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Home - Approfondimenti - Interviste - Milanese (Confcooperative): La riorganizzazione è possibile

Milanese (Confcooperative): La riorganizzazione è possibile

di Roberto Polillo
14 Aprile 2016
in Interviste

Giuseppe Milanese, presidente di Federazione Sanità , spiega nel dettaglio il piano di Confcooperative per riorganizzare il servizio sanitario dando più servizi sociosanitari senza far lievitare la spesa.


La frammentarietà degli interventi sul territorio è una condizione largamente diffusa nel paese. Questo comporta una sostanziale debolezza della presa in carico del cittadino specie se in condizioni di fragilità e una difficoltà nell’accesso ai sevizi di cui ha bisogno. In che modo la sua organizzazione potrebbe contribuire alla risoluzioni di tali problematiche?

Il modello che proponiamo è stato messo a punto partendo proprio dal bisogno di mettere fine alla frammentarietà degli interventi. Crediamo che lo sviluppo di un welfare sanitario e sociale pluralista e di comunità debba necessariamente passare per il superamento delle barriere che rendono difficile la gestione delle sinergie degli interventi sanitari, sociosanitari e di quelli socioassistenziali sulle fragilità delle persone; per un riequilibrio strutturale dei servizi sanitari, in favore dell’organizzazione di reti di assistenza primaria territoriale ed intermedia, che sappiano intercettare il bisogno sanitario nel suo insorgere e gestirlo continuativamente nel suo divenire a livello ambulatoriale , residenziale e domiciliare evitando così di ricorrere a costosi interventi ad alta intensità clinica ed assistenziale, secondo gli insegnamenti ormai consolidati dell’OMS; l’affermazione del principio fondamentale della distinzione tra il ruolo istituzionale della committenza e il ruolo di produzione del servizio da parte degli erogatori pubblici e privati. E ancora siamo certi che occorra estendere l’istituto dell’accreditamento alla gestione dei servizi sanitari sul territorio, esaltando quei profili di qualità e di organizzazione che mostrino capacità di integrarsi con l’organizzazione e con i programmi locali. Altri passaggi obbligati sono la revisione dell’istituto della contrattazione di servizio, facendo emergere in termini di responsabilità e di remunerazione le obbligazioni riferite alle modalità di erogazione delle prestazioni e al conseguimento degli obiettivi, secondo la logica della concessione di servizio pubblico; la valorizzazione del ruolo della medicina generale, disincagliandola dai vincoli dell’attuale rapporto di collaborazione parasubordinata e trasformandola in agenzia mono e pluriprofessionale fiduciaria accreditata, per il governo della domanda e la gestione dei processi assistenziali. E infine lo sviluppo della farmacia dei servizi, favorendone la piena integrazione funzionale nella rete dell’assistenza primaria; l’adozione di una politica fiscale a sostegno dell’adesione a forme mutualistiche di gestione dell’assistenza sanitaria, sociosanitaria e sociale e di un incardinamento di tali politiche nei programmi pubblici.

Il fondo sanitario continua a essere sottostimato rispetto alle reali necessità e il DEF appena presentato prevede da qui al 2019 una ulteriore riduzione (6,5 rispetto al Pil). Una sottostima che viene compensata attraverso un consistente spesa privata di 30 miliardi. Con quali risorse sarebbe possibile finanziare la riorganizzazione dell’assistenza primaria?

Pur non volendo sottovalutare la problematica del finanziamento del SSN e la sua progressiva contrazione, non riteniamo che la questione possa ridursi solo a un problema di ordine economico. Anzi, crediamo che a parità di risorse si possa far meglio. Questo perché il male che affligge il SSN e l’assistenza primaria in particolare è, innanzitutto, un problema di frammentazione del sistema e di allocazione delle risorse stesse. Quella che definiamo “frammentazione del sistema”, non è nient’altro che la summa di antichi vizi (frammentazione istituzionale, corporativismi, ospedalocentrismo, rigidità organizzative) e di nuove sfide a cui il SSN non riesce a rispondere con efficacia (invecchiamento della popolazione, cronicità, richiesta di cure non standardizzate). Tutto ciò a fronte anche di contingenze economico-finanziarie particolarmente negative (contrazione delle risorse, impoverimento del ceto medio, ecc.).

Per quanto riguarda la spesa sanitaria privata, questa cresce a livello aggregato e grava in modo sempre più sensibile sulle famiglie (oltre 1.300 euro l’anno). Oltre al peso economico sui cittadini, tale spesa pone anche un problema di appropriatezza, è una spesa “opaca”, puntiforme e discreta, poiché neanche il 5% è intermediata da soggetti aggregatori della domanda, quali le mutue sanitarie ed i fondi sanitari integrativi.

A fronte della crescente spesa out of pocket per le cure, cresce il numero di persone (7,1%) che vi rinunciano per ragioni economiche, per le liste di attesa troppo lunghe e per la difficoltà di accesso ai servizi. La percentuale cresce al 14,6% nel percentile più povero della popolazione, e quindi soprattutto tra i cittadini del Meridione d’Italia, pregiudicando sempre di più la pretesa universalità del nostro sistema di cure. Con i costi di un giorno di ricovero si potrebbero finanziare almeno 15 giorni di assistenza domiciliare. Ospedalizzazioni improprie e “codici bianchi” al Pronto Soccorso possono essere immediatamente ridotti attraverso adeguati supporti territoriali. Sono dunque necessarie azioni volte alla prevenzione per diminuire il numero dei ricoveri, soprattutto di quelli impropri.

Per quale motivo lo Stato o meglio le regioni dovrebbero rinunciare alla produzione diretta di prestazioni per acquistarle dal privato seppure di tipo sociale? Quale è il reale vantaggio delle regioni ad abbandonare un modello make di produzione diretta o prevalente di prestazioni?

Oggi abbiamo una spesa sociale e assistenzialistica ipertrofica e inerziale che si concentra troppo sui trasferimenti monetari, conseguenza della cultura del risarcimento e non dell’emancipazione. Ciò non solo ha frenato la nascita di servizi, ma alimenta un circuito di lavoro di cura sommerso e sempre al limite della legalità, che lascia sole quasi un milione di famiglie a regolare un rapporto con le assistenti familiari. Lo Stato si è così ritagliato il ruolo di controllore dell’effettiva rispondenza tra indennità e soggetto in difficoltà, invece del ruolo più appropriato e moderno di soggetto responsabile della qualità della vita delle persone, più che della mera quantità dell’erogazione.

Bisogna correggere questa tendenza per trasformare i quasi 9 miliardi che le famiglie italiane spendono per assistenza informale in spesa trasparente e produttiva. Rafforzare la rete di servizi, per di più, permetterebbe anche la creazione di posti di lavoro. Quello che proponiamo quindi non è un arretramento del pubblico ma un suo rafforzamento. Tale rafforzamento avviene attraverso il pieno esercizio delle funzioni insostituibili della Pubblica Amministrazione (pianificazione, programmazione, committenza, controllo) a garanzia ultima della salute dei cittadini. Ciò comporterà una qualificazione ed una specializzazione degli apparati pubblici dediti a tali funzioni, mentre la produzione dei servizi, in particolare di quei servizi che richiedono flessibilità e personalizzazione, potrà essere affidata a soggetti esterni qualificati.

A tal fine chiediamo un aggiornamento del nostro sistema fondato su tre capisaldi. Una distinzione dei ruoli, con il pubblico impegnato innanzitutto nella governance del sistema mentre la produzione è demandata a provider pubblici e privati, su una base di piena parità. La definizione di regole certe, per la selezione di provider qualificati ed affidabili, che identifichino stringenti requisiti di qualità strutturale ed organizzativa. Tali regole sono già previste nel nostro ordinamento e sono quelle dell’autorizzazione e dell’accreditamento, istituto che va esteso a tutti gli erogatori di servizi sanitari e sociosanitari, compresi quelli impegnati nell’assistenza primaria (ADI, assistenza residenziale, tutela della Salute Mentale, ecc.). Infine, poiché non riteniamo sufficiente il controllo ex ante sui requisiti di qualità, è necessario che siano predisposte rigorose metodologie di controllo ex post sui risultati conseguiti in termini di salute. In questo modo il cittadino potrà esercitare appieno la propria libertà di scelta. 

Quale è il vantaggio dell’utente qualora la vostra proposta trovasse applicazione concreta? Che tipo di garanzie avrebbe il cittadino nel caso in cui il piano personalizzato assistenziale che ora elabora l’unità di valutazione fosse redatto direttamente dal proprio medico di famiglia? Chi potrebbe escludere un conflitto di interesse da parte del professionista che potrebbe prescrivere solo o prevalentemente quel tipo di prestazioni/servizi erogabili dalla sua struttura cooperativa di appartenenza?

Quella che proponiamo è una rivoluzione copernicana, un ribaltamento del paradigma, che metta al centro i bisogni del paziente e la sua libertà di scelta, non gli interessi degli erogatori, siano essi pubblici o privati.

Per raggiungere tale obiettivo, proponiamo un nuovo modello di welfare sanitario, a guida pubblica, ma più aperto al partenariato con il privato e, in primo luogo, con il privato sociale. Un Sistema Sanitario Nazionale 2.0.  Concretamente, significa immaginare l’infrastrutturazione di reti coordinate e solidali nei territori, dove la competizione tra pubblico e privato venga sostituita dalla loro alleanza strategica al servizio della cittadinanza, ognuno valorizzando sussidiariamente il proprio specifico contributo nel risultato comune, oggettivo e misurabile, di salute e benessere sociale. Serve uno sforzo culturale per dare concretezza innovativa a questi scenari, adeguando norme, strumenti e consuetudini, affinché si fondino non solo sulla riduzione dei costi ma anche sulle generatività di modelli di welfare che evolvano in processi di miglioramento continuo. Le caratteristiche stesse della cooperazione escludono il conflitto di interesse in quanto la cooperazione fornisce risposte ai bisogni, non perseguendo fini di lucro e non speculando sugli stessi, in virtù della forza della sua storia imperniata sui concetti di mutualità e della sua tradizione di sussidiarietà e solidarietà che, in questi anni, hanno portato a creare un vero e proprio esercito di operatori sul territorio capaci di fornire, integrandosi, risposte dove il sistema si è rivelato inadeguato. Inoltre Tali servizi e soggetti possono essere collegati, come d’altronde già avviene, al pubblico, ma possono anche declinare ventagli di offerta di prestazioni più ampi ed articolati attraverso il sostegno mutualistico. Tale sviluppo potrà avvenire assicurando regole certe agli attori sul territorio, riconoscendo loro lo specifico ruolo che gli spetta e garantendo una rigorosa misurazione dei risultati.

Le trattative per il rinnovo della convenzione della medicina generale è ormai al nastro di partenza e la linea di fondo è il potenziamento delle aggregazioni di medici nelle UCCP. Prevede che le vostre proposte possano trovare riscontro nell’attuale dibattito?

Il medico di medicina generale è ora chiamato a lavorare in equipe mono e pluriprofessionali, integrandosi con la struttura pubblica ed impegnandosi in programmi di assistenza continuativa (H24 e per tutti i giorni della settimana) e di assistenza mirata su specifici obiettivi. Le cooperative di medici, in particolare quelle di MMG, hanno dato un contributo importante alla sperimentazione di nuovi modelli organizzativi di continuità dell’assistenza primaria e di affiancamento del pronto soccorso nella gestione del triage. Queste esperienze amplificano gli spazi di azione della medicina di base come provider di servizi, che può trovare nella cooperazione sociale tra medici lo strumento d’elezione di cui servirsi per la gestione di strutture e funzioni nuove e complesse. La cooperativa sociale rappresenta, per la medicina generale, la forma organizzativa più adatta ad affrontare con maggiore efficacia ed efficienza una simile sfida. Al tempo stesso essa è la forma più idonea a dare risposte alle nuove sfide del territorio e ad arginare il “rischio” del prevalere di soggetti speculativi, lontani dalla logica dell’assistenza territoriale e della reale tutela del diritto alla salute delle persone.

Per questo sarebbe necessario dare maggiore riconoscimento al modello delle cooperative sociali di MMG, attraverso opportune previsioni anche all’interno degli Accordi collettivi per la medicina generale nazionale e territoriale, in linea con quanto già avvalorato da previsioni normative recenti e meno recenti.  Queste hanno configurato, nei fatti, un contesto istituzionale ed organizzativo che legittima spazi di azione della cooperazione tra medici come “provider di servizi”, profilandone la compatibilità al sistema e, al tempo stesso, la funzionalità allo svolgimento dei compiti fiduciari dei singoli medici. La partecipazione del medico di medicina generale, infatti, ad una società cooperativa nella qualità di socio lavoratore autonomo non contrasta né con il principio dell’unicità del rapporto di lavoro con il SSN (art. 4, c.7, L. 412/1991), né con i vincoli alla facoltà di esercizio della libera professione da parte del medico convenzionato né, tantomeno, profila situazioni di conflitto di interessi.

Riguardo lo sviluppo della cooperazione, come modello aggregativo per la medicina generale, si tenga altresì presente la possibilità di incentivare, come sta avvenendo in Lombardia con i CReG, forme di finanziamento bundle rivolte a provider cooperativi di servizi che, con il budget assegnato per ciascun paziente, sono chiamati a orchestrare ed erogare in modo coerente l’insieme degli interventi e delle prestazioni previste dai percorsi diagnostico-terapeutici-assistenziali.

Roberto Polillo

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