Succede di tutto nel grande frullatore messo in moto dalla pandemia. Difficile orientarsi e capire il senso e il verso delle cose. Ma un dato di fatto c’è. Bisogna correre, l’Italia deve correre per lasciarsi alle spalle questi mesi bui. E se sembra essere chiara la meta finale, ossia la ripresa economica e sociale, da concretizzarsi attraverso il Recovery Plan, meno evidente sono le strade da imboccare. Perché ciò che ancora non abbiamo imparato a fare è correre tutti insieme.
Le divisioni permangono, e sono forti. Il codice degli appalti è l’ultimo, tra i tanti, motivi di frattura. Abolirlo, sospenderlo, rivederlo in alcuni parti. Tutte posizioni che, al momento, sembrano inconciliabili. Non c’è solo una divergenza di merito, che forse potrebbe essere anche in parte sanabile, ma uno strappo culturale, di quelli che nemmeno l’emergenza pandemica è stata in grado di ricucire. La stessa incompatibilità emerge sul tema delle riforme, indispensabili per mettere a frutto i denari europei. Una biforcazione che si respira anche sulla questione blocco licenziamenti. Insomma visto attraverso gli occhi dei partiti di maggioranza, questo governo sembra aver già perso il motivo per cui era nato, diventando il ring nel quale misurare la propria forza. Il compito era oggettivamente arduo fin dall’inizio, e la scelta di Draghi era l’unica valida per tenere la barra dritta. Il premier, indefesso nella sua aurea compostezza, non sembra al momento risentire del continuo e sterile agone politico. Prosegue nella sua marcia, anche se il clima si sta facendo molto più caldo con l’approssimarsi delle elezioni amministrative.
Ma uno degli effetti del frullatore è quello di mescolare, dividere gli elementi, creando nuove combinazioni. E accade così che la sinistra venga progressivamente privata di quei valori e di quelle battaglie che dovrebbero essere congenite nel suo dna. La difesa di ristoratori, albergatori e liberi professionisti è ormai un vessillo inamovibile nella propaganda della destra. Alla sinistra è toccato vestire i panni dell’orco, di chi con sadico piacere ha inflitto chiusure e restrizioni. La parità di genere è stata un’ulteriore trappola per la sinistra, soprattutto per il Pd. L’unica donna leader di un partito e candidata premier è Giorgia Meloni. Nella composizione dell’esecutivo, Forza Italia, su tre ministri, due sono donne, Gelmini e Carfagna. Per la Lega c’è Erika Stefani. Il Pd è stato l’unico partito a schierare una squadra totalmente al maschile. Uno scivolone al quale si è cercato di rimediare in modo goffo con la nomina dei sottosegretari, e con le dimissioni imposte ai capigruppo di Camera e Senato, Delrio e Marcucci, sostituiti da Debora Serracchiani e Simona Malpezi. Insomma proprio lo schieramento che per sua natura avrebbe dovuto avere tra i suoi cavalli di battaglia la lotta alla disparità di genere, è stato la vittima di quel ragionamento per cui una donna occupa una posizione non per il suo valore, ma perché l’immagine che devo trasmettere al pubblico me lo impone.
Ecco perché Letta e il Pd dovrebbero convogliare le loro energie nell’approvazione del ddl Zan, spiegando che le legittime priorità economiche non sono incompatibili con l’allargamento dei diritti, ma che invece il benessere economico non può prescindere quello sociale. Ed ecco perché il segretario del Partito Democratica dovrebbe avviare una seria riflessione sul tema dell’equità e della giustizia fiscale, evitando di lanciare sul campo delle bandierine, che hanno tutto il sapore di una battaglia a risiko.
Tommaso Nutarelli