i sistemi di tutele e diritti costruito dalle parti sociali negli anni.
E’ stato autorevolmente detto su queste pagine da Massimo Mazzetta che su questo tema il compito del sindacato è assai gravoso in termini di superamento di vecchi paradigmi (egualitarismo, difesa d’ufficio dei lavoratori) e di accettazione di nuovi concetti (responsabilizzazione del singolo, meritocrazia, variabilità). E’ certamente vero, ma implica la costruzione di una relazione che è responsabilità anche della parte datoriale. Una contrattazione collettiva che si concreti in forme di regolazione della prestazione e della retribuzione più flessibili implica una relazione tra le parti oggi non sempre presente, basata su un reciproco credito che può essere costruito solo con una continuità e lealtà di rapporto improntata all’apertura, al confronto serio, alla ricerca di soluzioni per il bene comune, alla messa in discussione delle proprie posizioni, al superamento di diffidenze reciproche, alla esplicitazione e al confronto sulle ragioni delle proprie posizioni, alla verifica della positività delle soluzioni raggiunte.
Innovazione vuol dire anche innovazione nelle relazioni industriali: la costruzione di un cambiamento del sistema produttivo che porti a un reale aumento della sua competitività e quindi della sua capacità di generare benessere per la società non può prescindere da una sistema di relazioni industriali che ponga al centro la persona e i suoi bisogni, unico punto di sintesi degli interessi delle imprese e dei rappresentanti dei lavoratori.
(1) Sul punto cfr. G. Rodano, Aspetti problematici del D. Lgs. 276/2003. Il punto di vista delle teoria economica, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, n. 103, pp 435 ss.