L’USB e il Ce.In.G. (Centro Studi Iniziativa Giuridica) hanno lanciato il “Manifesto per un diritto del lavoro della pace” sottoscritto da associazioni, costituzionalisti, giuristi, avvocati del lavoro, sindacalisti ed esponenti di movimenti. Non un semplice appello per la pace (e contro la guerra), ma uno strumento concreto a sostegno di una lotta sindacale che raccoglie le istanze dei tanti lavoratori che si rifiutano di manovrare componenti belliche e collaborare all’economia di guerra per promuovere l’obiezione di coscienza. Ne parla in questa intervista l’avvocato Danilo Conte, tra i promotori dell’iniziativa.
Avvocato, lei è tra i promotori del “Manifesto per un diritto del lavoro della pace” sottoscritto da associazioni, costituzionalisti, giuristi, avvocati del lavoro, sindacalisti ed esponenti di movimenti. Da cosa nasce questa iniziativa?
Nasce da due punti che partono autonomamente e poi si incontrano. Bisogna innanzitutto menzionarne i soggetti promotori, l’Unione Sindacale di Base e il Centro Studi di Iniziativa Giuridica Ce.In.G, che hanno seguito la prima iniziativa sindacale in Italia di lavoratori contrari alle armi, quella dei portuali di Genova, di cui parlo anche nel mio libro Per giusta causa. Nel 2019, infatti, i portuali si rifiutarono di manovrare un carico di batterie per droni in partenza per lo Yemen trasportate da una nave saudita. In questi anni, poi, si sono costituiti come gruppo permanente e ogni volta che le armi sono in odore di arrivare a Genova si ribellano. Finora è stato un episodio abbastanza isolato, ma negli ultimi mesi l’attenzione al tema si è alzata, soprattutto nei porti. A Genova, infatti, si sono affiancate Livorno e altre realtà in giro per il mondo – come a Marsiglia, in Marocco, nel Pireo -, creando così un vero e proprio coordinamento di portuali. Lo scenario sta cambiando: un piano di riarmo deciso dall’Unione europea, l’aumento delle spese militari al 5% deciso dalla NATO, la corsa agli armamenti. Fatti che costituiscono di per sé una “dichiarazione di guerra”. La risposta a tutto ciò sta arrivando da più fronti.
Un esempio recente di queste mobilitazioni?
Qualche settimana fa c’è stato un episodio all’aeroporto civile di Brescia Montichiari, dove alcuni lavoratori hanno preso atto che si trovavano loro malgrado a maneggiare armamenti, non esattamente la mansione per cui sono stati assunti, e per questo si sono opposti.
Ma il fenomeno sta dilagando anche nel mondo della ricerca: tantissimi ricercatori, mossi dall’aspirazione di migliorare le condizioni di vita delle persone, si ritrovano riconvertiti a fare ricerche nel campo degli armamenti e della sperimentazione di armi. È da questa base che nasce il movimento e noi abbiamo raccolto le istanze di questi lavoratori. Abbiamo tenuto un convegno all’Università La Sapienza di Roma dal titolo “Il lavoro ripudia la guerra” ed è lì che è nata l’idea. Ci siamo domandati che cosa fare per dare un concreto aiuto alle persone che rifiutano questa logica ma, contemporaneamente, non vogliono trovarsi nelle condizioni di perdere il posto di lavoro. Nel corso del convegno è intervenuto anche Luigi Borrelli, un sindacalista di Brescia, che ha espresso pubblicamente il suo disagio per dover manovrare carichi di armi. Per essere intervenuto al convegno, Borrelli ha subito un procedimento disciplinare con la sospensione dal lavoro per otto giorni. La sua vicenda non si è conclusa e il nostro timore è che venga licenziato. Essere sanzionato perché intervenuto a un convegno universitario: è fuori contro ogni logica.
Quali sono gli strumenti che avete individuato per affrontare la questione?
Ne abbiamo individuati due: uno collettivo, cioè lo sciopero. Quando arriva un carico di armi in un aeroporto, un porto o una stazione ferroviaria, lo strumento giusto per bloccarlo è lo sciopero. Il secondo, più individuale, è l’obiezione di coscienza per motivi etici, filosofici, morali, religiosi: poter dichiarare liberamente che applicare le proprie abilità in attività di guerra contrasta con principi interiori, che sono irrinunciabili, e quindi avere la possibilità di essere assegnati ad altre mansioni. Si tratta di due strumenti che esistono nel nostro ordinamento e per questo legittimi, ma sicuramente incontreranno degli ostacoli nelle controparti. Basta pensare allo sciopero: per il caso di Brescia la Commissione di garanzia sui servizi pubblici essenziali (legge 146/1990) ha mandato una diffida dichiarando lo sciopero illegittimo non avendo i lavoratori rispettato tutte le procedure previste dalla legge sui servizi pubblici essenziali.
Quindi manovrare le armi è un servizio pubblico essenziale?
L’intestazione della legge 146 dice che bisogna garantire il bilanciamento del diritto di sciopero con i diritti costituzionalmente garantiti dei servizi alla persona. La replica della Commissione è che i trasporti rientrano nelle materie oggetto di garanzia. Ma i trasporti vanno intesi come di persone e beni di prima necessità, non di strumenti di morte che non sono di certo un servizio pubblico essenziale. Parrebbe che per loro la guerra sia un bene di prima necessità, addirittura prevalente sul diritto di sciopero. Nel caso specifico di Brescia, alla fine, le armi non sono più arrivate e lo sciopero è stato revocato, ma è stata una prova generale e lo consideriamo il rinvio di una situazione che accadrà di nuovo.
Nel Manifesto affermate che non è uno dei tanti appelli contro la guerra, ma costituisce un supporto giuridico fondato su principi costituzionali e sul diritto internazionale a chi concretamente rifiuta di collaborare con l’economia e la cultura della guerra. A chi si rivolge? Quale dovrebbe essere la sua funzione?
Non è un appello perché è uno strumento a sostegno di una lotta sindacale concreta. Ci sono gli scioperi, ovviamente, e anche lo strumento di dichiarazione di obiezione di coscienza, che è un modulo distribuito nei luoghi di lavoro di diversi settori. Abbiamo la firma di tanti costituzionalisti e professori di diritto del lavoro e quando si andrà allo scontro nelle aule di giustizia ci presenteremo con voci autorevoli che sostengono che il trasporto di armi non c’entra niente con i servizi pubblici essenziali. È in questo senso che il Manifesto è uno strumento concreto e non è un semplice appello.
Di obiezione di coscienza se ne parla tanto soprattutto in ambito medico, un diritto tutelato con forza. Cosa segnala questa postura rispetto all’assenza negli altri settori?
In Italia esiste anche una normativa in materia di sperimentazione sugli animali che consente a chiunque abbia un convincimento in contrasto di dichiararsi obiettore di coscienza e chiedere di essere assegnato a mansioni alternative. Non voglio sminuire l’importanza delle idee di queste persone, però se è consentito dichiararsi obiettore di coscienza per il rispetto degli animali, penso che la stessa cosa debba essere consentita anche a chi vuole rifiutarsi di collaborare con lo sterminio di bambini, donne e uomini. La nostra posizione è che sarebbe auspicabile ci fosse una legge esplicita che consentisse l’obiezione di coscienza nei luoghi di lavoro sui temi della guerra. Tuttavia, siamo consapevoli di non avere uno scenario politico favorevole per questo orizzonte.
Ma proprio in virtù del fatto che gli interlocutori politici sono maldisposti, vi sentite un po’ come Don Chisciotte a proporre questo avanzamento?
No, perché siamo altrettanto consapevoli dell’esistenza di norme di diritto internazionale e di diritto costituzionale che un domani ci consentiranno di rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza già con questo assetto normativo. È importante capire che non ci sono lavoratori che si rifiutano di lavorare, ma lavoratori che si rifiutano di assolvere a queste specifiche mansioni chiedendo di essere riassegnati ad altre attività. Come era anche per gli obiettori di coscienza al servizio militare e sceglievano il servizio civile, dedicando un anno alla patria prestando un servizio utile alla società. È questo il concetto: chiedere di essere assegnati a mansioni alternative, molto più costituzionalmente compatibili di quanto non sia invece la guerra ripudiata dall’articolo 11 della Costituzione.
Nel Manifesto affermate che l’economia di guerra condanna per sempre i lavoratori al precariato e allo sfruttamento, contravvenendo anche al dettato costituzionale. In che modo?
Tutte queste spese sulle armi sono una dichiarazione di guerra interna, perché risorse che potevano essere destinate a beni davvero costituzionalmente garantiti – quali la sanità, la casa, la scuola, la cultura – verranno dirottate sugli armamenti. Questo è in contrasto anche con ogni possibilità di avere anche un salario minimo garantito, perché è evidente che a questo punto non se ne parlerà più. Quindi sono di fatto già azioni politiche che si muovono in contrasto con una serie di diritti costituzionalmente garantiti, ivi incluso l’articolo 36 della Costituzione, cioè una retribuzione che garantisca un’esistenza libera e dignitosa.
Alla luce di queste rilevazioni, l’impressione che se ne ricava è che il lavoratore sia sganciato dalla persona intesa come portatrice di valori.
Questa è la tesi giuridica alla base del Manifesto. Noi affronteremo proprio il tema di una sorta di inidoneità morale delle persone contro la guerra per lo svolgimento di quelle mansioni. Ad esempio: una persona che ha problemi di schiena ha il diritto di essere assegnato a mansioni con limitazioni. Se l’intoppo è invece nella coscienza, nei convincimenti personali delle persone, perché non deve parimenti essere riassegnato? In fin dei conti anche quella è una inidoneità, che però non attiene al lavoratore inteso solo come corpo fisico. Il lavoratore è fatto anche di convincimenti, di coscienza e anche questa è una lettura costituzionale perché il lavoro è finalizzato anche alla piena realizzazione non solo economica, ma anche morale della persona.
Nel manifesto sottolineate come il movimento sindacale abbia il dovere di dare una risposta all’altezza dei tempi al desiderio diffuso di tanti lavoratori e lavoratrici di sottrarsi agli ordini dei propri datori di lavoro quando questi sono in esplicito contrasto con i valori di pace e di convivenza umana. Laddove l’USB è promotore dell’iniziativa, avete provato a coinvolgere anche altre sigle?
Noi abbiamo scritto e poi lanciato il Manifesto, rivolgendo un invito a tutti i sindacati a dire la propria e prendere posizione, ma a livello ufficiale non mi risulta che siano arrivate altri tipi di adesioni. Risposte, invece, sono arrivate dai territori, dove c’è una sensibilità più diffusa– ad esempio proprio al porto di Livorno si è tenuta una manifestazione di protesta convocata dall’USB cui ha aderito anche la Cgil. Io penso che nelle prossime settimane avremo delle prese di posizione da parte di qualche altro sindacato.
Secondo lei, alla luce di questa massiccia operazione di riarmo, è sbagliata l’idea di un esercito europeo di difesa?
Non credo sia possibile che un soggetto posso darsi un piano di difesa se prima non chiarisce la propria identità. Quindi in questo contesto è un’operazione cui sono contrario, perché non ci sono gli estremi per inquadrare cosa andrebbe a fare questo esercito: si tramuterebbe solo in una escalation di prova muscolare e quindi di di per sé negativa. Che Europa è questa? Che posizione di politica internazionale ha? Basta guardare ai dazi, a Israele, all’Ucraina. È come dare a una persona instabile gli strumenti per difendersi invece di porla sotto tutela.
Elettra Raffaela Melucci