Uno legge le ultime previsioni dell’Istat per il 2026 e si sente meno ottimista di quanto non appaia l’istituto di statistica. L’anno prossimo l’economia dovrebbe crescere di uno 0,8 per cento, asfittico, ma sempre meglio dello 0,6 per cento di quest’anno. Le ultime previsioni, un mese fa, di Bankitalia, invece, si fermavano, però, allo 0,6 per cento anche l’anno prossimo. Due decimali possono sembrare pochi, ma, rispetto allo 0,8, sono un quarto in meno. Può darsi, naturalmente, che abbia ragione l’Istat, ma i motivi di cautela sono almeno tre: le esportazioni, i consumi e il confronto con le tendenze in atto a fine 2025.
L’anno prossimo, dice l’Istat, il caos internazionale delle tariffe dovrebbe placarsi. È un’affermazione baldanzosa, considerando la totale inaffidabilità di Trump, da cui già vengono le avvisaglie di una nuova guerra commerciale, questa volta in nome degli interessi di Google, Facebook e Twitter. In ogni caso, se il caos sui dazi si placasse davvero, dovrebbe essere una spinta per le nostre esportazioni. Dall’ultimo dopoguerra, quello italiano continua ad essere uno sviluppo trainato dalle esportazioni e, quindi, il profilarsi di questa possibile spinta dovrebbe essere una buona notizia.
Invece, mica tanto, ci fa sapere l’Istat. Anche con meno tempeste sui dazi, dice la previsione, la domanda estera, come quest’anno, sarà ancora una zavorra sul Pil. Di meno del 2025, ma ancora abbastanza da togliere due o tre decimali dallo sviluppo del Pil. Sostenuto, allora, da cosa? Dalla domanda interna che, di suo, farebbe aumentare il Pil di più dell’1 per cento. E, qui, viene naturale essere scettici. Mentre la domanda estera è, tradizionalmente, una fonte affidabile di sviluppo dell’economia italiana, quella interna – consumi più investimenti – è, altrettanto tradizionalmente, fluttuante e, di solito (a meno che l’inflazione non galoppi) deludente. Gli investimenti – grazie all’ultima rata del Pnrr – cresceranno anche il prossimo anno, ma a fare davvero la differenza è sempre la massa dei consumi. Nel terzo trimestre sono saliti solo dello 0,1 per cento e, secondo le valutazioni di Bankitalia, non sta andando meglio in questo quarto trimestre, come in tutto il 2025. Perché, dunque, dovrebbero crescere dello 0,9 per cento nel 2026?
Perché, risponde l’Istat, i salari stanno aumentando, il recupero sull’inflazione continua e questo darà alle famiglie abbastanza sicurezza da ridurre la propensione al risparmio, ovvero la tendenza a mettere soldi da parte perché i tempi sono difficili.
Possibile, naturalmente, ma bisogna avere un temperamento fiducioso per farci affidamento. Le statistiche della Banca d’Italia dicono che, per il momento, sulla fiducia, almeno quella dei consumatori, non bisogna far conto: risulta, invece, piuttosto flebile e in discesa, in quest’ultimo scorcio del 2025. Il recupero sull’inflazione, in realtà, c’è, ma non è roba da festeggiamenti. Nel 2026, secondo le proiezioni Istat, le retribuzioni pro capite cresceranno del 2,4 per cento, un punto in più dell’inflazione prevista. Era successo lo stesso quest’anno: sempre un punto in più sull’inflazione. Ma le retribuzioni pro capite, nel 2025, sono salite del 2,7 per cento. Ovvero, il processo di ripresa dei salari, invece di accelerare, rallenta.
Non è l’innesco psicologico migliore per aumentare i consumi e ridurre i risparmi. La realtà che alle famiglie non sfugge è che la tosatura post Covid dei salari resta la più dura di tutta Europa. Le retribuzioni reali, in Italia, sono ancora dell’8,8 per cento più basse, rispetto all’inizio del 2021. È il buco, anche psicologico, che pesa sulle prospettive di un rilancio dei consumi e di una rinuncia ai risparmi su cui fanno affidamento le previsioni dell’Istat. Difficile che l’economia si rimetta davvero in moto e i consumi a marciare, fino a che questa percezione di povertà non sarà dissipata. Questi ultimi mesi del 2025, con le retribuzioni e il costo del lavoro – dicono i numeri diffusi in questi giorni dalla Banca d’Italia – in vistoso rallentamento, vanno, in effetti, in direzione opposta. Sperare che sia la domanda interna, piuttosto che quella estera, a tenere in piedi lo sviluppo è ancora un atto di fede.
Maurizio Ricci



























