di Mario Ricciardi
E quattro. Dopo la riforma Amato (1993), la riforma Bassanini-D’Antona (1997/98) e quella Brunetta (1999) è la quarta volta in vent’anni che si mette in campo una riforma “organica” della pubblica amministrazione italiana, senza contare i numerosi interventi “micro” o settoriali susseguitisi negli anni. Un simile accanimento terapeutico, che non ha paragoni in altri settori, tranne forse in quello, altrettanto sventurato, del mercato del lavoro, può avere diverse motivazioni. Una può essere l’importanza strategica della pubblica amministrazione per chiunque si proponga di governare questo paese. Un’altra può essere la difficoltà dell’impresa. Un’altra (e quella forse più credibile, a parere di chi scrive) è il fatto che in questo, come in moltissimi altri casi, dopo aver progettato e redatto provvedimenti pensati e presentati come epocali, la politica non si è poi per nulla preoccupata della loro attuazione, e anzi, dopo aver constatato problemi e resistenze, li ha lasciati andare tranquillamente alla deriva: sicché viene da pensare che, anziché progettare ripetute riforme, sarebbe stato più opportuno ed efficace (e il suggerimento vale ovviamente anche per il futuro) preoccuparsi dell’implementazione delle riforme esistenti.
Come che sia, sembra che ora ci troviamo di fronte a un nuovo progetto: e diciamo “sembra” perché ciò che è noto appare decisamente spiazzante, tale è il contrasto tra l’ampiezza degli obiettivi enunciati e la sinteticità delle informazioni disponibili. Informazioni sulle quali, peraltro, è stata promossa dal governo una consultazione online che sembra avere riscosso un certo successo, anche se ci si può chiedere quale valore possa avere una consultazione siffatta: è come se ai giurati di un premio letterario venisse chiesto di assegnare il premio consultando i titoli dei capitoli dei libri in concorso.
Riservando dunque un giudizio ponderato a quando saranno noti anche i dettagli, si può dire che buona parte degli obiettivi proposti appare condivisibile, e si inserisce anzi in un dibattito da tempo aperto, con mete che riscuotono un ampio consenso, a partire da una cosa che non è nel progetto Renzi-Madia perché è già stata inserita nel decreto degli “ottanta euro”, ovverosia il tetto alle retribuzioni dei dirigenti pubblici.
Si tratta di una misura che non riguarda molte persone, e che dovrebbe più che altro lanciare un segnale. In questi anni, in realtà, all’interno della dirigenza pubblica le retribuzioni individuali (non la retribuzione base, ma le retribuzioni di posizione e di risultato) sono cresciute in maniera consistente. Ciò non corrisponde, in gran parte dei casi, a nessuna delle ragioni che nel privato presiedono alla determinazione delle retribuzioni del management di livello medio-alto (discorso tutto diverso riguarda ovviamente il top management). Per i dirigenti pubblici non valgono né le leggi del mercato, né la precarietà implicita nel ruolo dirigenziale, e per molti tra essi neppure il livello e il peso delle responsabilità attribuite. La crescita numerica della dirigenza pubblica e delle sue retribuzioni trae largamente origine da ragioni d’ordine politico-corporativo, e il passo successivo all’apposizione del “tetto” dovrebbe essere un deciso ridimensionamento e una ripulitura degli organici dirigenziali finalizzata ad attribuire posizioni (e stipendi) a funzioni effettivamente strategiche e a capacità effettivamente comprovate.
Che quello della dirigenza sia giustamente percepito come un tema strategico per il rinnovamento della p.a. sembra emergere con nettezza dai titoli del progetto Renzi-Madia, ritornando per diversi aspetti all’impostazione che ispirò la riforma della dirigenza alla fine degli anni novanta, e che fu poi stravolta da Frattini e da provvedimenti successivi: quella riforma si proponeva infatti di creare un vero e proprio “mercato” della dirigenza pubblica, nel quale soltanto l’accesso era regolato dal meccanismo concorsuale, mentre la carriera del dirigente era improntata a una serie di reciproche e motivate opzioni tra l’amministrazione e il dirigente stesso, concretizzate nell’attribuzione di un incarico a tempo. E ciò poteva avvenire nell’insieme dell’amministrazione pubblica, dando al datore di lavoro un’ampia possibilità di scelta, e al dirigente la possibilità di fare esperienze in ambiti diversi. A questo sembra voler ritornare il governo con la reintroduzione del ruolo unico, e la proclamata serietà della valutazione. Più discutibile può apparire la proposta di eliminazione delle due fasce dirigenziali, abolizione che forse va attribuita alla cultura un po’ “da enti locali” (dove esiste una fascia dirigenziale unica), del premier e dei suoi più stretti collaboratori, ma che non è detto vada bene per tutte le amministrazioni. Ovviamente non si può dimenticare che queste buone intenzioni devono fare i conti con alcuni dati di fatto. Il primo è che ancora non esiste, nel nostro paese, un serio e generalizzato sistema di valutazione del personale pubblico. Esistono varie esperienze, più o meno buone e consolidate, esiste un rispettabile dibattito accademico, esiste un modello esageratamente barocco e molto criticato (si pensi al sistema delle “tre fasce” di merito) contenuto nella legge Brunetta. E’ dunque, questo della valutazione, un tema da costruire pressoché integralmente, se si vuole dar corpo alle intenzioni. Vi è poi la questione di fondo del rapporto tra politica e dirigenza. Ogni riforma, anche la meglio congegnata, può funzionare soltanto se dirigenza e politica fanno il loro mestiere in spirito di collaborazione e rispettando reciprocamente i limiti delle proprie competenze. Per questo serve certamente avere una dirigenza rinnovata e opportunamente formata (assolutamente condivisibile l’intenzione di unificare le Scuole di formazione della p.a.): ma altrettanto, se non più, è avere un ceto politico alieno da invasioni di campo e clientelismi e questo, pur con tutto l’ottimismo del caso, è un poco più difficile da ottenere.
Altre norme riguardanti il restante personale sono poi enunciate nel progetto di riforma, e qui per dare una valutazione bisognerebbe andare oltre i troppo scarni enunciati finora disponibili. Sono evidenti due intenzioni di fondo, una è quella di riaprire gli accessi al lavoro nella p.a,, l’altra è quella di introdurre maggiore flessibilità nella vita del rapporto di lavoro. Al primo obiettivo sembrano essere rivolti sia l’abrogazione dell’istituto del trattenimento in servizio (che peraltro richiede oggi l’assenso dell’amministrazione) sia la reintroduzione dell’istituto dell’esonero, cioè della possibilità, introdotta nel 2008 e successivamente soppressa, che il dipendente pubblico nel quinquennio precedente alla pensione chieda di smettere di lavorare in anticipo percependo un salario ridotto. Molto delicato è naturalmente il tema della mobilità, volontaria e obbligatoria, che è adesso disciplinata da norme di legge e contrattuali: si tratta peraltro di norme, in particolare per quanto riguarda la mobilità collettiva per eccedenza di personale, sostanzialmente già in linea con il settore privato. Per quanto riguarda la mobilità individuale già la legge Brunetta dà la possibilità al ministro della p.a, di procedere con decreto ad attuare i processi di mobilità “anche volontaria” necessari per riequilibrare gli organici tra le amministrazioni pubbliche.
Accanto alle questioni riguardanti il personale, vi è poi nella proposta Renzi-Madia un lungo elenco di tagli e razionalizzazioni, leggendo il quale, dopo aver apprezzato l’intento generale, non ci si può sottrarre a una certa impressione di approssimazione o di faciloneria. Innanzitutto perché non è evidenziato alcun obiettivo di carattere generale se non quello di operare tagli, mentre sembra essere assente (o comunque non è espresso) un intento strategico, né appare concreta la percezione della differente qualità degli interventi proposti. Accorpare Aci, Pra e motorizzazione civile è probabilmente opportuno, così come lo è razionalizzare le autorità portuali, ma non è certamente la stessa cosa la “riorganizzazione strategica della ricerca pubblica” che non può essere assolutamente perseguita semplicemente attraverso processi, seppure in qualche caso forse opportuni, di accorpamento. Così si dica della riorganizzazione del sistema delle autority, che è sicuramente necessario (altrettanto dicasi, se non di più, del proliferare delle Agenzie), ma che, come nel caso della ricerca, riguarda una riflessione ampia e seria su settori spesso delicatissimi del funzionamento dello Stato, e non può certamente essere assimilato a un accorpamento di uffici. L’impressione è insomma che nell’elenco si siano inserite, forse con l’intento di dimostrare che “vogliamo fare sul serio”, e una certa tendenza bulimica del nuovo esecutivo, cose che proprio non stanno assieme, e la fretta e l’approssimazione, in casi come questi, sono pessime consigliere.
Accanto ai tagli, vi sono poi diversi “titoli” che riguardano provvedimenti tendenti non solo a semplificare, ma a impedire comportamenti della burocrazia che possono rallentare o rendere più difficile il processo politico decisionale. Leggendo l’intento di ridurre il controllo della Ragioneria generale dello Stato (vale a dire del più potente degli apparati statali) al controllo “solo” sui profili di spesa viene spontaneo pensare a Renzi come un coraggioso Davide, cercando di soppesare la portata della sua fionda.
Meno rischiosi, ma altrettanto destinati a seminare ostacoli sul cammino del governo si può prevedere che saranno la riduzione delle prefetture e il ridimensionamento delle camere di commercio. In un altro ambito, quello dell’indispensabile ridimensionamento del contenzioso giudiziario, sarebbe forse utile che il governo ripescasse e valorizzasse l’idea dell’arbitrato nelle controversie di lavoro, che si tentò inutilmente di far decollare all’inizio del decennio scorso.
Una cosa non c’è, infine, nel lungo elenco delle intenzioni di Renzi-Madia: non si parla di contratti né di sistema contrattuale. Si può pensare che il silenzio nasca dal fatto che il sistema contrattuale esistente va bene così, secondo il governo, o forse che con l’erogazione degli ottanta euro ai bassi redditi la questione-contratti può dirsi archiviata per un bel po’. Non è chiaro quali siano le intenzioni del governo a questo proposito, e anche le dichiarazioni del presidente del Consiglio e della ministra non si sono sbilanciate più che tanto, salvo rinviare la questione alla redazione della prossima legge finanziaria. Sarebbe opportuna, invece, una riflessione su almeno due aspetti Il primo, contingente ma nient’affatto secondario, riguarda il fatto che nessuna intenzione di miglioramento della qualità delle pubblica amministrazione può prescindere da un efficiente sistema di premi e carriere, e che la situazione è ferma da troppo tempo, in assenza di contratti. A ciò si aggiunga che molti degli interventi promessi dal governo impattano su norme contenute nei contratti collettivi: è intenzione del governo spostare ancor più, dopo Brunetta e Tremonti, il baricentro della disciplina del rapporto di lavoro verso lo strumento legislativo?
Il secondo aspetto riguarda invece l’impianto stesso del sistema contrattuale pubblico, pensato e nato, negli anni novanta in condizioni politiche, economiche e finanziarie profondamente diverse da quelle odierne. E’ ragionevole, alle condizioni attuali, tenere in vita un sistema di fatto centralizzato a livello interconfederale? E’ ragionevole pensare che possa riprodursi il tradizionale paradigma per cui si partiva da uno stanziamento di risorse consistente e sostanzialmente uguale per tutto il pubblico impiego, seguito da trattative sostanzialmente “ a fotocopia” gestite a Roma da un unico soggetto datoriale? Oppure perpetuare questo sistema è l’alibi per mantenere il sostanziale congelamento, e la rottamazione di fatto del sistema contrattuale pubblico? Sono domande alle quali il governo, ma soprattutto i sindacati, una volta superato il disagio per il progettato dimezzamento dei permessi, dovrebbero saper rispondere.
Mario Ricciardi