di Pier Paolo Baretta – Segretario Confederale Cisl
E’ passato oltre un ventennio da quando, sotto il motto “lavorare meno, lavorare tutti”, veniva proposta l’utopia di una società civile liberata dal tempo di lavoro. Quel progetto, in realtà, si basava sull’idilliaca affermazione che una riduzione coattiva e generalizzata del tempo di lavoro, a parità di salario, avrebbe consentito la realizzazione della piena occupazione.
Il dibattito sull’orario di lavoro si è, oggi, riaperto nei principali Paesi dell’Unione Europea (Francia, Germania, Belgio, e, da ultima, Italia) con una straordinaria varietà di argomenti. E’ proprio di questi giorni la notizia che in Francia, sulla base delle forti pressioni padronali il Governo, al fine di evitare la rottura della “pace sociale”, si è visto costretto a dichiarare che il principio delle 35 ore settimanali legali “non verrà messo in discussione”, spostando il dibattito su una maggiore disponibilità al ricorso al lavoro supplementare. Anche nel nostro Paese gli imprenditori cominciano a rivendicare, sia pure ancora timidamente, la necessità di pervenire ad una diversa regolamentazione dell’orario di lavoro.
Eppure sono passati soltanto pochi anni da quando il legislatore italiano, con l’art. 13 della legge 197/96, ha stabilito il limite massimo dell’orario di lavoro, basato sulle 40 ore settimanali, ratificando, peraltro, un dato già ampiamente consolidatosi nella normativa contrattuale. Alla legge 196/97 sono poi seguiti numerosi interventi legislativi diretti a disciplinare il rapporto fra tempi di lavoro e tempi di vita. Le norme sul part time, la regolamentazione dei contratti di lavoro a causa mista, la disciplina dei congedi parentali e formativi hanno rappresentato il tentativo più convincente per spostare l’attenzione dalla materia della regolamentazione dell’orario di lavoro ad una disciplina del tempo di lavoro. Un tempo, il più possibile, scelto dall’individuo, all’interno di un progetto di vita capace di coniugare il tempo di cura dedicato alla famiglia, il tempo destinato alla fruizione di beni culturali, il tempo dedicato alle attività sociali, il tempo di festa. Lo stesso decreto legislativo 66/2003 agisce, più propriamente, sulla disciplina del tempo di lavoro, accompagnando il riavvicinamento dell’orario di lavoro legale a quello contrattuale e attribuendo un ruolo importante all’azione della contrattazione collettiva.
Del resto, all’estremo opposto della società della piena occupazione non c’è la società del tempo liberato ma piuttosto una comunità civile che non rinuncia a ricercare il giusto equilibrio fra produzione e riproduzione, che si auto-organizza per determinare una crescita sostenibile con i propri bisogni materiali ed immateriali. Così, mentre è ancora lontano il mito del tempo liberamente scelto è però più vicina la possibilità, concreta, di rendere più sostenibile la flessibilità e meno rigidi i tempi scelti dall’impresa. Ecco perché, mentre non è più proponibile una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a tempo indeterminato, è però possibile agire sulla distribuzione del tempo di lavoro, offrendo, nel contempo, agli individui e alle loro famiglie una maggiore personalizzazione delle opportunità lavorative, economiche e sociali. Anche il sistema del welfare, nel suo complesso, deve raccogliere questa sfida, avvicinandosi maggiormente alle esigenze delle diverse comunità sociali attraverso un’offerta collettiva modulabile in relazione ai diversi bisogni di vita.
Dal punto di vista della contrattazione collettiva occorre inquadrare la questione dell’orario di lavoro all’interno di una strategia più generale di politica economica ed industriale. Prima le imprese sostenevano che i vantaggi competitivi potevano essere ottenuti mediante la moderazione salariale, e questo è stato il grande obiettivo della politica dei redditi, che ha giocato una partita importante proprio sul piano della competitività, oltre che in funzione anti-inflativa.
Dopo che la politica dei redditi ha esaurito la sua spinta propulsiva, anche per effetto di una dinamica delle retribuzioni nazionali che, attestandosi sulla produttività media del settore, finisce con l’attuare una redistribuzione perversa a favore dei profitti, sterilizzando la tutela reale dei salari, adesso le imprese tentano la strada dell’aumento dell’orario di lavoro per diminuire l’incidenza del costo della manodopera. Anche per questo motivo non c’è dubbio che la questione della distribuzione del tempo di lavoro richiama direttamente in causa il problema di una distribuzione più equa della produttività fra capitale e lavoro che ripropone la necessità di una contrattazione di II° livello esigibile. Ma la contrattazione integrativa può svolgere un ruolo fondamentale anche nella regolazione dell’orario di lavoro, non solo nella direzione di una flessibilità del tempo di lavoro utile all’impresa ma anche fornendo risposte collettive ai bisogni individuali, mediante un maggiore potere di contrattuale dei lavoratori nella determinazione della distribuzione dell’orario di lavoro. Ricordo, infatti, che proprio l’insufficienza della contrattazione collettiva apre spesso margini di manovra alla determinazione unilaterale, da parte del datore di lavoro, del lavoro supplementare e straordinario.
Quindi, per ottenere una maggiore incidenza delle scelte del lavoratore del grado di flessibilità occorre definire le modalità di intervento della contrattazione collettiva sull’articolazione dell’orario di lavoro, coniugando tale opportunità con l’offerta pubblica e privata delle attività sociali, formative, culturali, ricreative e del tempo libero. L’analisi dei contratti collettivi evidenzia in alcuni casi, infatti, la necessità di un rafforzamento delle norme contenute in materia di congedi formativi e parentali, soprattuto nella gestione delle fasi applicative ed operative.
La struttura del Ccnl dovrebbe, pertanto, enunciare obiettivi ed indicatori precisi per la contrattazione integrativa, e linee guida per i processi negoziali decentrati. Alla contrattazione integrativa dovrebbe, invece, essere affidata l’elaborazione degli specifici progetti finalizzati alla conciliazione individuale fra il tempo di lavoro e i tempi di vita, come ad esempio le condizioni di applicazione del telelavoro nei casi possibili, oppure le modalità di partecipazione delle lavoratrici madri o dei lavoratori padri al part – time reversibile, cogliendo anche la concretezza della legislazione incentivante o di sostegno del sistema delle autonomie regionali e locali in materia del mercato del lavoro.
Questo perché la distribuzione del tempo di lavoro non può prescindere da una valutazione concreta delle condizioni lavorative, dall’ambiente di lavoro, dalla produttività creata, dalle mansioni effettivamente svolte, dalle modalità organizzative delle specifiche comunità locali nelle quali si vive. E’ compito, pertanto, del sindacato e delle associazioni di rappresentanza datoriale avviare un serio confronto per analizzare la complessità degli argomenti sopra richiamati, al fine di pervenire ad un assetto che eviti un potenziale di incertezza, di confusione e di insoddisfazione del lavoro, rendendo la flessibilità più sostenibile per l’economia e per la società civile.