Due anni dopo la prima edizione del 2023, torna “Il Cruscotto del lavoro nella metalmeccanica”, la pubblicazione della Fim Cisl che analizza nel dettaglio l’andamento del comparto. Nel 2023 il ciclo economico era molto diverso, si usciva dalla pandemia e dalla crisi energetica, ma il settore metalmeccanico aveva retto, e le prospettive per aziende, occupazione e salari erano positive. Oggi, si legge, “il clima è molto più incerto”, e all’orizzonte avanzano altre tre sfide, che si possono riassumere in crisi dell’auto e transizione energetica, prezzi dell’energia, dazi. E tuttavia, guardando ai dati delle numerosissime tabelle contenute nelle 73 pagine del Cruscotto, le cose non vanno cosi male, almeno per ora. Il settore si caratterizza per ‘’rapporti di lavoro migliori rispetto alla media nazionale”, come dimostrano i dati relativi alla ‘’stabilita’ dei posti di lavoro, ai livelli medi delle retribuzioni e ai divari tra le tipologie di lavoratori’’; anche se, osserva il segretario generale della Fim Cisl Ferdinando Uliano nella prefazione, ‘’nonostante l’andamento migliore degli altri settori, i salari contrattuali sono ancora inferiori ai livelli dello scorso decennio in termini reali’’.
Sul fronte dell’occupazione in generale i dati sono tutti in miglioramento, sia in termini di posti di lavoro che di ore lavorate (più 6% rispetto al 2019). Migliora, si legge nel rapporto, non solo “la quantità ma anche la qualità” dei posti di lavoro, con una ‘’crescita sostenuta soprattutto dei contratti a tempo indeterminato”, a fronte di una flessione dei contratti a tempo determinato che, tra il 2019 e il 2024, sono calati dal 16.9% al 14.7%. Si riduce anche il part time, sceso di quasi il 7% rispetto al 2019, a fronte di un aumento piuttosto consistente del tempo pieno: + 6% nello stesso periodo. La quota degli occupati part time è scesa dal 19 al 17 per cento, con una diminuzione anche del part time involontario.
Le possibili spiegazioni “della sostenuta crescita occupazionale”, secondo gli analisti del Cruscotto, si rintracciano in diversi aspetti. In primo luogo, la riduzione del costo del lavoro in termini reali “dovuta al fatto che pur essendo aumentati i salari nominali, tale incremento non è stato sufficiente a compensare l’inflazione e i salari reali sono quindi diminuiti”, rendendo più interessante per le imprese fare il pieno di assunzioni. “In definitiva, è probabile che i prezzi relativi dei fattori di produzione abbiano innescato un processo di sostituzione tra capitale e lavoro, a vantaggio di quest’ultimo’’, scrive il Cruscotto. Il secondo e non meno importante elemento è quello del ‘’labour hoarding’’, ovvero quel fenomeno per cui le imprese, nelle fasi di rallentamento dell’economia, scelgono di mantenere i dipendenti in servizio anche se sottoutilizzati, piuttosto che licenziarli: “una strategia che nelle fasi cicliche negative può essere adottata per evitare i costi di dover riassumere le persone una volta che l’economia torna a risalire, o per timore di non riuscire a reperire manodopera specializzata”. Già visto nel periodo del Covid, e poi attenuatosi, il ‘’labour hoarding’’ ha ripreso forza a causa di ‘’un mercato del lavoro molto stretto, segnato da diffuse difficoltà di reperimento di manodopera’’, legate soprattutto al declino demografico del paese.
Trend analoghi si riscontrano anche nello specifico del mondo metalmeccanico: “L’unica categoria di lavoratori che è cresciuta in questi anni è stata quella dei dipendenti a tempo indeterminato, la cui quota sull’occupazione complessiva è salita dall’82,3 all’85.7%”, con un incremento del 3% rispetto al 2019, mentre i contratti a termine precipitano del 30% nello stesso periodo, spiega il Cruscotto. Giù anche i lavoratori a part time (anche involontario) che si sono ridotti rispetto ai tempi pre- crisi con un calo del 21%, mentre l’occupazione a tempo indeterminato è rimasta ‘’sostanzialmente stabile’’.
Anche nel mondo metalmeccanico l’impatto dell’invecchiamento pesa: negli ultimi cinque anni il numero dei giovani 15-34 anni occupati nel settore è sceso del 6% (meno 29 mila, in termini assoluti), quello dei 35-44enni addirittura del 15%, pari a 82 mila unità in meno, mentre la fascia di età più folta è rappresentata dai 45-54enni, che ammontano a 667mila sul totale di un milione 980 mila occupati del settore, con un incremento di 22 mila unità (più 3.3%).Ma crescono velocemente (più 22%) anche gli addetti della fascia 55-64. In calo, oltre ai giovani, anche le donne (meno 2,9%) e i lavoratori stranieri (meno 3,7%).
Aumentano, rispetto al periodo pre pandemia, i laureati occupati nel settore, con un balzo di 44 mila unita in più; stabili i diplomati, mentre calano di circa il 10% i lavoratori con la sola licenza media, segno che ‘’la domanda di lavoro delle imprese si sta spostando verso figure più istruite’’. E qui arriva un altro dei nodi al pettine: la ‘’twin transition’’, avverte il Cruscotto, cioè l’interazione fra transizione digitale e ambientale, ha sicuramente amplificato “il tema della forte carenza di competenze, specialmente di tipo tecnico’’. Nel settore della metalmeccanica, oggi i laureati STEM sono il 7.8% degli occupati, contro meno del 5% nel complesso dell’economia nazionale, battuti solo dal settore chimico al 16% (non calcolando, ovviamente, il settore TLC, dove le competenze tecnologiche sono alla base dell’occupazione)
Quanto ai salari, il Cruscotto segnala che l’inflazione è stata una fiammata tutto sommato breve, presto tornata ai livelli corretti; e tuttavia, ha avuto pesanti ripercussioni sui salari contrattuali, che nel periodo ‘’hanno tenuto il passo dei prezzi solo nel settore bancario”, con perdite pesanti in tutti gli altri settori e in particolare per i dipendenti pubblici. Nei settori della metalmeccanica, però, ‘’si registra una maggiore crescita salariale rispetto all’intera economia, e un recupero quasi completo dell’inflazione degli ultimi anni’’. A questo proposito (senza scendere nelle vicissitudini del rinnovo contrattuale ancora in alto mare) si ribadisce che l’indice Ipca-Nei ‘’ha perso il suo ruolo di orientamento della contrattazione una volta postasi la questione del recupero ex post della maggiore inflazione rispetto a quella prevista al momento della chiusura dei contratti. Il caso dei metalmeccanici è quindi significativo proprio in quanto il contratto nazionale, diversamente da altri settori, già incorporava l’opzione di recupero integrale della maggiore inflazione’’.
Sempre a proposito di salari, il Cruscotto segnala che il peggior nemico delle buste paga rimane il fisco, al quale dedica un lungo capitolo di analisi. In estrema sintesi: dal 2015 a oggi, e malgrado i tanti e diversi interventi su cuneo, Irpef e altro, da parte dei vari governi che si sono alternati, la pressione fiscale sui salari non è stata abbattuta, anzi, ha guadagnato qualcosa. Sommati, Irpef e contributi oggi equivalgono a un peso, sulle retribuzioni, del 32.4%, contro il 32% del 2015. Forte la responsabilità del fiscal drag, che sulla retribuzione media del settore metalmeccanico “ha in concreto annullato gli effetti positivi delle riforme fiscali’’. Ma il fisco colpisce duro anche sui rinnovi contrattuali, di fatto vanificandoli a causa dell’“effetto perverso’’ delle aliquote marginali. Ne guadagna il ministero dell’Economia: ‘’se osserviamo quanto incassa un lavoratore e quanto incassa lo Stato, dobbiamo concludere che i rinnovi contrattuali subiscono un taglio importante, con un beneficio significativo per il Mef”.
Nunzia Penelope





























