di Aris Accornero – Professore emerito di Sociologia Industriale all’Università di Roma La Sapienza
Archiviato l’anno 2003 e superata la mezza legislatura è doloroso ma doveroso constatare che i partner sociali escono male da questo periodo, a cominciare dalla Confindustria e da Cgil-Cisl-Uil. L’organizzazione degli imprenditori va verso un cambio di leadership che potrebbe anche essere traumatico, mentre le maggiori confederazioni sono alle prese con una base che le incalza. Confindustria paga la cambiale in bianco concessa al governo Berlusconi nella fatidica assemblea di Parma, Cgil-Cisl-Uil pagano una strategia che, unita o disunita che fosse, ha dimenticato per strada le retribuzioni. Il guaio è che ambedue i partner contano adesso meno di quanto contavano all’avvento del centro-destra.
Ma come è possibile: il centro-destra non dovrebbe favorire gli imprenditori e il centro-sinistra i lavoratori? Non è andata così. Confindustria, che si credeva a cavallo, ha avuto poco e male, con un misto di favori e di delusioni che ne ha logorato la tenuta e perfino la rappresentatività. Basta ricordare quanti dei suoi affiliati hanno chiesto ad Antonio D’Amato di non incaponirsi sull’articolo 18, e alla propria organizzazione di non legittimare la deriva morale dei condoni. Cgil-Cisl-Uil, che erano sotto attacco, non hanno avuto quasi nulla quando hanno fatto muro a muro né quando hanno concesso qualcosa. Basta ricordare che la scottante questione dei licenziamenti è stata soltanto rinviata, e che è passata con poche migliorie una brutta riforma del lavoro.
Anche se Berlusconi aveva già dato un saggio di sé 10 anni fa, la risposta dai partner è risultata inadeguata. L’appoggio entusiasta di D’Amato si è risolto in una politicizzazione della Confindustria che non era lo scopo della nuova dirigenza e che è stata ripagata quasi soltanto a parole. L’opposizione intransigente di Cofferati sull’articolo 18 ha mobilitato ampie masse al di là della Cgil ma non poteva fermare la destrutturazione del lavoro né rifondare il sindacato. L’andare a vedere di Pezzotta e di Angeletti ha contrapposto il pragmatismo all’ideologia, ma non ha disinnescato lo scontro né trovato una alternativa negoziale, tant’è che ci ha poi pensato Tremonti a tradurre in cifre il Patto per l’Italia…
Per misurare la perdita d’influenza subita da imprenditori e sindacati è sufficiente ricordare il documento unitario sullo sviluppo, steso nell’estate scorsa da partner che nel 2002 si erano combattuti all’arma bianca. Quel testo era una buona prova di dialogo sociale ma il governo non lo ha ritenuto degno di una discussione, neanche di una convocazione. Episodio invero sconcertante di quel che il centro-destra pensa del dialogo sociale, sebbene lo contrapponga polemicamente alla concertazione.
La concertazione, appunto. A oltre 10 anni dal Protocollo del 1993, il governo l’ha ormai dichiarata desueta e in nome del dialogo sociale sollecita i partner sociali a riformare la contrattazione: sennò prenderà lui l’iniziativa. La Confindustria difende la concertazione soltanto per dire che i salari devono allinearsi all’inflazione programmata, ma poi si divide al proprio interno fra chi vuole contrattare a livello nazionale o a livello aziendale. La Cgil fa della concertazione una questione cruciale, anche se non se n’era mai convinta del tutto, e dice che per rivedere il Protocollo ci vuole tempo e che comunque l’impianto del contratto nazionale non si cambia. La Cisl e la Uil difendono la concertazione, anche se l’anno scorso si sono accontentate del dialogo sociale, e pensano che il contratto nazionale debba smagrirsi per lasciare spazio a una contrattazione articolata sul territorio e/o nelle aziende.
In questa situazione di stallo, la ribellione degli autoferrotramvieri ha fatto scoppiare la questione salariale, che negli ultimi due anni i partner avevano trascurato, troppo presi dai diritti e dalle riforme, evocandola soltanto per litigare sulla rincorsa prezzi-salari – con tormentoni assurdi sulle risibili “colpe” dell’euro e dell’Istat – anziché sul nodo vero, cioè sulla distribuzione dei redditi. Che qualcosa non andasse, peraltro, lo si era già intuito dalla rottura sindacale sul biennio economico dei metalmeccanici. Ma qual è la bizzarra soluzione che sta venendo fuori? Secondo taluni, bisognerebbe articolare i salari a livello territoriale in modo da commisurarli al carovita locale: un’idea che da un lato riecheggia la scala mobile e dall’altro ripropone le gabbie salariali. (Attenti: oggi le province sono molte di più, e incombe il federalismo padano.)
Così si butta alle ortiche la “ratio” del sistema contrattuale e salariale concordato nel 1993, il cui vero limite sta invece nei ristretti margini economici concessi per premiare i risultati delle performance aziendali, e nella rinuncia a incoraggiare e remunerare la produttività dei sistemi produttivi locali. I partner sociali hanno ricordato al governo che il nostro sistema produttivo ha bisogno di crescere. Bene. Ma per farlo crescere bisogna renderlo più dinamico, per esempio puntando coraggiosamente su una diversa distribuzione tra parte fissa e parte mobile della retribuzione, fra parte nazionale e parte aziendale e/o locale. (Lasciamo da parte il carovita, per favore: chi vuole tornare all’assistenzialismo?)
Purtroppo, sindacati e imprenditori non osano rivedere la struttura e la dinamica delle remunerazioni in modo da aiutare il sistema produttivo. Eppure sono cose che dipendono da loro, non dal governo. Così, quasi tutta la retribuzione consiste nei minimi contrattuali. Questi salvano l’uguaglianza assicurando a tutti la paga fissata per il settore. Purtroppo, come sanno bene gli esperti, questa è stata negoziata in modo da non mandare in rosso le imprese più lente e quelle meno favorite.