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Home - Approfondimenti - Interviste - Loy (Uil): il lavoro straniero non è una disgrazia, ma uno strumento di integrazione

Loy (Uil): il lavoro straniero non è una disgrazia, ma uno strumento di integrazione

di Elettra Raffaela Melucci
2 Marzo 2017
in Interviste
Loy (Uil): il lavoro straniero non è una disgrazia, ma uno strumento di integrazione

In Italia sono presenti circa 5,5 milioni di stranieri, a cui si sommano un milione che hanno acquisito la cittadinanza italiana. Questo flusso in entrata genera una consistente offerta di manodopera che si inserisce nel mercato del lavoro italiano. I settori che contano il più alto numero di presenza lavorativa straniera sono alberghi e ristoranti (complessivamente il 16,8% del totale dell’occupazione è straniera), costruzioni (16,9%), agricoltura (17,1%), commercio (7,2%), servizi collettivi e personali (38,3%) e industria in senso stretto (9%). In questa intervista il segretario confederale della Uil, Gugliemo Loy,  ci spiega in che modo i lavoratori stranieri si inseriscono nella nostra economia e quali benefici apportano alla società.

Quanto vale il lavoro degli stranieri in Italia?

In Italia abbiamo 5,5 milioni di stranieri, a cui vanno aggiunti oltre un milione che hanno già acquisito la cittadinanza italiana. Gli stranieri che lavorano sono oltre 2,3 milioni: 8,5 % della popolazione totale e 10,5% della manodopera occupata. Il lavoro degli stranieri produce circa 127 miliardi di ricchezza. Ci sono anche 450 mila immigrati che risultano disoccupati e 1,2 milioni inattivi.

Quali sono i benefici dell’immigrazione sul mercato del lavoro italiano?

I benefici del lavoro immigrato sono statisticamente sintetizzabili nel 9% di Pil prodotto dai lavoratori stranieri, sia dipendenti che autonomi, e quindi sia come imprese che come cittadini consumatori.  È una cifra molto consistente. Siamo in linea con un fenomeno mondiale in cui i flussi migratori sono diventati parte integrante dei processi di  crescita delle economie. L’immigrazione non è una disgrazia, è una inevitabile leva con cui si fonda lo sviluppo di intere società capitalistiche come quelle europea e delle americhe. Gli immigrati sono parte integrante di un processo che ha allargato la sua capacità di produzione di ricchezza, in cui il lavoro immigrato ha contribuito in maniera rilevantissima.

Qual è il reale impatto sul bilancio pubblico?

Nel 2015 il lavoro degli stranieri ha prodotto 6.000 miliardi di gettito fiscale e oltre 10milardi di contributi previdenziali, con un guadagno per le casse dello Stato attorno ai 2,3 miliardi di euro. I lavoratori stranieri sono contribuenti molto attivi che portano attivo alle casse, ma le prestazioni conseguenti ai versamenti sono molto basse rispetto a quanto versano perché generalmente si tratta di manodopera giovane e pochissimi hanno avuto accesso alla pensioni. Dal punto di vista previdenziale, dunque, versano oltre 10miliardi ma i beneficiari, almeno per qualche anno, sono molti di meno. Quando si afferma che gli immigrati pagano le pensioni agli italiani si coglie una verità, laddove l’apporto del lavoro straniero paga la pensione a circa 640 mila italiani. Ma è una verità temporanea perché, in prospettiva, anche gli immigrati accederanno al sistema pensionistico e si livellerà il saldo tra versamenti e benefici. Inoltre si aggiunga che, sebbene senza dirette conseguenze sul bilancio in termini di produzione e sviluppo e della crescita anche al di fuori del nostro Paese, c’è una stima che parla di 6miliardi di rimesse alle famiglie che sono rimaste nel paese d’origine. Le rimesse sono una parte importante, poiché consentono di arginare altri flussi migratori.

La disoccupazione ha favorito o penalizzato i lavoratori stranieri?

Ci sono attualmente 450 mila disoccupati stranieri, e 1,2 milioni inattivi. Il tasso di disoccupazione etnico ha raggiunto quota 16/17%. Una quota significativa di stranieri è impiegata nel sistema del terziario, dei servizi e del commercio che ha sofferto la diminuzione dei consumi in maniera molto significativa. Va poi aggiunto il problema che chi perde il lavoro e non lo trova entro un anno diventa irregolare e finisce nel lavoro nero, producendo anche dumping. Sempre secondo l’Istat, gli occupati stranieri irregolari l’anno scorso erano 558 mila (un quinto degli occupati stranieri totali). Per la Fondazione Moressa il lavoro etnico irregolare vale 12,7 miliardi. Certamente questa situazione penalizza gli stranieri che decidono spesso di andarsene dall’Italia.

Gli immigrati tendono a svolgere lavori non qualificati, meno remunerati e poco appetibili per i gli italiani. Secondo lei questo dato che immagine del lavoratore italiano riflette? 

Questa immagine corrisponde al vero solo in parte. Con la crisi, molti italiani tornano a cercare lavori dequalificati e prima rifiutati. Inoltre, anche per gli stessi stranieri, le cose non sono così semplici: molti cercano di farsi riconoscere i titoli di studio e cercare un lavoro migliore. In generale il problema è che il lavoro qualificato tende a scarseggiare, non a caso ogni anno 100  mila giovani italiani laureati o diplomati cercano lavoro all’estero. Nel nostro paese dalla guerra la gente ha studiato di più, gli operai degli anni 50 hanno mandato i loro figli a studiare. Ne consegue che se da una parte l’aspettativa per chi ha investito sui propri figli e  su se stesso per acquisire titoli di studio ha portato all’ambizione di avere mansioni conseguenti al percorso di studio, dall’altra il sistema economico ha richiesto  figure più qualificate. Questo ha creato un buco, un vuoto, una parziale sofferenza nei settori dove c’era necessità di mansioni “meno qualificate e l’ondata migratoria si è inserita in questo processo.

Quindi il luogo comune degli “stranieri che ci rubano il lavoro” può essere smentito?

La crisi ha reso un po’ più complicato questo processo. L’aumento della disoccupazione italiana o delle difficoltà di inclusione attraverso il lavoro di molti italiani, ha cominciato a sovrapporsi alla concorrenza del lavoro immigrato. Secondo noi è ancora ampiamente sopportabile, però. Come detto,  nell’immaginario collettivo, nei luoghi comuni e in parte in alcuni settori, quello che prima non veniva considerato un lavoro gratificante, in mancanza di altro comincia a esserlo. Penso sia un fenomeno ancora sotto controllo, ma rispetto a 6/7 anni fa emerge con più forza, anche se dimensionalmente non è enorme.

Secondo lei quali sono gli strumenti per l’integrazione sociale e culturale?

Scuola e lavoro sono i primi veicoli di inclusione e antidoto all’intolleranza. Entrare a contatto con lavoratori di nazionalità diversa fa cadere molti pregiudizi, non c’è ombra di dubbio, come vale per i bambini, in maniera molto più significativa.

Quali misure possono incrementare gli effetti positivi dell’immigrazione?

Riaprendo le vie per una migrazione legale per lavoro. Attualmente il decreto flussi è bloccato dal 2010. Chi entra lo fa illegalmente  e solo negli ultimi 3 anni sono sbarcate 500 mila persone. Questo fa solo l’interesse di scafisti a caporali. Bisognerebbe anche riconoscere i titoli di studio degli stranieri e riformare la previdenza per i lavoratori extra UE, discriminata rispetto a quella degli italiani. A monte c’è poca osservazione dei fenomeni che non sono causati dall’immigrazione, ma ne sono amplificati. Mi riferisco al rischio di dumping sociale, che è uno degli ostacoli maggiori al processo di integrazione. Un  po’ per via della crisi, un po’ per nostra tradizione, negativa in questo caso, di una economia informale, si alimenta il lavoro irregolare e la creazione di una massa disponibile a qualsiasi cosa in qualsiasi forma. Ciò comporta mancanza di trasparenza, di diritti, di legalità. D’altra parte in un mercato drogato da manodopera utilizzata in maniera informale si rischia di abbassare anche le tutele per quella regolare. Questo vale soprattutto per alcuni settori come l’agricoltura, il commercio il terziario, il turismo, dove il tasso di irregolarità dell’economia in generale e del lavoro è molto forte. Il  resto è uno stato che si è affidato al fai da te in termini di accoglienza e integrazione.

Secondo lei può una informazione corretta mitigare i pregiudizi e i luoghi comuni sugli immigrati?

Assolutamente sì, la cattiva informazione genera pregiudizio e discriminazioni e non può portare altro che lacerazioni sociali. La storia è piena di casi di utilizzo sommario della comunicazione. Basta guardare ai giornali di 20-30 anni fa, soprattutto le cronache locali dell’area industriale, e in quel caso gli stranieri erano i meridionali.  E adesso si è trasformata in generica informazione sull’immigrazione. Farei un passo indietro chiedendo perché nel nostro paese c’è una maggiore predisposizione all’illegalità. Immagino che ci sia una economia che attrae persone meno virtuose e quindi il discorso andrebbe collocato in questo senso. Ovviamente la crisi ha alimentato paure, insicurezze e timori e quindi conseguentemente  la ricerca del capro espiatorio. nonostante tutto, credo che il nostro paese tenga, sebbene sia sottoposto a uno stress molto forte.

Elettra Raffaela Melucci

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Tags: Immigrazione
Elettra Raffaela Melucci

Elettra Raffaela Melucci

Redattrice de Il diario del lavoro

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