L’aria che tirava era già quella in tutto l’Occidente: più spazio all’intervento statale, ad una regia centrale dell’economia, al ruolo della domanda pubblica. La pandemia ha fatto, insomma, sbiadire gli anni ’80 del thatcherismo e riemergere gli anni ’70 del keynesismo. Ora, ad allontanare i precetti del neoliberismo entrano in scena la destra inglese e gli eredi diretti della stessa Thatcher: a sdoganare la marcia indietro sulle privatizzazioni ci ha pensato il premier conservatore Boris Johnson, annunciando il ritorno delle ferrovie britanniche (una icona mondiale delle privatizzazioni) sotto l’ombrello del potere pubblico.
Su questa strada, l’Italia, però, era già un pezzo avanti. Ilva, Alitalia, Autostrade, Montepaschi, banda larga. In parte per convinzione, in parte per necessità, gli ultimi governi hanno tutti seguito la strada che rimette lo Stato nel cuore di snodi fondamentali dell’economia nazionale. L’errore, però, sarebbe tornare a farne una questione di ideologia. Come non era vero che, pregiudizialmente, “privato è meglio”, non è neanche vero che, per principio, pubblico sia la soluzione. I casi di ritorno dello Stato (direttamente o attraverso gli schermi di Invitalia o Cassa Depositi e Prestiti) in dirittura d’arrivo sono, infatti, uno diverso dall’altro e, spesso, più che una conquista, si tratta di una sconfitta: lo Stato interviene perché non è riuscito a svolgere il suo ruolo nel modo più efficiente.
Montepaschi, Ilva, Alitalia. Qui, il ritorno dello Stato si configura come vero e proprio salvataggio, vecchio stile. Cioè nello stile Petrilli, Fanfani, Iri, Efim, Gepi, il lato oscuro degli anni ’70. Non c’è motivo per cui debba essere lo Stato ad occuparsi di attività che stanno sul mercato, si confrontano con altri concorrenti, dovrebbero generare profitto. Tanto vale tornare a produrre gelati e panettoni. Sappiamo già dall’era delle Partecipazioni Statali che i rischi di distorcere la concorrenza, di tenere in vita aziende decotte, di gettare soldi a fondo perduto sono troppo alti. E in tutti e tre i casi, infatti, i governi sono intervenuti con molta riluttanza e con l’intenzione dichiarata di uscirne il prima possibile. Il problema è che, nella fretta di tamponare l’emergenza, si è pagato un prezzo salato: l’assenza di una vera e propria strategia che desse prospettiva all’intervento (e ad una rapida uscita dello Stato).
Era meglio restarne fuori, allora? No, in due casi su tre, l’intervento era inevitabile.
Montepaschi. Il governo non poteva lasciare andare alla deriva un pilastro del sistema finanziario italiano. La banca di Siena non è un istituto regionale, di respiro e interesse locali. È ai primi posti per numero di sportelli, per crediti concessi, per numero di clienti. Soprattutto in un momento in cui le banche che traballavano, in Italia e in Europa, erano tante e le regole europee per gestire le crisi molto stringenti, liquidare Montepaschi avrebbe aperto un buco molto pericoloso. Vedremo se il governo, come ha fatto con le banche venete e Intesa, riuscirà a scaricare la banca di Siena a Unicredit e a che prezzo, chiudendo questa partita.
Ilva. L’intervento statale è giustificato dal carattere strategico che l’impianto di Taranto ha per l’intera economia italiana. È uno dei più grandi impianti a ciclo integrale d’Europa e l’unico in Italia. Ovvero produce un acciaio che l’altra siderurgia, quella del riciclo di materiale rottamato, assai fiorente in Italia, non è in grado di fornire. Perché solo con il ciclo integrale che parta dalle materie prime si ottiene l’acciaio “dolce”, come lo chiamano gli addetti, di cui ha bisogno, ad esempio, l’industria dell’auto. È difficile pensare che, senza l’intervento – e i soldi – dello Stato, si possano coniugare il mantenimento del ciclo integrale e l’esigenza di bonifica ecologica dell’impianto. Soprattutto, se la strada da percorrere è l’avventura – caldeggiata a livello europeo ma tutta da verificare con le dimensioni dell’Ilva – della riconversione a idrogeno.
Alitalia. Qui, invece, senza il mito e la leggenda della compagnia di bandiera, il salvataggio pubblico dell’Alitalia non trova spiegazione. Solo un passeggero su sei, in Italia, viaggia con la compagnia e, sui voli internazionali, già oggi il grosso delle rotte prevede il passaggio su altri aeroporti più grandi. L’erede di Alitalia è troppo piccola per competere e troppo grande per non continuare a perdere. L’ingresso dello Stato ha solo spostato la crisi un po’ più in là.
Autostrade e banda larga sono interventi radicalmente diversi da questi. Non sono salvataggi, ma interventi mirati. Questo, però, non ne rende più nitida la strategia.
Autostrade. Senza la tragedia del ponte Morandi, di pubblicizzazione della rete autostradale non si sarebbe parlato. Non era, però, una strada obbligata. Esiste già un ente pubblico che si occupa di strade (l’Anas), con un record, in materia di sicurezza, tutt’altro che privo di ombre. L’idea di affidare ai privati i tronchi più importanti e capaci di generare profitti, in cambio di investimenti, rispondeva ad una logica di efficienza. Il prerequisito indispensabile di questo sistema era tenere aperta la concessione, sottoponendo il concessionario alla concorrenza, e svolgere un controllo stringente e puntuale della sua attività. E’ questo che è soprattutto mancato e la scelta di rinazionalizzare il grosso delle rete autostradale è, in realtà, una sconfitta cocente per la capacità di controllo e garanzia dello Stato. Il fatto che la controparte, ora, diventi anch’essa pubblica non assicura affatto una maggiore capacità di controllo.
Telefoni. Nella privatizzazione dei servizi a rete (inevitabilmente monopolistici) è cruciale che la struttura della rete resti pubblica e i privati si confrontino alla pari nella fornitura dei servizi. All’epoca della privatizzazione di Telecom, per invogliare possibili investitori privati (come gli Agnelli, che però si defilarono ugualmente), si decise di lasciare la rete in mano alla stessa azienda. Continuiamo a pagare quell’errore. Gli effetti li possiamo verificare in tutt’altro campo. Nelle ferrovie, ad esempio, dove la distinzione puramente formale fra Trenitalia e Rfi (che possiede e gestisce stazioni e binari) sbilancia ogni possibilità di concorrenza nella fornitura dei servizi. Nel caso dei telefoni, la banda larga non decolla secondo le attese, perché Tim si separa malvolentieri dalla parte finale – in rame – della rete, quella che arriva nelle case, che è di sua proprietà e che figura fra le poste principali dei suoi attivi di bilancio. Ma, senza lo scorporo della rete, la concorrenza si impantana e se l’intervento dello Stato (via Cdp e Open Fiber) serve a blindare l’integrazione verticale fra Tim e la rete, la definizione più calzante per la (semi)rinazionalizzazione dei telefoni è che si tratti di un autogol.
Maurizio Ricci